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LA CASA EDITRICE L’ARCOLAIO E’ LIETA DI ANNUNCIARE LA PUBBLICAZIONE DEL LIBRO “NEL PROFUMO DELLE CATACOMBE” DELL’AMICO GIAN RUGGERO MANZONI.

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E’ davvero con grande gioia che annuncio la pubblicazione dell’ultimo progetto in versi dell’amico Gian Ruggero Manzoni. Il titolo di questa raccolta è: “Nel profumo delle catacombe“. Vi rimando direttamente alla mia prefazione, che posto adesso qui sotto.

La redazione accoglie Manzoni nel catalogo Arcolaio e si augura, assieme a me, che nascano in futuro nuove avventure editoriali con Gian Ruggero!

(gf)

 

È per me un grande piacere presentare la nuova raccolta poetica dell’amico fraterno Gian Ruggero Manzoni. La nostra amicizia risale esattamente a quarant’anni fa, quando ci incontrammo per la prima volta, a Forlì, in occasione di una mostra d’arte. Eravamo reduci entrambi dall’esordio editoriale (lui con “Pesta duro e vai tànquilo”, edito da Feltrinelli, e io con due libricini di versi, “Di tutto un niente” e “I pantaloni del Po”). Ruggero stava portando avanti una sua idea su un manifesto da scrivere intorno ad un concetto di una scrittura emotiva, fatta di tematiche fibrillanti, ricca di carne e sangue. Il Visceralismo, appunto. L’idea mi colpì molto e accettai con entusiasmo di unirmi al gruppo che lui, in parte, aveva già formato. Eravamo così in quattro: noi due, Emanuele Gaudenzi e Giancarlo Tugnoli. Lavorammo per tutto il 1980 a casa di uno e dell’altro, realizzando incontri memoraboli. Nel gennaio dell’81 presentammo a Venezia il grande foglio azzurrino, scritto fitto fitto. Parteciparono all’evento molti artisti e amici di Lugo, che divisero con noi autori un fantastico banchetto a base di paste e caffè al Florian.

 

Con estrema emozione ritrovo nel manoscritto, ricevuto qualche tempo fa da Gian Ruggero, lo stesso magnetismo. Di colpo sono ripiombato nell’atmosfera resa dal manifesto. Il tempo, il corpo: la scrittura come conseguenza di forti scosse neurovegetative. Mi garba qui riprendere l’incipit del capitoletto intitolato “9. Il movimento verso l’andito del più infinito (il tempo ci dà il tempo)”. Eccolo: “Avvertita la variazione di vita, si ride attorno, essendo quella vita stata vissuta dalle competenze altrui. L’esistenza del plesso solare urla guardando le impossibili comprensioni.

Sin dalle prime pagine del progetto qui pubblicato [Nel profumo delle catacombe] si parla del fattore ‘viscerale’. Si entra nelle profondità terrene visitate dall’autore nel corso della propria esistenza. Manzoni penetra nel ventre di Madre Terra con l’intento di ricercare i frutti di una gravidanza conclusa nel tempo. Le cavità sotterranee che il poeta individua sono colme di resti umani, di icone, oggetti di una remota vita domestica e mistica.

Mi viene spontaneo iniziare la mia riflessione sulla scelta dei due colori fondamentali: il bianco e il nero. Essi rappresentano, a mio avviso, i due ruoli dello Spirito. Il primo, il bianco, è quello che respinge tutte le altre “tinte” e rimane vuoto di ogni espressione, tanto da essere assimilato al senso della morte. Il secondo, invece, assorbe tutti i colori – li divora, li rivolta nei propri intestini, miscelandoli sapientemente nel fitto dell’esistenza, a dispetto del buio che emana. Tra queste due atmosfere – il chiaro vuoto del nulla e il nero della narrazione esistenziale – si agita la dinamica creativa del poeta:

 

Bianco e nero…

dobbiamo risvegliare in noi

la capacità di osservare i colori

quelle sfumature

attraverso il sentimento

e il fervore…

(pag. 45)

