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E’ BAL, DI NEVIO SPADONI, IN SCENA AL VULKANO. PROTAGONISTI, ROBERTO MAGNANI E SIMONE MARZOCCHI

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DAL CORRIERE – ROMAGNA

TEATRO DELLE ALBE. AL VULKANO DA OGGI LO SPETTACOLO TRATTO DAL TESTO DEL POETA

NEVIO SPADONI

 

“E’ BAL SENZA SOSTA DELLA SOLITUDINE”:

Nuova sfida con il dialetto romagnolo per Roberto Magnani e Simone Marzocchi

 

RAVENNA – Abbandono e solitudine. Dicerie ed emarginazione. Torna sul palco di Vulkano, E’ bal, lo spettacolo in dialetto romagnolo del Teatro delle Albe che Roberto Magnani e Simone Marzocchi hanno tratto dall’omonimo testo del poeta Nevio Spadoni.

E’ bal racconta la storia di Ezia, donna emarginata di un paese della campagna romagnola, vittima delle dicerie della gente, continuamente in cammino alla ricerca di un uomo da sposare. Questo suo andare in cerca assomiglia a un ballo, un continuo sgambettare che smuove tutto il corpo della giovane donna. Ezia è vittima, a suo dire, di un abbandono: il grande amore della sua vita l’ha lasciata sola e per questo motivo viaggia senza sosta per cercare di rimpiazzare il vecchio fidanzato ormai fra le braccia di un’altra donna. Ma il tempo passa, gli anni volano, e il ballo di Ezia si fa stanco e sgraziato, il decadimento fisico è accompagnato da una perdita progressiva della ragione. Ezia comincia a perdere lucidità, ad avere allucinazioni, ricorda solo una vecchia giostra, teatro, a quanto pare, del primo incontro con quel cavaliere che l’ha lasciata sola a ballare questa danza folle – che assomiglia a un sogno – che è la vita. Roberto Magnani, dopo essersi confrontato con l’Odiséa di Tonino Guerra nel 2009, accetta questa nuova sfida con il dialetto romagnolo, pozzo da cui attingere visioni e immaginario, un contatto con i fantasmi dei nostri antenati e, contrappuntato dai mondi sonori evocati da Simone Marzocchi, racconta, alternando ferocia, disincanto e mestizia, la storia di Ezia.

REDAZIONE CULTURA DEL CORRIERE DI ROMAGNA

 

ANTONIO DEVICIENTI RECENSISCE “CHIARO DI TERRA” DI ANTONIO PIBIRI, SAGGIO TRATTO DA CARTEGGI LETTERARI

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di ANTONIO DEVICIENTI

Saggio pubblicato da Carteggi Letterari

 

 

Il “luogo” di questo libro è luogo verso cui fare ritorno che è poi quello della madre, luogo della presenza del femminile; è il lungo, arduo viaggio esistenziale, ma anche psichico e culturale, per ritrovare la madre il filo conduttore della raccolta più recente di Antonio Pibiri. E non esiste garanzia che tale viaggio conduca alla meta o che possa avere un termine. La scrittura, difficile ed elegantissima, ci guida traverso un libro di poesia di rara densità.

Esiste in francese un’espressione (poète lettré), non diffusissima, ma che mi piace impiegare qui anche per sottolineare i legami d Antonio Pibiri proprio con la cultura francese e che designa quei poeti di vasta e profonda cultura letteraria (ma non solo), i quali compongono i propri testi con totale consapevolezza storica e tecnica, trovando spesso proprio nella cultura il punto di partenza per i propri lavori; in Italia si è probabilmente ancora vittime del pregiudizio secondo il quale un eccesso di cultura possa “rovinare” la resa poetica, inficiare una supposta “naturalezza” o “immediatezza” espressiva – come se “naturalezza” e “immediatezza” non fossero invece il risultato di un lavoro lunghissimo e faticoso sulla scrittura o, talvolta, invece soltanto un luogo comune e, appunto, un pregiudizio fuorviante, a mio avviso Antonio Pibiri con questo suo Chiaro di terra (Forlì, L’Arcolaio, 2016 con una bella postfazione di Davide Zizza) realizza un percorso di scrittura in perfetto equilibrio tra ragioni culturali e ragioni espressive. Che Antonio sia un poète lettré lo dimostrano già le sue due raccolte precedenti e il libro di cui mi accingo a scrivere lo conferma in modo definitivo. Ma ci si soffermi un attimo a meglio riflettere: il dominio sulla scrittura, i molteplici riferimenti culturali servono a filtrare una materia ardua e magmatica che definirei come “il ritorno alla madre” o “la ricerca della madre”. Si parta dalla citazione da Cesare Viviani apposta in apertura del libro: “C’è un affollamento alla Casa del Padre. Tutti ritornano alla Casa del Padre. Mai qualcuno che tornasse alla Casa della Madre!” che è, già di per sé, esplicita e si legga poi il primo testo:

C’erano vaste zone di vento, poi niente (Alessandro Ceni)

Si sapeva eppure salimmo
dal freddo che la luce
abbandona alle spalle
verso asprezze di roccia.
Lasciata la via maestra, gli zaini
col ceppo di forchette dietro la recinzione.
Salivano con noi inseme daini, stelle
di punte attraverso i camagli.

