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LIVIA DI VONA RECENSISCE “IL SILENZIO DEGLI_ORACOLI”, L’ULTIMO LIBRO DI FLAVIO FERRARO.

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LIVIA DI VONA RECENSISCE “IL SILENZIO DEGLI ORACOLI” DI FLAVIO FERRARO. L’ARCOLAIO

I CODICI DEL ‘900.

ARTICOLO APPARSO SU PROGETTO SYLLABUS

Si perde nei meandri della storia quel monito di Meister Eckhart che ci invita ad abbandonare e strada e tempo e immagine per risalire la traccia del deserto. Un invito a compiere il cammino verso un essenziale che si veste di forma per poi, diventato il passo sicuro, lasciarla lungo la via. Riecheggiano queste parole nella poesia di Flavio Ferraro, ne Il silenzio degli oracoli (L’Arcolaio, 2021), raccolta di tutta l’opera poetica edita fino ad ora, dove dai versi giovanili si procede verso il dissolversi della sintassi senza forzature – non per mero atteggiamento dissacratore della forma -, fino a percepire distintamente il chiarore aurorale di un essenziale che si incarna nella parola poetica. I titoli delle raccolte riunite in questo volume Da un estremo margine (2009-2010), La direzione del tramonto (2011-2012) e La luce immutabile (2013-2016), segnano come snodi l’incedere poetico di Ferraro verso l’alto, fendendo il qui ed ora come dardo infuocato, a smascherare inganni e storture del proprio tempo, perché quando gli occhi sono pieni di un orizzonte più vasto, la fedeltà del poeta a questo orizzonte diventa missione religiosa. Il sacro è al centro della sua ricerca; versi ed esistenza camminano di pari passo in direzione opposta ad un tempo e ad un spazio di riferimento che considerano il sacro una bestemmia per un emancipato (da sé stesso) uomo postmoderno. Ferraro è studioso attento e profondo della Tradizione (e che sa riconoscere ciò che Tradizione non è), che certamente non è il passatismo tanto detestato dai cantori di futuri radiosi liberi dal giogo dell’Assoluto, questo è cibo per la ruggine ci dice. È recuperare, andando per sentieri sempre meno battuti, un’origine di senso che non avvizzisce come seme infecondo nella Storia, ma la attraversa avendo come meta l’eterno.

Andare così, senza riparo

in bilico sul ghiaccio,

immemori del vetro,

del suo lento cospirare.

Portare un mondo

dentro di sé come fosse l’eco

di un naufragio, l’ultima driade

salvata dall’incendio.

Non fondare, né distruggere,

ma dirigersi, sempre.

Un alternarsi di gorghi e vertigini: il gorgo in cui si resta impantanati perché la tentazione del nulla lambisce esistenze che neanche si concedono di sperare e vertigine di un Oltre, scolpita come inestirpabile nostalgia. “Le stelle sanno di essere stelle”, scrive Ferraro. Guardiamo, dunque, queste devote testimoni del perenne, misticamente fedeli al proprio destino di luce per uscire dal buio e dal silenzio rimasto quando le antiche e invisibili porte, si chiusero un giorno lasciando sospesi gli oracoli. E pare di ascoltare il tremendo racconto di Plutarco, che nel De defectu oraculorum, narra dello smarrimento del mondo all’annuncio della morte del grande Pan. Ma c’è una quieta certezza in Ferraro, che sa resistere alla furia del mondo che ha cacciato Dio; così non solo la sintassi si dissolve: anche i nomi vanno verso un dissolversi, dove le cose, quelle imperiture, torneranno ad onorare il proprio destino, facendosi specchio per il riflesso del Suo volto. Non tralascia, soprattutto nella raccolta che chiude il libro, di redarguire con vigore i falsi eroi per autoinvestitura di questi tempi stupidi:

Abbattete pure, sradicate,

profanate ogni soglia:

sarete sempre i parvenu

del cosmo, meschini come i vostri spiccioli.