Orbene, il nostro autore, con tale nota, ci introduce all’interno di un tema costituito da squarci di lampi e ombre, secondo una dinamica quasi caravaggesca, laddove prova a inserire la forma più pregiata dell’espressione umana: la poesia. Egli conduce il verso nelle interiora delle catacombe per verificare quanto la morte sia rappresentata da ciò che sta, a livello di giacenze e di reperti, dopo l’interezza del corpo. Il viaggio intrapreso non è comunque “dantesco”. Qui non vi è un Virgilio a indicare la strada, nel groviglio di cunicoli delle profondità archeologiche. No, qui il poeta si rende egli stesso una sorta di auto-conduttore, con il compito di registrare suoni e voci di una vita vissuta e parallela. Potrebbe essere una storia di spiriti e di fantasmi dal momento che i personaggi fanno sfoggio di presenze impalpabili, in un clima vaporoso e indipendente dalla fisicità umana.

Dalle catacombe si estraggono insegnamenti e protocolli, come ad esempio succede nelle profondità di Classe di Ravenna – in un sito in cui risiedono i cadaveri scomposti degli evocati che intonano: «Non pregare quando necessita / prega solo quando c’è richiesta / e il cielo non se l’aspetta».

Vi è sacralità, in luoghi simili? Difficile dirlo. Di sicuro si evidenzia una mestizia dovuta alla scomposizione, al frazionamento della pietà di un essere sconvolto da una forma di non essere.

Proprio per queste ragioni, la raccolta di Gian Ruggero ha una presa narrativa ricca di particolari, di oggetti di sapore cavernicolo. Che aspettativa s’impone qui ai defunti? Spazi e scene fatti di sfondi egiziani o paleocristiani? Quale terreno concedere al fetore antico dei reperti?

L’oggettistica è quanto mai vasta e variegata; si parte dal teschio, per giungere poi alle tibie, alle lampade, gli scalpelli, il pavone, i graffiti, i sigilli, le bambole di pezza, le boccette di vetro e tutto quanto un armamentario di resti, di parti botaniche e degli oggetti più svariati; un corredo che parrebbe quello di una fata, o di una morta insonne, soprattutto di una mistica.

Si rende concreto uno spezzone di esistenza parallela a quella terrena: un coacervo di scambi – l’uno che prega il santo o la santa affinché intercedano presso Iddio per una contropartita di salvezza; l’altro che popola un vero e proprio mercato che accende interessi e perdoni.

In quella dimensione alta e imperiosa sta la cifra viscerale della mater matuta – l’esaltazione delle sue proprie viscere, intossicate e ricolme di infiammazioni. Laggiù, nelle miriadi di città del sottosuolo (Aosta come Vigna Cassia, Capodimonte come Siracusa…) accade una ripopolazione di enti e di commerci –, succede l’evento clou che riunisce, in un solo quadro, immagini e situazioni, le più strane e accese – … (come in «A Caterina d’Alessandria, […] da cui sgorgarono gigli e margherite dalla vagina, / e latte e miele dal collo, / quando depose la testa sul ceppo / e la campana ne suonò la morte»).

Il rito principale è quindi la preghiera recitata come un mantra, di radice ipnoide e non avulso dal vero e proprio verso poetico – un canto che fuori dal mondo rievoca e rafforza i principi della fede e della conseguente purificazione. I poeti procedono allora in direzione aliena, del tutto intima e buia, come buia è la verità che essi indicano.

Gian Ruggero Manzoni conclude le proprie descrizioni con un piglio stilistico analitico, frutto del verso lungo, generoso e abbondante. Il suo non è un frammento stitico, bensì una teoria ininterrotta di energie e dati di fatto. La lettura donerà a chi assorbirà questa sua opera un largo spettro di immagini, costituiti dal continuo e speranzoso cammino verso la verità.

 

Alcuni testi:

I

Fin dagli albori il bianco e il nero

divennero la contrapposizione ai colori.

Oggi sono elementi di primaria importanza

per arrivare all’essenzialità del pensiero

esentato dall’elemento emotivo

che le altre tinte portano in loro.

 

Nella storia il nero è visto come tenebra,

principio d’inizio e di fine,

dal quale tutto nasce e nel quale

tutto torna; mentre il bianco, la cosiddetta luce,

è quella dimensione che si frappone

tra nascita e cessazione.