C’era un ovile consacrato lì in alto
e senza più ritorno pare
nasceva proprio da quella morte
un’inedita narrazione –
Sprofondanti i fari notturni,
le case perdute che eravamo.
Messi per sempre in salvo.
Le corse gridate nei boschi.

Fummo scelti
da un branco.

(pag. 9)

La mia lettura vede in questi versi una funzione incipitaria che mette in atto un radicale e definitivo allontanamento dalla propria condizione (umana, esistenziale, psicologica) precedente per cominciare (o per fondare) qualcosa di nuovo; la stessa citazione da Ceni, anch’essa illuminante e determinante, ci proietta in zone di vento e poi di niente, così come gli zaini lasciati inseme con la via (si noti) maestra, e quell’andare verso asprezze di roccia” proiettano l’immagine del poeta e dei suoi compagni per così dire denudatisi di ogni oggetto che possa aiutarli nell’ascesa. Altro particolare non casuale è l’ovile “consacrato” e l’impossibilità del ritorno: si manifesta la necessità di una morte, di un non-ritorno per poter cominciare “un’inedita narrazione” – e potrebbe trattarsi del racconto di come inizi una nuova fase nell’esistenza di un individuo o di una comunità o di come, pure, si dia avvio a una nuova opera di scrittura. Sottolineo come sia colma di movimento la composizione incipitaria, quanto significativi risultino i concetti di allontanamento e salita.
E soffermiamoci sui due versi (o sono emistichi?) finali: “Fummo scelti / (ampio rientro nell’allineamento del testo) da un branco“. Qui mi azzarderei a proporre il concetto, per questo libro, di una “poetica del carattere corsivo” e mi spiego: molti testi di Chiaro di terra si concludono con una parola o un intero verso in corsivo, come se l’autore volesse richiamare l’attenzione del lettore o volesse enfatizzare proprio quella parola, proprio quel verso; ebbene, la lettura stessa ne viene modificata, perché il corsivo costringe a cambiare il tono della voce e quindi l’incedere del ritmo, ma, soprattutto, quella parola o quel verso risultano essere un cambiamento radicale del concetto o della situazione descritta e poi: il corsivo finale sembra spalancare un vasto silenzio di riflessione (che possiamo identificare anche con il bianco del foglio, fino a che non è tempo di cambiare pagina e iniziare a leggere un altro testo), oppure (essendo la fotografia e la pittura le due altre arti fortemente presenti nella poesia di Pibiri e, come vedremo, in questo libro) tale corsivo rassomiglia ai punti focali o ai punti di svolta che talvolta catturano e colpiscono lo sguardo allorché si contempla un’immagine.
E proprio il testo successivo è tutto stampato in carattere corsivo:

 

Eresie dei colori

Il quaderno nero era per l’odio in carriera.
Il quaderno color terra tabacco corda legno per il ritorno a casa.
Quello verde violetto il tropismo delle piante e appunti musicali.
Il bianco per pungiglioni d’angeli, un alveare bianco
da esplodere sulle mani del carnefice.
Il rosso, aperto alle carni in tavola, e più delicate a letto.
Il quaderno dai toni blu era per il blu
senza platee, se nella penombra della stanza
smezza la tua la mia voce.

(pag. 10)

Sembra di leggere, dentro versi così eleganti, un possibile elenco dei temi del libro (i diversi “quaderni” sarebbero allora il nucleo manoscritto o comunque ideale e tematico da cui Chiaro di terra deriva) e si osservi quanto cadenzati siano i versi, quanto pudico e splendido sia l’erotismo dell’emistichio “(carni) più delicate a letto” direttamente connesso con l’atto del cibarsi (“Il rosso, aperto alle carni in tavola”), quanto irresistibilmente faccia pensare al blu di Yves Klein quel “quaderno dai toni blu per il blu” (ma non escluderei un riferimento al “fiore blu” di Novalis, al blu di Giotto, al blu di Derek Jarman del film omonimo), quanto felice sia l’espressione “il quaderno color terra tabacco corda legno per il ritorno a casa” (Chiaro di terra racconta, lo ribadisco, di un tentativo di nostos), mentre il verso finale afferma lo svolgersi di un dialogo, l’emergere, accanto all’io e al noi, del “tu”, o meglio della “tua” voce che “smezza” la mia.
Voce, parola, scrittura sono, allora, elementi fondamentali del libro; sì, certo, com’è detto a pagina 11:

La parola non sostituisce l’assassinio.
Il simbolico lo argina.
Dice Caino – non so scrivere
parlo poco
e incontrerò mio fratello
in fondo al campo e le pietre
per tradirlo.
Giungi in tempo parola!
che richiami i figli per nome…
o del come fosse
finzione il temporale e gioco la ferita.
– Un trucco di rosse bacche
mi inciderà la fronte.