Dunque queste spoglie,

o le vestigia che ignari

custodite, non provano

nulla contro i vinti.

Che qualcosa di più

alto vi superi –

questo non tollerate.

 Intanto, c’è una segreta simmetria da scovare, un’arcana, eterna corrispondenza tra l’alto e il basso (come ci ricorda citando Ermete Trsimegisto) da riconoscere. È un istante, sigillo del perenne, che ci attende fuori dal tempo, dagli annali dell’orrore.

Vedi, gli uomini passano.

I semi che scomparvero,

fioriscono.

GRAZIA CALANNA INTERVISTA VITO BONITO CHE PARLA DEL SUO ULTIMO LIBRO: “DI NON SAPERE INFINE A MEMORIA. COLLANA “IL LABORATORIO”.

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Vito M. Bonito, «oltre/ la striminzita misura umana», e intorno al “Di non sapere infine a memoria”.

POESIA & POETI

Grazia Calanna

Giugno 21, 2022

Bisogna «andare oltre/ la striminzita misura umana», oltre il «materialismo militante», oltre «l’annientamento degli uomini», oltre «un’impronta di resa». È parte di quanto cogliamo dal sottile “racconto” di Vito M. Bonito (nella foto di Dino Ignani), leggendo “Di non sapere infine a memoria (1978 – 1980)”, edito da “L’arcolaio”, nella collana “Il laboratorio”, diretta da Luciano Neri. Il poeta, incrociando fatti, interrogativi, enigmi, ipotesi, visioni, desideri, rischiara uno spaccato di storia intonandolo al “dualismo vittima/carnefice del genere tragedia” in cui, “ogni possibilità di io/tu viene orientata alle sue estreme conseguenze”.

Qual è stata la più intima scintilla che ha portato il tuoDi non sapere infine a memoria”?

C’è un dolore mai sopito all’origine di questo libro. Un dolore che ha lavorato per circa 40 anni. Non saprei dire quale tipo di dolore e quale la sua causa. Posso immaginare che non sia uno solo o di una specie sola. Ci sono io tra i 15 e i 17 anni, c’è la politica, c’è il sangue e i morti che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso abbiamo visto spargere ovunque in Italia e non solo. C’è anche un impulso creativo legato alla mia vita di quegli anni. Tutto questo ha lavorato in modo sordo ma costante fino a circa 10 anni fa, quando ha iniziato a prendere forma questo libro uscito poi all’inizio del 2021. Il libro è una ‘tardiva’ resa dei conti con me stesso, quegli anni e la possibilità di scrivere un libro estraneo persino a me stesso o all’idea che ho di me stesso (se così si può dire). Pur parlando di una stagione tragica e annegata nel falso ideologico, il libro è per certi versi comico, o meglio hilarotragico. La difficoltà è stata togliere il peso delle parole ovvie e inoltrarsi nel delirio del linguaggio balordamente ‘mistico’ di quei decenni e dei comunicati di morte che fiorivano, in ogni stagione, dal sangue e nel sangue. Ma come rendere ‘lieve’ il delirio di quella lingua? Come rendere quella lingua ancora più cieca e intransitabile di quanto già non fosse? Avevo già scritto un libro da cui questo può discendere: Soffiati via (2015). In qualche modo sono partito da lì. Solo partito. Senza sapere dove andare però. Attraverso la morte altrui, c’è anche la mia morte in di non sapere infine a memoria. C’è paradossalmente un elemento ludico della scrittura che ancora mi tiene e mi fa scrivere senza più ritegno, senza più ‘dignità’. Un gioco al massacro si potrebbe dire, se non fosse che prendersi sul serio in poesia, in letteratura, in vita e in morte, è cosa assai disdicevole e trista.

In che modo la vita diventa linguaggio?