 

Il nero è l’immagine spirituale dell’elemento

che non è più forma,

o prima che la stessa fosse definita,

mentre il bianco è l’immagine concreta

dell’energia, che in esso vive.

 

Nel bianco e nel nero

lo Spirito è sempre presente

ma con due differenti ruoli:

quale proiettore e quale ombra.

 

Il bianco e il nero non sono lo Spirito

ma due diversi punti di vista

tramite cui lo stesso si manifesta

e trova ragione.

**

III

A Concordia Sagittaria, nei pressi di Venezia,

sono oltre duecento le lapidi di legionari morti

per frecce, daghe, lance, vaiolo o peste.

All’entrata del tunnel una scritta:

Mai fare commercio degli assoluti”.

 

A Chiusi, in Valdichiana, uno fu dedicato

a Santa Mustiola e l’altro, paleocristiano,

fu innalzato a Santa Caterina d’Alessandria,

da cui sgorgarono gigli e margherite dalla vagina,

e latte e miele dal collo,

quando depose la testa sul ceppo

e la campana ne suonò la morte.

 

All’interno di una cripta un motto:

Hai solo una volta per scegliere,

quindi attento a quel momento

perché l’eterno non ripasserà

e tu resterai uno schiavo a vita

sempre alla catena”.

 

A Classe di Ravenna quattro le miniere di cadaveri

… per Probo, per Sant’Apollinare, per Eleucadio

e per San Severo, su cui troneggia

un epitaffio altero:

 

Non pregare quando necessita,

prega solo, quando non c’è richiesta

e il cielo, non se l’attende”.

**

XII

 

Il Circo di Massenzio mai venne usato

perché Costantino, più forte in Dio,

a Ponte Milvio diede battaglia.

 

Che divenga il pollice di Dio

anche nelle gare fra aurighi

simbolo di vita o morte?

Che la Sua fermezza

nel sancire una sconfitta o una vittoria

possa ispirare anche la nostra?

 

Il vecchio sistema sta annegando,

il nuovo tarda ad affiorare,

in quella calma d’acqua

nascono mostri coi quali

poi vado a passeggiare.

Sempre più credo,

dal come sono guardinghi,

che per loro il mostro sia io.

Santa beatitudine quando i demoni

fanno di te un esempio

e seppellisci loro, non usandoli

quali complici oppure servi.

**

XXVIII

 

Nei loculi puoi trovare oggetti

che furono cari a chi oggi è cenere…

sigilli, piatti, lampade di creta, teche,

anelli, pettini, bambole di pezza,

aghi, bicchieri, gemme, anfore, collari,

amuleti, piastre, tegole, pettorali, fibbie,

boccette di vetro, lamelle e recipienti

di vario uso e capienza.

 

Bagna sempre con latte e vino

là dove verrà deposto il cadavere,

ché ritrovi il sapore della nascita

e ciò che, in vita, scorrendogli nelle vene,

gli ha scacciato l’idea della fine.

 

Spargi profumi e oli, come facevano gli egizi,

e rendi talismani zoccoli di capra, chiodi piegati,

campanelle di bronzo, biglietti con invocazioni.

 

Sotto la lingua o sugli occhi

le monete per Caronte, poi, se hai denaro,

fai invadere la piazza da mimi, saltimbanchi,

funamboli e suonatori di corno, ché l’esistenza

ritorni nella morte, vana e caciarosa,

fatua e quale scherzo, come poi è

per la maggior parte degli uomini.

 

E i portatori di fiaccole e le préfiche…

quelle donne che a pagamento

intonavano lamenti funebri

o cantavano le lodi del defunto.

 

Non trascurare alcunché

così che la messa in scena

risulti completa

e addobba la casa con rami di tasso

e cipresso,

ché la gente sappia che sei in lutto

anche se poi già conti l’eredità

e quei terreni…

**

XLIII

 

La bella addormentata di Palermo,

la mummia della piccola Rosalia Lombardo,

morta di polmonite nel 1920 a due anni,

a volte apre e chiude gli occhi

e non manca molto che ti sorrida

o ti faccia un segno per illudersi

di non essere dalla parte

di chi più non vive.

 

Il padre la volle così, quale verità duratura,

ma che non la si riveli, perché non scompaia

come spesso succede coi defunti.