Nelle prime pagine di Chiaro di terra ci troviamo in una condizione di nuovo cominciamento, per cui non sorprende l’apparizione di Caino, colui che, assassinando il fratello, attua anche lo strappo definitivo dai genitori, l’ulteriore allontanamento dall’origine (la “fonte” di cui dice Hölderlin nel suo poema famoso, Andenken/ricordo); Antonio Pibiri costruisce un testo nel quale Caino, che incarna la violenza cieca e ignorante, si prepara all’assassinio proprio perché manca la parola che dirima la questione – “giungi in tempo parola!” – scrive il poeta perché nominare (chiamare i figli, ma anche le cose e i luoghi per nome) significa sottrarsi e sottrarre gli esseri umani alla violenza cieca, nata dall’incapacità di articolare il pensiero, quindi di capire e di dialogare.
E onestamente non so se si tratti di una categoria critica accettabile e corretta (molto probabilmente no), ma, seppur non esplicitata, mi sembra riaffiorare nella scrittura di Antonio il suo essere d’origine sarda, nel senso che sia alcune rapidissime notazioni paesaggistiche sia alcune scelte tematiche riportano alla storia di un’isola, totalmente mediterranea, che continua a confrontarsi con gli archetipi; non mi sorprenderei se dietro questa scrittura ci fosse un intenso studio dei libri di Sergio Atzeni, delle opere di Costantino Nivola, di Maria Lai, di Pinuccio Sciola e lo scrivo leggendo il testo che segue:

Due epiloghi su tela, diversamente

Dal sonno geologico
da mura senza albe ci svegliamo per
comprendere che anche la montagna
con il suo paesaggio conficcato
o sepolto di vocazioni stanziali
le vicende istoriate
non rimane.

Da pendici inizia la danza
vorticosa sale a staccare la cima.

Poi eccoci – qui per terra
dopo tanto giungere a noi,
dopo gli occhi riacuti.

Il flauto in asse alla luna
nella selva del Doganiere.

*

“Chi ha occhi non aspetti occhi!”
Cercali i caduti. Scavarli nei fossi,
due con l’ombra, due lacune.

– Punti luce, i cavi scoperti, i fuochi
inerti –

Non seguire in coda le torme
a rana o striscianti sul ventre
errare le porte. Si allargano

sul dettaglio – quanti –
a vanvera a tempera
i ciechi di Bruegel.

(pagg. 12- 13)

Un poète littré ricorre con naturalezza a citazioni e rimandi e sa usarli come strumenti conoscitivi e poietici, intrinseci e non estranei al corpo della sua scrittura: accade così che la Charmeuse de serpents del Doganiere Rousseau e i sei Blinden di Brueghel s’inseriscono a rafforzare e a confermare il moto del pensiero che Pibiri esprime, vale a dire l’appartenenza alla terra e il processo culturale che ci rende in grado di riconoscere tale derivazione dalla terra e appartenenza a essa e l’importanza fondante del vedere – siamo, se mi è consentita l’espressione, nel cuore del libro, in uno dei punti che più giustificano il titolo e che danno ragione dell’importanza che Pibiri attribuisce all’immagine in quanto atto di conoscenza ed è inutile indugiare ancora: questa scrittura è antisentimentale, rifugge il soggettivismo per cercare traverso precisi atti (il riflettere, il vedere, l’andare, l’interrogare) di penetrare la realtà.
Diventa chiara la funzione da chiave di volta del componimento seguente, in cui “poema” sta per accadimento compositivo e verbale, “farsi” della parola all’interno del reale – e ricordo che “poème” in francese indica sia la composizione in versi breve e brevissima che un testo poetico molto più lungo:

Le vicissitudini del poema, polittico

è necessario creare parole nuove, suoni, parole vivide, oscure, terribili.
Herberto Helder

Se ne parlava
con voci riavute da convalescenze
– le aule senza crocefissi –
Accennato solo
nei Taccuini del naturalista
il poema
che rifiniti banchieri
additano follia –
In realtà dai letami di Giobbe
era la nostra sola arma
non
convenzionale
innamorata.

*

Il poema entra
nella sua forma finale
nella sua Imago: –
una scrittura privata,
prega a ignoti
o contro
la certezza della pena.

*

Smetti di scrivere.
Un padre non si accorge di te.
Per questo disfi il poema?
Nel sogno il padre
era per metà Dio
e per l’altra no,
si sfrega col pugno le lenti.
Entrambi l’Icona e l’altro
hanno il volto sfigurato
dal tuo sparo.
Ma in realtà tu puoi colpirlo
solo ad altezza d’uomo.

*

Uscire piuttosto

dalla parola
cicatrice e fregio
alla felicità del sembiante.
Teso ai punti più bui

il volume del volo –

Così moltiplicarsi d’ali il polso
chiede alla pelle più spazio.

Se anche
una parola in meno
è d’avanzo.

*

Hermann era solito lasciare un segnalibro,
un post-it sotto l’ala ripiegata degli uccelli
migranti, prima del trasvolo.
A ricordargli una scrittura fatta
unicamente di pigmenti naturali
e penne d’oca domestica, cigno, airone.
La sola ancora praticabile.
Il resto del poema una finzione.