La vita diventa linguaggio quando sposti la vita Altrove. Il linguaggio deve configurare mondi altri, deve inoltrarci là dove non pensavano di poter andare. Soprattutto la lingua non deve morire nel mondo reale, nella lingua del mondo reale. Sempre che il reale esista. La questione è fino a che punto siamo in grado di desaturare il linguaggio, la parola, l’immagine.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Sì. La poesia è l’intransitabile, se si pretende di essere in grado di comprendere tutto o quasi. C’è un margine in ogni cosa che non è possibile toccare. Attraversare. Forse è proprio il fallimento della lingua. La poesia è anche un punto di non ritorno. Ma per arrivarci c’è bisogno di un atto di sottomissione. Magari giocoso, irridente persino, ma atto di sottomissione deve essere. Bisogna farsi ciechi e sordi. La postura della cecità e della sordità si incrocia con la parola storpiata, producendo così un corpo sconosciuto, una logica della sensazione in cui noi cadiamo estaticamente fuori di noi. Bisognerebbe stare sempre fuori dal visivo e dal parlato. Le mani devono vedere ascoltare e dire. Così si finge per raggiungere l’impensato, l’intangibile di una verità fuori di sé. La poesia, l’arte sono allora davvero una «fata morgana», che cattura «cose che non sono reali, che non si trovano lì» (Werner Herzog).

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

Incide totalmente se per «“verità” della parola poetica» intendiamo l’effetto di verità, e non di realtà. Se intendiamo, come vuole Werner Herzog, la «verità estatica» e non la verità estetica. La verità non indica nulla. La verità è vera solo nell’esporsi, nell’offrirsi fuori di sé conficcata nella forma del proprio rivelarsi. La verità rivela solo quando si rivela, e pertanto può essere in sé solo a patto di essere fuori di sé. La verità è sempre a fior di pelle. O a “fuor” di pelle. È proprio in questo viaggiare dentro l’alterità più disturbata e irraggiungibile che si colloca la Gegenbild, se così si può dire in allusione celaniana, della poesia. Tutto deve essere contromano. Si viaggia dentro una ferita sensoriale, un’apnea percettiva: è questo che dischiude la lingua al mondo, all’esistente, proprio quando accetta l’irreparabile della finzione suprema come unica possibilità di accesso al vero – là dove l’immagine si fa controimmagine.

La verità è fuori da sé.

La verità – è fuori di sé.

Si può accedere alla «verità estatica» per sincope o attesa, arresto o dilatazione. Ciò che importa è portare il nostro “visibile parlare” sui margini del proprio estremo compimento, della catastrofe, del proprio fallimento: e lì restare per il tempo necessario e poi cadere – svanire. La poesia sono favole senza speranza. Favole velenose, in cui tutte le cose affondano. E ridono. Bisogna doppiare i fantasmi. Mediante altri fantasmi, la poesia trasporta l’esperienza là dove solo la potenza del falso la intensifica, e intensifica la verità solo quando riesce a concepire cose che non sono o non sono ancora. Ombre come cose salde, per stare ancora nel solco dantesco. Senza queste falbe sembianze, senza questi simulacri, ogni vago barlume di verità viene di colpo cancellato. Non ci sono verifiche ‘sperimentali’ da fare. La verità della poesia è un futuro handicappato.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Non so. Davvero. È un lavoro lungo – di ascolto innanzitutto.

Bisogna imparare ad ascoltare e poi a dire. O a dire per ascoltare.

Posso dirla così:

Perché il vento è cieco?

Perché il vento è cieco?

Perché non so morire?

Cosa può la poesia? E cosa può “contro” la “striminzita misura umana”, il “materialismo militante”, i “giganti immaginari”, “l’annientamento degli uomini”?