 

Forse che non esista un vero assoluto,

ma solo quello del momento?

 

Ciò che della verità, nel tempo resta, io lo so

ed è da quando sono nato che lo apprezzo.

Ha un nome strano che deriva da blasfemia,

da ingiuriare, calunniare, offendere…

infatti si chiama

nient’altro che: bestemmia

o sfida a Dio.

 

GIAN RUGGERO MANZONINEL PROFUMO DELLE CATACOMBECOLLANA RED L’ARCOLAIO – EURO 12

 

 

 

 

 

 

 

 

UN GRADITO RITORNO IN CASA ARCOLAIO. E’ MAURO GERMANI CON IL SUO LIBRO DI AFORISMI, INTITOLATO: “LA PAROLA E L’ABBANDONO”.

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Annunciamo con estremo piacere il ritorno di Mauro Germani in Casa Arcolaio. Vi ritorna con un libro di aforismi, di frasi brevi ma non troppo che racchiudono flash esistenziali su se stesso o su altri scrittori. Il titolo è “La parola e l’abbandono” costituito da dettati che raccontano i costumi e i pensieri di molteplici autori -frasi icastiche che, nella loro brevità, riescono a dipingere la temperie di un carattere umano o quello di stagioni letterarie e filosofiche ormai perdute nel flussi del tempo -. Per queste ragioni, il libro di Germani assume ai miei occhi una solennità e un silenzio impeccabili. La storia dell’umanità, in fondo, potrebbe essere composta anche secondo queste dinamiche, al di sopra delle passioni contingenti dell’uomo.

(gf)

 

Alcuni testi:

 

Ho vissuto fino ai cinque anni dentro la ditta “Moretti”, che fabbricava tende. Era molto grande, c’erano tre cortili, gli uffici, la confezione, il laboratorio chimico… Un mondo chiuso alla periferia della periferia. Pieno di gatti…

**

Quante volte nei sogni compaiono mostri, creature orribili, che sono il risultato di paurose metamorfosi del corpo… Improvvisamente una persona sognata, magari un nostro amico o addirittura un nostro familiare, si trasforma in un essere spaventoso che ci minaccia e ci aggredisce, attentando alla nostra vita. Allora ci si domanda: qual è la verità?

**

In Perturbamento del grande Thomas Bernhard, la voce di sperata del principe Saurau (una delle figure davvero indi- menticabili della letteratura) rivela una furia della parola che attesta, al contempo, la vanità della parola stessa, in una coazione a ripetere sempre più malata e mortale. Il suo inarrestabile e folle monologo trasmette paradossalmente una tremenda volontà di autodistruzione, che Bernhard riesce a comunicarci in modo ineguagliabile, con una potenza verbale e martellante da togliere il respiro… Bisognerebbe rileggere spesso Thomas Bernhard per capire, una volta per tutte, che cosa significa una scrittura che non è semplice esercizio di stile, ma espressione drammatica dell’esistenza.

**

Alberto Giacometti, come artista e come uomo, consumava e si consumava. Una dépense continua e febbrile, vitale – a modo suo. Un corpo a corpo con l’esistenza ed il suo abisso.

**

Maurice Blanchot ha scritto che «la poesia non è data al poeta come una verità e una certezza a cui accostarsi: egli non sa se è poeta, ma non sa neanche che cosa è la poesia, e neppure se essa è; essa dipende da lui, dalle sue ricerche, dipendenza che tuttavia non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di sé stesso e come inesistente». Non ho trovato finora un pensiero sulla poesia più completo e convincente di questo.

**

Nel Sonetto della desolazione, Corazzini si sdoppia, sa che la propria anima è irraggiungibile, perduta in «solitudini malate / vedove di partenze e di ritorni / simili a stazioni abbandonate», laddove ogni transito di vita si è spento ed anche il dolore sembra appartenere ad uno spazio muto, chiuso nella sua remota desolazione.