(pagg. 16-18)

Alla lapidaria citazione da Herberto Helder segue la prima parte del polittico altrettanto tagliente e inconciliabile con la realtà mercantile in cui veniamo costretti a vivere (“il poema / che rifiniti banchieri / additano follia” – e per “realtà mercantile” intendo anche quella dei sentimenti, dei rapporti interpersonali, delle scelte più intime che un essere umano fa o cerca di fare); Pibiri crede nella scrittura poetica quale “arma non convenzionale“, lasciandoci intendere che la sua è una tensione agonica e polemica; ma non manca la consapevolezza del fatto che la scrittura inizi come un fatto “privato” e si rivolga (vada incontro o anche “contro”) a sconosciuti lettori e l’epilogo non è un idillio, bensì una “pena” (che possiamo leggere come “condanna” o “dolore”), perché la poesia, oggi, non può più essere un atto pacificato e pacifico. Infatti, anche in una situazione tipicamente psicoanalitica (il conflitto con il padre, ma Pibiri amplia lo spettro anche a livello metafisico) la scrittura del “poema” è processo doloroso e violento che deve mettere il figlio-poeta nella condizione di “uccidere” il padre per affermare la propria compiuta maturazione – ben si comprende, in tal modo, la complessità dell’atto scrittorio che evade dalla pura creatività o volontà espressiva per configurarsi come modo di rapportarsi con il mondo e di stabilirvi un proprio posto, una propria identità. La parola è contemporaneamente prigione e occasione per spiccare il volo, il vocabolo stesso “penna” reca in sé una doppia valenza: essa è strumento per scrivere e piuma d’uccello come ci ricordano gli splendidi versi una scrittura fatta / unicamente di pigmenti naturali / e penne d’oca domestica, cigno, airone. / La sola ancora praticabile. / Il resto del poema una finzione“.

Riflettiamo ora sui luoghi; qui a seguire un luogo di “archeologia industriale” che bene esprime la condizione dell’uomo contemporaneo e un luogo in cui gli alberi sono stretti da recenti costruzioni:

Res derelicta, la terra sacra

Il vecchio cotonificio abbandonato nel regno.
Le radici del ficus e del vino lo sollevano al sole
rompono la linea retta lì sull’attenti
per il garbo di Dio.

Un dove interrogato in sogno, souvenir
che appartiene a nessun tempo.
Pietre in equilibrio la sua certezza.
Non uno sbavo di seme umano
dentro il perimetrale.

Di quei ruderi mio sovrano,
tutto il tempo sveglio ma con occhi
meravigliosamente chiusi.

*

Un aranceto piantato nell’incolto
stretto da pianterreni a invaso.
La notte puoi vedere i suoi frutti per terra:
splendono tra erbe, nel segreto crespo
di foglie, e cerchioni arsi in ruggine
(o era la grande ruota di Duchamp?).
Non di scorze al suolo l’impressione
ma tonde lanterne colme di sé, pleiadi,
lampadine da uno scampanìo di ghiere
e per sortilegio ancora in vita nel buio.
La bio-luminescenza che radia
una natura morta, nella stanza
sempre in ombra del padre.

(pag. 22).

Se è fin troppo facile pensare alla Terra desolata di Eliot, tengo a sottolineare una certa vicinanza, appunto, con la poesia di Ceni e di Viviani, ma non escluderei né Cagnone né quei poeti tedeschi e di area anglofona (Simic, per esempio, ma in Chiaro di terra è dato trovare anche, citati a chiare lettere, i nomi di Ingeborg Bachmann, di Wystan Hugh Auden e di Wallace Stevens) che sanno vedere proprio nella quotidianità urbana anche più vieta momenti di poesia, in certi “non-luoghi” viceversa luoghi di riflessione e di riscatto dell’umano, proponendo così un modo nuovo di fare poesia lirica, intendo dire una poesia che trova, raccoglie e cura la bellezza proprio lì dove i nostri pregiudizi non ce la farebbero scorgere e che, senza cadute sentimentali, ritrova un ritmo di canto (non di cantabilità, si badi bene) che luoghi come quelli scelti da Pibiri sembrerebbero escludere; e non passi sotto silenzio il riferimento a Duchamp (uno degli artisti dissacranti per eccellenza, ma anche uno di coloro che ha saputo vedere in una ruota rovesciata un segno e un gesto modernissimo d’arte) né tanto meno la chiusa, ineccepibile nella sua carica concettuale: “La bio-luminescenza che radia / una natura morta, nella stanza / sempre in ombra del padre” – la “stanza sempre in ombra del padre” sembra essere, allora, il mondo opaco e inospite, là dove i versi precedenti tematizzano la luce diffusa proprio dai frutti o dalle loro bucce scintillanti per terra, in quel terreno incolto e maltrattato, eppure generatore di vita, di nutrimento. Il ficus e la vigna della prima parte, gli aranci della seconda sono (con splendida invenzione ricalcata su di un termine della biologia) “bio-luminescenza“, per cui la “terra sacra” del titolo è quella pur viva in mezzo all’abbandono e all’incuria; l’assenza del seme umano (maschile, del padre) sembra suggerire una situazione di sterilità, là dove la terzina in chiusa della prima parte mi pare alluda alla creazione artistica, “sovrana” e “sveglia”, ma con “occhi / meravigliosamente chiusi” perché intenta, immagino e interpreto, ad ascoltare, a odorare, dal momento che il vedere va anche governato, talvolta dev’essere “accecato” o “sospeso” affinché tutti i sensi del corpo possano scandagliare il reale.
La suggestione che Pibiri riceve dalla fotografia e dalle arti figurative dà vita a testi che costituiscono (anche, ma non solo) una riflessione sul fare arte e quindi sullo scrivere in versi:

I nomi di Hokusai

Resta qui, o riavvia
per la discesa folle e sassosa
in strenua alleanza con le rapide, il luccio
all’inseguimento, da cerchi le carpe di Hokusai,
la zucca vuota sulla corrente.
Con i boschi mutili, fluitati a valle.