Credo poco. Se prendiamo giustamente sul serio queste parole. La poesia sta dentro la striminzita misura umana, forse ne è la più alta rappresentazione. Il dramma è quando qualcuno crede che tale striminzito gesto, la poesia, abbia debba avere un qualsiasi valore. La poesia, l’arte in genere, agisce proprio quando non pretende di agire. Quando ci rende spaesati, fuori luogo, fuori fuoco. Il volontarismo non va da nessuna parte, vuole solo mettere a fuoco il millimetro che è in grado di vedere e presuntuosamente dominare. Se non cogliamo la musica dell’abbandono, in cui peraltro siamo stati abbandonati, siamo abbandonati, ci siamo abbandonati, nulla possiamo. La poesia, l’arte indicano – non dicono. Solo allora possono spostarci dal millimetro in cui siamo soliti vivere e guardare al mondo.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

A me la poesia ha donato l’inudibile. Davvero l’altro mondo. «L’arte di esistere contro i fatti», se vogliamo parafrasare Thomas Bernhard e le pagine bellissime che Aldo Giorgio Gargani gli dedica.

Non credo la poesia abbia ricevuto alcun dono da me, (la domanda è sottile, nella sua doppiezza).

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Mi rifugerei nel canto 31 del Paradiso dantesco o nella poesia di Celan, o ancora nella nenia pascoliana (vero e totale amnio di una lingua madre, acustica totale di una cantilena ininterrotta). Il rifugio più profondo per me resta Alifib di Robert Wyatt (è una canzone da Rock Bottom, 1974), uno dei più grandi musicisti del secolo scorso e non solo. E un altro pezzo, questo di Joni Michell – Both Sides Now nella versione orchestrata del 2000. Tuttavia porto con me, per ragioni legate a mia madre, due testi di Montale:

uno da Satura

Avevamo studiato per l’aldilà un fischio,

un segno di riconoscimento.

Mi provo a modularlo nella speranza

che tutti siamo già morti senza saperlo.

L’altro da Quaderno di quattro anni:

In negativo

È strano.

Sono stati sparati colpi a raffica

su di noi e il ventaglio non mi ha colpito.

Tuttavia avrò presto il benservito

forse in carta da bollo da presentare

chissà a quale burocrate; ed è probabile

che non occorra altro. Il peggio è già passato.

Ora sono superflui i documenti, ora

è superfluo anche il meglio. Non c’è stato

nulla, assolutamente nulla dietro di noi,

e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla.

 Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “di non sapere infine a memoria” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

A tal proposito vorrei riportare quanto uscito proprio su l’EstroVerso circa un anno fa:

16 marzo 1978: a Roma, le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro – uccidendo gli uomini della sua scorta; 9 maggio 1978: Moro viene giustiziato dalle Brigate Rosse; avevo 15 anni.

28 maggio 1980: a Milano Walter Tobagi viene ucciso dalla Brigata XXVIII marzo; avevo 17 anni.

Prima e dopo altri furono assassinati – ma non so dire perché la mia memoria torna di continuo a questi due eventi, come una brace, un filo a piombo sul sangue.

I salti di memoria, le fratture temporali, le inesattezze sono volute – questo libro non vuole ricostruire niente – non sa, né potrebbe farlo; all’oscuro com’è anche di se stesso.

di non sapere infine a memoria (1978-1980) attraversa 7-8 anni di studio e scrittura. Nel dissesto della memoria di un adolescente che allora ‘faceva’ politica, si sono inserite letture non più casuali, non solo documentarie e testimoniali. Né esclusivamente saggistiche. Nei buchi della memoria si sono ricomposte voci vive e morte di allora e di adesso, voci di poeti che mi venivano incontro a tenere a freno la lingua, ogni possibile dizione ‘poetica’ (sia chiaro, a scanso di equivoci, anche l’insignificanza della prosetta in prosetta; o della poesia finto poesia che finge qualcosa che non sa; o le contumelie rococò di una qualsiasi scrittura che si presume ‘di ricerca’).

Il libro è organizzato secondo una scansione pseudo-tragica. Pseudo dal momento che ci sono all’interno dei ‘fuoriposto’, degli inserti grotteschi, talvolta comici (se così possiamo dire), indisciplinati verso una possibile forma del testo.