**

A Livorno odiavo andare al mare, in spiaggia. Avevo orrore di quell’ambiente, la gente in costume, le cabine, gli ombrelloni, la sabbia… Mi faceva tutto schifo. Il mare, però, mi piaceva, soprattutto in lontananza, senza nessuno. Anzi, pensavo che chi andava in spiaggia in realtà non lo rispettava. «Il mare non scherza», mi dicevo…

**

Chi raccoglierà le parole abbandonate della poesia, questi strani doni tra la vita e la morte, questi singhiozzi solitari? Le parole aspettano nell’ombra, escono dalle loro tombe di car- ta, vogliono risorgere per un po’, sconfinare, prima di sparire per sempre nell’oblio.

 

Mauro GermaniLa parola e l’abbandono – pagg. 87 – L’arcolaio, Forlimpopoli, 2019 – Collana L’arcolaio

 

LA NARRATIVA ARCOLAIO E’ SENSIBILE ALLE VICENDE DEL CONTINENTE AFRICANO. INSIEME A “UODISHALLO” E “FUGA DALLA PICCOLA ROMA””, ECCO UN ROMANZO CHE MERITA DI ESSERE LETTO E MEDITATO: “UNA STAGIONE IN NIGERIA”, DI STEFANO ZANOLI.

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via LA NARRATIVA ARCOLAIO E’ SENSIBILE ALLE VICENDE DEL CONTINENTE AFRICANO. INSIEME A “UODISHALLO” E “FUGA DALLA PICCOLA ROMA””, ECCO UN ROMANZO CHE MERITA DI ESSERE LETTO E MEDITATO: “UNA STAGIONE IN NIGERIA”, DI STEFANO ZANOLI.

LA NARRATIVA ARCOLAIO E’ SENSIBILE ALLE VICENDE DEL CONTINENTE AFRICANO. INSIEME A “UODISHALLO” E “FUGA DALLA PICCOLA ROMA””, ECCO UN ROMANZO CHE MERITA DI ESSERE LETTO E MEDITATO: “UNA STAGIONE IN NIGERIA”, DI STEFANO ZANOLI.

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Dall’Africa c’è chi fugge altrove per evitare il carcere in quanto dissidente del regime del paese natale. (Dall’Eritrea).

In Africa c’è chi va, a più riprese, per aiutare le comunità dell’Etiopia a sollevare un poco la condizione degli indigeni alle soglie di una povertà assoluta (e semmai, quando l’italiano torna in patria si vede costretto a vessazioni di ogni tipo da parte dell’azienda in cui lavora, avendo egli preso un’aspettativa non pagata).

In africa c’è chi va per prestare lavoro presso una multinazionale e scopre l’orrore di una vita in dissoluzione della metropoli nigeriana.

 

Ecco una serie di scorci narrativi del romanzo “Una stagione in Nigeria”, del cesenate Stefano Zanoli. Un libro che riporta in maniera puntuale e drammatica la sub-esistenza al limite inumano.

 

Buona lettura!

 

Un romanzo 

UNA STAGIONE IN NIGERIA

Stefano Zanoli

L’arcolaio – Prose, collana diretta da Enza Valpiani

 

(Maneggiare Lagos col logos…)

 

una guida emotiva alla più grande città africana

 

1_

Qualche anno fa, allo scoccare della mia terza decade, ebbi l’occasione di dare una svolta importante alla mia vita; lasciare tutto per trasferirmi là dove, seppur vagamente, pensavo di poter trovare tutto e, forse, diventare un uomo adulto a pieno titolo; lasciare l’Europa, mondo immutabile e sicuro, per andare in Africa. Fu così che me ne andai a sbattere il muso in un risvolto ancor più doloroso del normale principio di realtà. Una sberla da rimanerne intontito, paralizzato nell’afasia d’un groviglio informe di parole, dentro una tempesta d’emozioni, impietrito e agitato allo stesso tempo; uno di quei momenti in cui la vita pare abbia preso una piega drammatica “irreversibile”, si sia come cristallizzata in una vibrazione monocorde, nella frequenza  di un eterno presente, privo di futuro e orfano di un passato lontano. Il mio male d’Africa personale, pensavo per consolarmi, fissando le folte fronde d’un ritorno d’agosto, cresciute in un sol colpo dalla mia partenza equinoziale.