Le acque dolci scontrate da corpo
a corpo, poi a capo – vuoti, ricolmi –
per sfollare ambasciate.
Non è necessario sapere dell’amore,
dei suoi tanti nomi.

(pag. 24)

L’arte sottile dell’ékphrasis (qui appena accennata, tra l’altro) assume così il duplice compito di rendere omaggio a opere o ad artisti amati, e di mantenere la necessaria distanza dalla materia trattata per evitare il soggettivismo e il sentimentalismo; Hokusai, noto anche come “il vecchio pazzo per l’arte”, è in questa pagina di Pibiri l’incarnazione dell’amore (per l’arte, appunto, ma anche per la vita e per la terra) che il poeta sardo ha remore se non pudore a pronunciare, ma che è presente e potente con i “suoi tanti nomi” – Chiaro di terra è, quindi, anche un canzoniere d’amore (l’arma non convenzionale della parola è innamorata, aveva scritto poche pagine prima il poeta) , ancor più a ragione quanto più dell’amore si tace, ma lo si lascia trasparire in un itinerario attraverso gli abissi dell’inconscio, i paesaggi terrestri, le invenzioni dell’arte e a tal proposito leggiamo nella pagina successiva il testo che segue:

Fermi alla loro prima età.
Sassi di fiume. Arrotondàti di tenerezza.
Cesta d’uova nella corrente.
E sarebbe doloroso l’errore
agli angoli della tua percezione.
Pensa pure alla casa di bambole in turchesi
o sotto il vetro un’invenzione di Cornell
variamente assortita.

Vi si sporge sopra una strana umanità.
Nella calca inizia a sognare, perdere
senso, peso. Naso sull’acqua.
Frana – non frana.

Le invenzioni oniriche sono terreno fertile per la metafora e la similitudine (e i sassi cui s’associa la cesta d’uova conducono la memoria verso la pagina d’apertura di Cent’anni di solitudine dove i sassi somigliano alle “enormi uova preistoriche” attorno a Macondo), le “scatole” di Cornell vengono a essere un ottimo esempio di come l’arte sia capace di raccogliere e mettere in relazione entro un unico spazio (la scatola, il testo, la visione) realtà tra di loro, in apparenza, inconciliabili o lontanissime (e, di nuovo, suggerisco il nome di Simic che su Cornell ha scritto un libro di straordinaria suggestione).

La serie mancante

Un centinaio di lacrime per la sete
un piccolo mondo acquatico
diminuito dall’inchiostro.

Il filo del racconto chiude per sé
ogni vita in consegna.

Ma più avanti entrando in mare
– ora puoi anche non scrivere –
il pontile slaccia il suo impalco
rifonda lo spazio tra le dita
che qui ritorna.

(pag. 27)

È difficile e coraggioso un testo con notturno lunare, ma leggiamo come Antonio Pibiri intepreta il tema:

Per aria la luna / visione

che sola placa qualsiasi Todestrieb.

Il coro degli annegati fermi
a una rada, nel suo rapimento.
Le bestie al recinto.

Una raffica di tordi tra
crepuscolo e ciminiere
nell’aprirsi fa il cielo a pezzi
e ogni volta ricompone.

Non lo attesta Pitagora o la Scolastica.
E non serve a inverarlo un distico.

(pag. 28)

Il corsivo presente nel titolo (che è anche il primo verso della composizione) fa da fulcro visivo e concettuale (e non dimentichiamo il flauto in asse con la luna di cui abbiamo precedentemente letto) ed è capace di placare qualsiasi pulsione di morte (terra e luna sono, nella lingua italiana, di genere femminile e connesse con il femminile e con la madre), ma la presenza del “coro degli annegati” e poi delle “ciminiere” colloca il testo nella nostra piena contemporaneità, mentre il distico finale esprime, appunto, la distanza tra la poesia e la realtà, per cui quella di Antonio Pibiri è anche una scrittura che si pone il problema della dicibilità e della rappresentabilità del reale e senza ingenue attese, senza attardata fede nella “verità” della parola poetica – ma, mi sembra, con tutta la modestia di chi, pur praticando con consapevolezza piena e piena passione la scrittura poetica, riconosce e accetta la supremazia del reale, ma non, ho l’impressione, dichiarandosene sconfitto e arrendendovisi (ché non si tratta, qui, di un conflitto o di un antagonismo con il reale), bensì con atteggiamento dialogante e curioso; l’arte, per esempio la fotografia di Ansel Adams, l’arte sa però avere un’oscura concretezza, come quando proprio Adams fotografa i pioppi facendo dell’immagine qualcosa di vero in sé (cioè in quanto realizzazione d’arte), senza dimenticare la realtà della rosa sottratta a ogni intervento umano, esistente in sé e per sé, fino alla bella conclusione con la sedia avvicinata “per restare“, dal momento che non va dimenticato che Chiaro di terra è libro in continuo movimento e sostare o restare significa anche fermarsi a contemplare, a guardare:

Nella veglia così incerta, credere nell’oscura
concretezza dei pioppeti in oro, a fondovalle,
gli aspens di Adams.
La rosa macchiata del suo sangue
puro, senza l’appalto dei giardinieri,
la rosa munifica nel sottrarci.