Nella partitura del libro, le figure si inseguono in coro, si alternano e si sovrappongono ma quasi assentandosi l’una dall’altra. Chi parla è conficcato nella propria fine. Gli unici spettatori, forse, di questa fuga di voci sono Stalin e Mao che, morti, guardano la televisione e assistono (stupefatti, compiaciuti, luminosamente retrogradi) al delirio storico, politico e ideologico da loro stessi innescato.

Dentro il bagno di sangue che furono i cosiddetti ‘anni di piombo’, galleggiano uomini e donne, vittime e carnefici, figlie e figli che furono toccati, feriti, esplosi. Compresa ogni forma di memoria che sebbene tenuta in vita si dirada pur di sopravvivere a se stessa.

di non sapere infine a memoria (1978-1980) si è costruito così, senza una ragione esterna, senza una decisione volontaristica di intervenire, di dire ‘qualcosa’ su quei tempi. È un soprassalto di fantasmi che mi abitano, fantasma io stesso, non so perché.

È il libro di chi non sa pensare, non è in grado di pensare cosa sia stato vivere in prima persona quei terribili eventi. Cosa è stato uccidere, cosa morire – cosa essere sopravvissuti a tanto orrore.

A un eventuale lettore potrei dire che il libro inizia con un canto dei bambini monocellulari (quasi parola amniotica di chi poi prenderà in mano le armi per una rivoluzione mai avvenuta e di fatto negata proprio da chi le armi le indossò) e si chiude con uno stasimo fuoriposto (le figlie, i figli, anche di pochi anni, che videro spazzate via nel sangue le vite dei loro padri). All’interno di queste due sezioni, le vicende tra il 1978 e il 1980 – trasfigurate, balbettanti, insensate quasi.

Il testo che propongo è la sequenza finale:

stasimo

(canto fuoriposto)

I

come faccio a dirti come sono?

come faccio le parole?

seduta qui tra sedie vuote

come faccio a togliermi

questo vento dagli occhi?

tu alla mia età

alle sedie vuote ci parlavi?

II

l’aria il vento l’aria      il vento il vento

l’aria il vento               l’aria

l’oro il sangue              il sangue

le rose                          le anime esplose

III

ho cinquant’anni papà

porto gli occhiali anch’io

spesso li tolgo

per vedere i morti         iddio

ma comincio a pensare

che non basta non vedere

per vederli

forse non basta

neppure morire

IV

non ci sei mai

sulla giostra con me…

e i morti a ogni giro

fanno domande

sempre più assurde…

V

ma non è così che moriamo

disse la figlia la spada afferrando

miliardi

di anni luce mi vedi?

sono arrivate le api

che poi ci siete tutti

come lanterne

che diventate bambini

disperati ancora

ma a casa

                  infine

VI

nel fuoco dei capelli

nessuno da perdonare

prendimi in braccio       papà

non ce la faccio             più

da sola a                        bruciare

 Qui volendo scendere nell’origine della sequenza posso dire che tutto è nato dalla proiezione che ogni genitore fa, credo, sulla propria scomparsa e su cosa accade a chi resta, nello specifico a una figlia o a un figlio. D’altronde chi scrive è stato anche figlio. E ha fatto improvvisamente l’esperienza del lutto, come perdita dell’orizzonte e del senso e come esperienza di una qualche forma di ‘preghiera’, di una qualche possibilità di dire al nulla, al niente, a nessuno. Alcuni di questi testi erano già scritti a prescindere dal libro, magari in altra forma. È una figlia che si rivolge al padre morto da non si sa più quanto tempo. Ma il tempo non sembra essere passato da quella data in cui la bimba era molto piccola e ha visto morire il padre. Nella stesura per il libro, il mio pensiero è andato alla figlia di Walter Tobagi. Ma ovviamente si è incrociato con l’immagine di mia figlia allora treenne. È dunque la voce di una bimba che parla, che abbia tre o cinquant’anni non conta. La morte di qualcuno ci conficca in uno spazio-tempo ineludibile. In una sorta di presente immobile, in cui eternamente si ripete la scena, in cui eternamente noi ci muoviamo senza spostarci di un millimetro. Questo è quanto. Sono cose che avrei detto io quando mia madre è morta; e ora che è morta da 40 anni ormai non posso che ripeterle così. Non importa il ‘chi’, in questi versi. Volevo arrivare al cosa, o forse al dove. Dove siamo, dove non siamo. Dove non siamo arrivati, dove siamo morti senza saperlo. Quando non è fondamentale. Quando è già accaduto, da sempre.