Perché andare a sud? Il nord è misura, contenimento, proporzione, bianco e nero, silenzio ed equilibrio; il sud invece è dismisura, dispersione, caricatura, colore, rumore, squilibrio. Nell’ I Ching volgersi verso sud significa viaggiare; è così che decide di fare Ismaele all’inizio della sua avventura; mentre Junger parla di una età in cui il mistero appare raggiungibile al cuore solo nello spazio, solo nelle bianche macchie della carta geografica; e pour l’enfant amoureux de cartes et d’estampes, così per me, andare a sud significava voltare le spalle alla minacciosa bonaccia dell’ordine costituito. A Lagos, ex-capitale amministrativa della Repubblica federale di Nigeria, la più grande città dell’Africa occidentale, megalopoli-formicaio del nuovo millennio, ci andavo per lavoro, convinto che del resto “lavorare” fosse il modo migliore per viaggiare.

2_

Un sabato, di pomeriggio, verso Victoria per la partita di calcio tra espatriati, poco prima di Satellite Town, le auto davanti, in fila, hanno preso a scartare veloci, tutte a destra. Al centro è disteso, normale alla mezzeria, un corpo umano rinsecchito dalla combustione infilato in due gomme nere. Il nuovo geologo ancora fresco di barbetta europea, si volta per interrogarmi a bulbi dilatati; e io che rimando ad Aloy, il mio autista Ibo, dall’alto delle mie tre settimane, la question:

“Quello cosa?…”

“Quel morto! Là, in mezzo alla strada…”

“Ah… quello ? A thief, probably”.

A Okokomaiko un corpo, a faccia in giù, è rimasto tre giorni al centro della carreggiata, in un punto dove mancava il divisorio. Ogni volta che ci passavamo di fianco, in auto, chiudevo gli occhi e mi voltavo. Aloy scartava impercettibilmente a lato. Il corpo, a pochi passi dal bus stop, in un luogo pieno di gente, sopra un mucchietto di immondizia, faceva parte anche lui della massa di rifiuti. La gente indifferente attraversa la strada a piedi, a pochi metri, evitando di calpestar la massa putrescente.

3_

Oggi che mi racconto questo, tutto è dimenticato, stampato in filigrana, secco nelle parole; ma allora, all’ingresso della expressway, al ritorno da Ibadan, quando fermi osservavamo i venditori di animali seccati sotto sale (che strana specie… con zampe-ali, quasi castori-vampiri volanti), i miei nervi erano scossi da tutto, sfibrati sotto il sole… Allora ero in quell’età che ancora tutto può crollare in una notte, e con i mesi accumularsi uno sbucciamento che penetrando fino al derma dell’anima lascia il segno in balia d’un frusciare di farfalle…

Di Stella ho già spiegato la parabola. Resta da dire il triste minidramma del nostro ultimo incontro. Si era presentata al camp inaspettata, una sera che pioveva, il cielo lampeggiante.

 

***

1_

Qualche anno fa, allo scoccare della mia terza decade, ebbi l’occasione di dare una svolta importante alla mia vita; lasciare tutto per trasferirmi là dove, seppur vagamente, pensavo di poter trovare tutto e, forse, diventare un uomo adulto a pieno titolo; lasciare l’Europa, mondo immutabile e sicuro, per andare in Africa. Fu così che me ne andai a sbattere il muso in un risvolto ancor più doloroso del normale principio di realtà. Una sberla da rimanerne intontito, paralizzato nell’afasia d’un groviglio informe di parole, dentro una tempesta d’emozioni, impietrito e agitato allo stesso tempo; uno di quei momenti in cui la vita pare abbia preso una piega drammatica “irreversibile”, si sia come cristallizzata in una vibrazione monocorde, nella frequenza  di un eterno presente, privo di futuro e orfano di un passato lontano. Il mio male d’Africa personale, pensavo per consolarmi, fissando le folte fronde d’un ritorno d’agosto, cresciute in un sol colpo dalla mia partenza equinoziale.