E la sedia che mi avvicini
per restare.

(pag. 29)

 

E poche pagine più in là ancora un fotografo, un testo breve e perfetto che dice senza retoriche la situazione della gente di colore a Harlem:

Omaggio a Leonard Freed

Una pompa d’acqua fuori controllo per la pressione
picchia convulsamente sull’asfalto. La coda del drago.
Ma il sole esaspera, e i bambini di Harlem accorrono
seminudi, saltano divertiti tra le sferze gelate,
in festa per il refrigerio.
Gli adulti intorno li guardano
con in mano le pietre
del disdegno.

(pag. 31)

Si tratta di una poesia alla quale bastano pochi accenni (il nome del fotografo che ha documentato le lotte per i diritti civili negli Stati Uniti, il quartiere di Harlem, il giuoco dei bimbi con la pompa d’acqua, gli adulti in lotta per i propri diritti – Pibiri ricorre all’efficace metafora delle “pietre / del disdegno“) per prendere vita e imporsi anche con il suo slancio etico.

Si giunge poi a VISIONI DELL’ULTIMO, introdotte dalle parole di Oskar Kokoschka: “(…) io li dipinsi nella loro ansietà e nel loro panico“.
Se vogliamo rifarci alla metafora d’apertura dei quaderni, ebbene direi che Chiaro di terra è anche un quaderno nel quale sono schizzati essenziali, perfetti paesaggi, per esempio:

Si stacca in volo il gheppio
improvviso da cespugli

il lentischio sul mare.

Lo videro gli amanti?
Nessuno lo vide
metà
e metà
con Dio?

(pag. 35)

là dove, è bene sottolinearlo, questi paesaggi (o “visioni”) non rimangono mai fini a sé stessi, ma posseggono sempre un nesso con una fase del pensiero poetante o una situazione psicologica, come nel caso presente in cui (similmente ad altri luoghi del libro) c’è un accenno fuggevole a Dio, alla sua presenza (o, anche, assenza…)
E a conferma:

Principio
della gioia
i gabbiani i primi
colpiti al volo dalla luce.

Giù in basso nel regno
lacrime di freddo
roteano cose mai viste.

(pag. 37)

È un testo speculare, costituito da due parti in qualche modo contrapposte e notiamo che il sintagma “nel regno” richiama il primo verso (“Il vecchio cotonificio abbandonato nel regno“) di Res derelicta, la terra sacra, metafora forse di un mondo conflittuale e abitato dal dolore, dal freddo, dalla decadenza (il “regno” del padre o Padre di biblica memoria?)
A seguire leggasi uno splendido testo di alto valore ritmico:

Hai suonato i flauti
notte di vento
con la mia casa.

Imbracci premendo la lingua
contro il bordo dei vani, gli abbaini,
le microfessure tra porte e finestre,
le trombe tibetane sotto il pavimento.
L’elenco è incompleto.

Dai luce così a un quadrante irrisolto,
ascolto notturno – di frontiera alla
serie cronica di sempre le
stesse parole.

Quel vento lo stesso dio
dato per apparso
una volta
per tutti.

(pag. 39)

Il vento, presenza ineludibile in tutta la Sardegna, riporta sulla pagina l’interrogarsi da parte di Antonio Pibiri proprio intorno a dio (vento e dio maschili dal punto di vista grammaticale e anche rappresentativi del maschile nella natura e nella storia). L’ascolto notturno e sulla linea di frontiera dice bene dell’attitudine del poeta; la vasta gamma delle metafore riconducibili al suonare, ma la presenza fitta della metafora in tutto il lavoro ricordano una composizione e più in generale la poesia di Tomas Tranströmer (per esempio, del poeta svedese, penso qui a Una notte d’inverno: “La tempesta poggia la sua bocca alla casa / e soffia per emettere un suono. / Dormo inquieto, mi giro, leggo / il testo della tempesta assopita“), anch’essa così ricca d’immagini del mare, della natura, del rapporto uomo-enigma, mentre la mente del lettore è chiamata a intuire e a saldare i nessi tra immagine e concetto in un’attitudine collaborativa e di co-scrittura che dimostra quanto il poeta rispetti il proprio lettore e ne esiga una presenza attiva e vigile.
Un raffinato quasi anagramma dà il titolo a un’ennesima, notevole composizione, anch’essa disposta, come altre nel libro, a mo’ di dittico; il poeta sardo possiede finezza ed eleganza non comuni e anche qui lo dimostra:

Talismani, tonalismi

I

Nell’annientamento meriggio la fornace
indugia sui binari.
Non siamo pani d’argilla, non qui.
La parola attenuata. Non savi.