 (la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 20.02.2022 pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

ESCE OGGI IL NUOVO LIBRO DELLA COLLANA PHI: E’ “SONETTI BIANCHI”, L’ULTIMO LIBRO DI GABRIEL DEL SARTO.

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Esce quest’oggi il nuovo libro di Gabriel Del Sarto (Sonetti bianchi) per la collana phi. Un’opera tra le più rappresentative del poeta toscano. Un insieme di prose e di versi, eccellentemente equilibrati da un accordo tematico, dove si narra delle attese di un padre davanti all’evento eccezionale: la nascita di un proprio figlio. Un dialogo dettato da un senso d’amore che oltrepassa ogni limite affettivo. Un dono elargito al lettore con delicatezza e ritegno.

Affidiamo la nota editoriale all’ottimo Gianluca D’Andrea, che di questo libro è il curatore.

Auguriamo ai nostri amici una buona lettura di alcuni brani che il volume contiene.

Un abbraccio a voi tutti da Gianfranco.


Dopo aver saldato in un canzoniere unico le sue prime tre raccolte (Tenere insieme, Samuele Editore, 2021), Del Sarto con Sonetti bianchi ci introduce a una nuova e significativa tappa del suo cammino poetico. La sua poesia “liminare”, fatta di soglie relazionali, si sposta sempre più verso una volontà, o meglio, un’urgenza di rinascita avvertibile anche su un piano storico-generazionale. Se è vero che, come in molte zone della sua opera emerge, Del Sarto parte sempre da dati concretamente biografici, è allo stesso tempo evidente quanto questa stessa biografia si concentri in maniera nevralgica sui dati salienti della storia da essa attraversata. A tal proposito, si noterà facilmente il filo che lega Il grande innocente (ultima raccolta prima di Sonetti bianchi), a partire dalla figura quasi archetipica del nonno del poeta, a questa raccolta e al suo protagonista, Giona, il più piccolo dei figli di Del Sarto. Il sentiero “familiare” inaugura una vera e propria “vita nuova” (cui viene da pensare anche leggendo le introduzioni in prosa alle tre sezioni del testo), portatrice di un messaggio cosmico che solo l’accoglienza immediata di chi “appare” può sperare di realizzare.

Gianluca D’Andrea


Alcuni testi:

In sala d’attesa riesci a ingannare il tempo solo facendoti del male: vai al distributore automatico del caffè, ne assapori l’acidità, accartocci poi velocemente il bicchierino e consulti qualche sito di informazione medico-scientifica, dove leggi che i risultati delle analisi del sangue vengono confrontati con le informazioni date dalla translucenza nucale e con altre variabili. È dalla combinazione di questi dati che si arriva a individuare i feti a rischio di anomalie cromosomiche. Ti accanisci, cerchi di capire e, soprattutto, memorizzare più dettagli possibile. Fai una pausa e poi decidi di continuare. La parte ecografica dello screening, ora memorizzi, consiste nell’esecuzione di una serie di misurazioni: lunghezza del feto, frequenza cardiaca fetale, spessore della translucenza nucale, valutazione della presenza dell’osso nasale. Grazie all’esame ecografico, inoltre, è possibile studiare tutte le eventuali alterazioni morfologiche individuabili nel primo trimestre, che possono essere mandatarie di anomalie cromosomiche o genetiche.