Perché andare a sud? Il nord è misura, contenimento, proporzione, bianco e nero, silenzio ed equilibrio; il sud invece è dismisura, dispersione, caricatura, colore, rumore, squilibrio. Nell’ I Ching volgersi verso sud significa viaggiare; è così che decide di fare Ismaele all’inizio della sua avventura; mentre Junger parla di una età in cui il mistero appare raggiungibile al cuore solo nello spazio, solo nelle bianche macchie della carta geografica; e pour l’enfant amoureux de cartes et d’estampes, così per me, andare a sud significava voltare le spalle alla minacciosa bonaccia dell’ordine costituito. A Lagos, ex-capitale amministrativa della Repubblica federale di Nigeria, la più grande città dell’Africa occidentale, megalopoli-formicaio del nuovo millennio, ci andavo per lavoro, convinto che del resto “lavorare” fosse il modo migliore per viaggiare.

2_

Un sabato, di pomeriggio, verso Victoria per la partita di calcio tra espatriati, poco prima di Satellite Town, le auto davanti, in fila, hanno preso a scartare veloci, tutte a destra. Al centro è disteso, normale alla mezzeria, un corpo umano rinsecchito dalla combustione infilato in due gomme nere. Il nuovo geologo ancora fresco di barbetta europea, si volta per interrogarmi a bulbi dilatati; e io che rimando ad Aloy, il mio autista Ibo, dall’alto delle mie tre settimane, la question:

“Quello cosa?…”

“Quel morto! Là, in mezzo alla strada…”

“Ah… quello ? A thief, probably”.

A Okokomaiko un corpo, a faccia in giù, è rimasto tre giorni al centro della carreggiata, in un punto dove mancava il divisorio. Ogni volta che ci passavamo di fianco, in auto, chiudevo gli occhi e mi voltavo. Aloy scartava impercettibilmente a lato. Il corpo, a pochi passi dal bus stop, in un luogo pieno di gente, sopra un mucchietto di immondizia, faceva parte anche lui della massa di rifiuti. La gente indifferente attraversa la strada a piedi, a pochi metri, evitando di calpestar la massa putrescente.

3_

Oggi che mi racconto questo, tutto è dimenticato, stampato in filigrana, secco nelle parole; ma allora, all’ingresso della expressway, al ritorno da Ibadan, quando fermi osservavamo i venditori di animali seccati sotto sale (che strana specie… con zampe-ali, quasi castori-vampiri volanti), i miei nervi erano scossi da tutto, sfibrati sotto il sole… Allora ero in quell’età che ancora tutto può crollare in una notte, e con i mesi accumularsi uno sbucciamento che penetrando fino al derma dell’anima lascia il segno in balia d’un frusciare di farfalle…

Di Stella ho già spiegato la parabola. Resta da dire il triste minidramma del nostro ultimo incontro. Si era presentata al camp inaspettata, una sera che pioveva, il cielo lampeggiante.

 

 

 

DOPO L’EVENTO DI NAPOLI, CONTINUA IL TOUR ITALIANO DI HAJI JABIR: OGGI A BOLOGNA E DOMANI A MILANO PER LA PRESENTAZIONE DEL SUO ROMANZO “FUGA DALLA PICCOLA ROMA”, OPERA TRADOTTA DA GASSID MOHAMMED E CURATA DA ENZA VALPIANI PER LA CASA EDITRICE L’ARCOLAIO.

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BOLOGNABIBLIOTECA AMILCAR CABRAL

VIA SAN MAMOLO,31 ALLE 17.30

PRESENTAZIONE DEL ROMANZO

FUGA DALLA PICCOLA ROMA

INTERVENGONO:

GIANNI DORE -UNIV. DI VENEZIA

GASSID MOHAMMED – UNIV. DI         BOLOGNA


DOMANI, A MILANO, ALLE 10.30, ALL’UNIVERSITA’ CATTOLICA (AULA C – VIA LANZONE, 29) , NELL’AMBITO DEL CORSO “STRATEGIE COMUNICATIVE E NEGOZIALI IN LINGUA ARABA” DEL PROF. WAEL FAROUQ,

SARA’ PRESENTATO IL ROMANZO

FUGA DALLA PICCOLA ROMA

DI HAJI JABIR

CON LA PARTECIPAZIONE DI GASSID MOHAMMED, CURATORE E TRADUTTORE DELLA VERSONE ITALIANA PUBBLICATA DALLA CASA EDITRICE L’ARCOLAIO.