Serve allora lo stesso abbandono,
lo stesso tornare.

Al finestrino le case in fila, di colori marini,
le case acquerello. Si potrebbe scendere,
violare domicili?
Una ragazza chiara spinge all’ingresso la bicicletta.
La sua schiena nuda e ferita dalla campana del sole
come i giardini osceni dopo la pioggia
mi porta alla testa di un sogno.

II

Aver visto
per felice caso
– inizio del mondo –
le braccia nude di giovani donne
aprire in un gesto le persiane
sul chiostro in ombra
dalle turbe del violetto
un frutto pieno d’acqua.
Per questo si può ringraziare
e per poco altro.
Stanotte in sogno ho mangiato
l’uva più dolce della mia vita.

(pagg. 44 e 45)

Mi preme osservare che “ringraziare” (gratias agere) è atto religioso, indipendentemente dal fatto che si sia credenti o meno e che nella parola “religio” si riconosce il legame tra l’umano e ciò che è molto più grande di noi (che lo si chiami Dio, natura, universo o che altro…) E ancora: il femminile, una delle poche cose per le quali si può ringraziare, appare in questi testi portatore appunto di grazia, è esso stesso grazia in atto (e s’intenda “grazia” come bellezza e come realizzazione di bene, di felicità) e infine: aver conosciuto per la prima volta il femminile, la grazia della femminilità, ha significato per il poeta l’inizio del mondo.
Fare esperienza del mondo significa anche esperire la sofferenza, a volte psichica, atroce, esemplata qui nella figura di Amelia Rosselli, evidentemente persona e poeta cruciali per Antonio Pibiri che le tributa un omaggio non formale, né d’occasione, ma di dolorosa sincerità e di acuminatissima comprensione sia psicologica che intellettuale:

Omaggio ad Amelia Rosselli

La curvatura del nemico

Amelia Melina
stretta ai polsi di una foglia
all’albero atroce della follia
da marinai senza divisa.

Nelle corsie di lune-braille
coi damaschi sul pugnale
ti screpoli le dita tra le gambe.

E se poi tutto è velato di mondo
il tuo profilo spezzato a mansarda
fin dove affuocavi la curvatura
dall’oculare – azzurro – tondo.

(pag. 47)

Il riferimento ad Amelia Rosselli sottintende l’idea di un linguaggio anticonvenzionale, l’uso di una parola irrequieta e per nulla disposta ad adeguarsi ai luoghi comuni. E il dono della scrittura di Pibiri risiede anche nella sua capacità di strutturarsi in testi nei quali la lingua italiana riconquista la propria bellezza e nobiltà, evitando accuratamente la banalità della mimesi del parlato, articolandosi in toni spesso sussurrati, cadenzati da una scelta lessicale e ritmica di non comune finezza e di estrema attenzione ai valori fonici e concettuali:

(…)

Guarda fuori e osserva ancora il merlo indiano
come semplice riassetta il piumaggio
e curva ogni nota alla dolcezza.
Un’idea di politeismo.
Che il cielo senza saperlo
ha cambiato di nuovo la sua luce.

(pag. 52)

L’ultima sezione del libro s’intitola LE MANI PER TERRA (le mani che lavorano, che scrivono, che toccano, che accarezzano il corpo della terra-madre) e s’apre con le parole di Ida Travi “Si comincia a scrivere da figli, ascoltando la voce del padre, inseguendo quella della madre“.

Scriveva Borges che l’oblio è una forma del perdono.
Così dimenticai Dio per non esistere,
o preservarlo forse dalla banalità delle parole.
Ma avrei anche potuto sottrarre le cose ai nomi,
l’acqua ai laghi artifciali, e tutto ciò
che di selvatico in sporgenze
frangia e si specchia attorno.

(pag. 57)

In termini psicoanalitici potremmo rileggere il testo discettando sul senso di colpa e sul perdono, sulla figura di Dio in quanto padre (elemento maschile, dunque) e sulla necessità di dover “uccidere il padre” per smettere di esistere come figli, diventando adulti, sull’atto del nominare le cose che, in termini biblici, è prerogativa attribuita ad Adamo che è creatura (non creatore) – nell’intiero libro sono riconoscibili spunti in tal senso, ma, appunto, un’indagine di tipo psicoanalitico accostata a una di tipo culturale e a una terza di tipo puramente stilistico condurrà sempre alla conclusione che siamo davanti a un’opera molto complessa, valida per qualità di scrittura, estremamente problematica (il che, mi capita di ripeterlo spesso, è per me indice di qualità), non consolatoria, ma provocatoria perché costringe il lettore a porsi molte domande, a tornare e ritornare nella propria lettura, a intestardirsi a interpretare anche i passaggi più ardui non perché la difficoltà sia una “posa”, ma in quanto insita nel rapporto stesso tra scrittura e reale, tra scrittura e psiche.
Invito ora a leggere e ad apprezzare l’essenzialità dello stile nella composizione seguente che, movendo da un distico di Sinisgalli, sembra mettere in pratica certe scelte stilistiche di fotografi dell’essenziale e dell’inapparente, come Iodice e Ghirri (non citati da Pibiri, ma che mi vengono in mente leggendo) e che sanno rivelare la bellezza insita in istanti o in luoghi, appunto, inapparenti se non fosse per il gesto artistico che li coglie e rivela:

Sul cielo non oso
più leggere o scrivere
Leonardo Sinisgalli

Una screziatura color macero
di foglia sul muro di cucina.
Un rorschach rupestre.