***

Il fiume è molto grande e nessuno

può conoscerlo. Ognuno accoglie

il lembo di terra e di delta, l’ansa,

che può afferrare. Solo le madri

hanno un limite sconosciuto, mani

porose per farsi attraversare

dai figli, dalle correnti enormi

dei cieli, venti cosmici come acque,

occhi fissati nei destini, voci

infine queste voci argentine,

che possiamo soltanto riverire.

Le madri e il fiume. E poi un orizzonte

che non vedremo, oltre le paludi

che ci animano, come oche selvatiche.

***

Un pomeriggio, a casa da solo, ho pensato troppo. Cercavo notizie sulle incubatrici, sui bambini più fragili che spesso ne fanno esperienza. È così che ho letto in modo confuso notizie su Anna Smajdor, una ricercatrice in bioetica dell’Università di Oslo, che equipara la gravidanza a una malattia (per essere precisi la paragona al morbillo) e chiede al governo maggiori finanziamenti per poter debellare il parto e promuovere l’ectogenesi. L’uguaglianza dei sessi. La fine dell’età vittoriana. Il lessico per il futuro.

Poi Google mi suggerisce un link alle ricerche del prof. George Mychaliska. La placenta artificiale in grado di mantenere in vita i neonati estremamente prematuri sarà presto realtà. Un tubo endotracheale fisso farà in modo che il feto non inizi a respirare troppo presto e non danneggi i suoi polmoni prematuri.C’è sempre un’idea di bene all’origine.

***

Tremerà la morte, si farà pallida

quando nel suo grembo notturno – giorno

splendido e crudele – scivolerà

il tuo nome. Dove sarò, colomba

mia? Se tutto diviene protezione

e scarto dal giorno ovvio, se tutto

chiama a questo essere qui, per te vivo,

corpo e storia, stile perenne, inverno

del secolo – se tutto inizia questo

sorriso prematuro, quale grido

negli orli sentirò del cosmo? Un inno

perso, una musica grande che piega

i calendari, la stringa con dentro

la nostra nascita, il tempo e la luce.

***

(…) È domenica, siamo in quarantena come molti. Santifico la festa con te, figlio balbettante? Per anni mi sono mosso fra piani aziendali e procedure da certificare perché non fossero mai attuate, ma passassero violentemente sopra le teste di chi lavora. Divisioni del lavoro che in realtà sono divisioni delle emozioni e delle identità. Ho prestato così la mia opera, proponendo compromessi al ribasso fra il profitto e l’umanità che chiedeva udienza. Piccoli cenni su un benessere possibile, da immaginare se vi va, per tutti. Una nota di felicità, dicevo. Il capitale, la forza lavoro, qualche dirigente progressista almeno nella vita. Da quando sei nato, quell’equilibrio ha iniziato a incrinarsi. Ho fatto un concorso, ho cominciato a insegnare per potermi permettere di selezionare pochi clienti, i migliori, i più umani. Ho scoperto che non mi basta, Giona. Sento che il crollo finale è vicino. Tratterrò, se vuoi e finché avrò forza, insieme le parti, le forze opposte. Ma non prometto nulla.

Trascendersi è meglio di niente, ma non è come essere trascesi.

***

Lo stormo, il flusso nelle forme fredde

che ci chiudono, i punti di luce

nel cielo di notte: dovremmo ogni

giorno pensare alle galassie, ai gas

fra le rocce, l’unione delle coppie

dentro la malinconia dei gameti,

umidi in qualche alba. Come arbusti

marini, caro figlio mio, ignoriamo

le silenziose sinfonie stellari

che ci plasmano, grandiose e lontane,

duplicando cromosomi sul niente

del più piccolo autosoma che segna

te e me, che siamo svegli siamo vivi

e verdi, in una sfera che germoglia.