 

 

MARIA LENTI RECENSISCE “VARIAZIONI NEL CLIMA” DI CAROLINA CARLONE

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Carolina Carlone, Variazioni nel clima, Interventi di Luciano Benini Sforza, Mariangela Gritta Granier, Nevio Casadio, Forlimpopoli, L’arcolaio, 2018, pp.116, € 13.00

 

La poesia di Carolina Carlone, in una distribuzione di versi più compatta o meno frammentata rispetto alle raccolte precedenti, rilascia, in Variazioni nel clima, trama e ordito di una realtà o della realtà che abitiamo e che ci abita con il peso caduto dall’alto (del potere distruttivo, della socio-politica, della bêtise delle persone) e, di converso, l’ariosità delle relazioni tra i viventi o il vero della natura se, incontaminata, ci tiene e ci contiene.

Due poli opposti: il primo può essere rimosso e rimestato per una possibile variazione  nell’intersificarsi della presenza delle seconde, della presenza cioè di una umanità non scomparsa che, nel caso sia e sia senza parsimonia, costituisce  «l’appiglio a cui tenersi / lungo i tornanti / di questa storia / che ci ansima addosso»  (Lungo i tornanti).

Nella realtà dei versi hanno posto vicende e vissuti anche di riflesso e tragici (come quella di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, di Gaza, delle guerre in corso, di altri mondi impossibili); nella strada aperta agiscono solidarietà, sentire e sentimento dentro l’esistenza delle creature (anche inanimate) naturali. Qui sembra alitare un vento vitale, di vita salva; là pervasive sono distruzione e morte.

Ma la poesia di Carolina Carlone, come ho scritto in altra occasione, restituisce levità del possibile non pesantezza dello status storico contemporaneo. Iniziano, infatti, le poesie (brevi: in quinari, settenari, e a chiudere talora decasillabi o endecasillabi) constatando e affermando l’esistente impelagato in negatività nella prima o nelle prime strofe e terminano con aperture e varchi, finestre se non spalancate certamente socchiuse, porte in attesa di nuove  entrate (significate, per esempio, da “arilli”) anche ideali e luce diffusa dall’esterno all’interno: «Ancora una volta / una qualsiasi Palmira / o Aleppo si disfa / sotto il tiro di cecchini / allenati dai videogiochi // Con la nebbia / ripulisci gli occhi ai bambini / riportali nel regno dei grilli / dove tutto è canto e salto leggero» (Nebbia).

Poesia civile nel senso meno didascalico e più reattivo. Una poesia che si offre a fissare il reale e, contemporaneamente, a cercare vie d’uscita, a indicarle spesso («Un vento fossile / scioglie il respiro / che ci tiene insieme // Percezioni nuove / variazioni nel clima / ossidazioni», Variazioni nel clima), prendendo a recupero di energie – una sorta di restauro di sé – i bambini, i giovani, le persone dalla interiorità non guasta e protesa a non farsi sommergere e a non lasciarsi piegare dalle intemperie durate oltre sé stesse, assumendo in sé le cose della Natura più immediatamente fruibili o godibili, più vicine pur nella loro sostanza lontana o distante dall’oggi.

Sarà, attraverso questa freschezza, il futuro? Carolina Carlone tutti i giorni lavora (proprio nel senso di “elabora” la sua vita) con i piccoli della scuola elementare. Ha, dunque, un osservatorio e un terreno privilegiato: vive un luogo-spazio di più evidente chiarità, in cui emergono essenze, impeti, energie, un caleidoscopio particolare di variazioni verso un meglio di (o nel) clima.

Forse davvero in quella freschezza si concentra il meglio perché esca il meglio e termini il peggio: «Forse toccherà  alle vostre mani / accomodare il tempo e ricomporlo // come un giocattolo scaraventato a terra» (A terra). Il mondo salvato dai ragazzini? Elsa Morante non ne dubitava nei suoi anni Sessanta. La poesia rilevava, e rileva in Carlone, passo passo quel meglio e la possibilità di afferrarlo o di fermarlo. Quasi assegnandosi un compito. Alla poesia si può o si deve assegnare un compito? In quest’ultimo libro dell’autrice ravennate potrebbe uscire la risposta positiva: con la (e nella) libertà che la poesia e il poeta si riservano sempre.

                                                                               Maria Lenti