L’angelo dell’umidificazione
ha imposto le mani:
sogno – effrazione –

In altre parole: il cielo è qui,
alpinista che dorme in parete,
mi goccia via con un dito.

(pag. 64)

Ma c’è una presenza che ispira tutto il libro, c’è un nome mai chiaramente detto, eppure pregnante per temi e per modo di concepire la scrittura poetica, quella di Paul Celan:

Cerchio e spirale

Non torna il conto dei colori
e uno sbalzo sforma i viottoli,
i selciati di domenica –

Si fa cupo il sangue, e i binari di neve
attraversano le case vuote di Cernowitz.
Gli antichi romani erano
professionisti della crocifissione –

Ma qualcuno riapra i rubìni alle flebo,
i verdi alle piantagioni, più vento ai mulini,
braccia d’acqua disegnate
dai maestri della trasparenza pittorica –

E in avanti fai in modo
che la parola non sia foglia
a coprire il tuo sesso.

(pag. 67)

È il nome della città natale di Celan a suggerire il nome del poeta, o meglio, a rivelarne la presenza e qui, in questo testo, Pibiri fa i conti con la Shoah e, direi, con tutti gli stermini della storia (è di matrice maschile la violenza come la guerra), ma egli aveva cominciato subito, con il testo ascensionale d’apertura, a rappresentare questa volontà di rifondare il proprio rapporto con il mondo e la storia. Paul Celan è poeta che in maniera radicale ha vissuto (e pagato con la sua stessa persona) l’indicibilità dello sterminio. Nessun poeta può sottrarsi alla consapevolezza di scrivere dopo Celan, traendone così le necessarie conseguenze. Non si dimentichi, tra l’altro, che proprio la figura femminile e materna è decisiva presenza nella poesia celaniana (altro tratto che Pibiri ha in comune con Celan) e che lo stesso uso che Celan fa delle immagini supera qualunque matrice surrealista e in Pibiri riconosciamo, per esempio, la presenza di due organi del corpo umano (l’occhio e lo stomaco) che fa pensare anche a un tipico stilema celaniano, quello in base al quale il poeta di Czernowitz isola un organo (la faringe, l’orecchio, il polmone) trasmettendo una sensazione di smembramento del corpo umano, ma servendosi pure di una visionarietà capace di sorpassare l’opacità della pelle e di mostrare quegli organi in attività vitale, come fosse dotato ognuno di una propria personalità e di una storia.

(Un’incisione di Gisèle Celan Lestrange per il ciclo “Cristallo di respiro” dedicato dal poeta alla propria madre).

E la riflessione sulla violenza, sulla legge, sulla guerra e sulla pietà per i morti si continua nel testo seguente, attraverso Antigone, contemporaneamente, vien fatto di pensare, sorella e madre fedele alle leggi della pietà nei confronti dei morti:

Cos’è Antigone, cosa non lo è
se rimangono nelle proprie case.
Docili alla ragion di stare
al gregoriano coprifuoco sulle nocche.
Fermi a tetri regesti,
ai serpenti d’acqua se bolle.
Le ore che svegliano i mattini –
S’intavola un ponticello, un raccordo
tra frane di cenere e bicchiere,
tra compassi, le doppie
punte dei suoi capelli.

(pag. 69)

Occorre stare ad ascoltare con attenzione, Chiaro di terra pretende cura di lettura perché siamo di fronte a una poesia mai urlata e mai affidata a facili effetti, ma che va colta in testi rasciugati e densi. È, ci avvisa il poeta, cercare l’equidistanza tra la vita e la morte, tra le molte parti che costituiscono il mondo:

Equidistanze

Tutta l’erba povera un solo fiore.

La pena che temo, se i morti
– i soli a saper stare al mondo –
non sentono a ridosso la mareggiata
che scava le sue chiese di preghiera
sul fondo, e rende mirabile la rovina:
saturno e marte, rosavento,
barometri.

Forse se ci facciamo più sottili
noi altri, più discreti,
sensali tra le parti,

un unico fiore – forse.

(pag. 72)

Infatti ancora il vedere (il saper vedere) determina la condotta esistenziale, confermando il fatto che in questo libro la poesia non è fine a sé stessa, non s’esaurisce dentro una pur legittima ricerca estetica, ma che la questione in giuoco è di carattere etico e conoscitivo:

Tra i ciechi di chiara fama
– le violazioni fotografiche della Arbus
per stradine private e parchi pubblici –
scopre l’occhio e ancora non vede.
Quando lo sentiremo ridere, allora sì,
quando dirà ecco, il segnale a distesa.
Allora sì: tutti i vicini di casa
e i re nudi fluiscono in strada
da pianti inclinati, gradino
dopo gradino. Sono fanciulli
rapiti in cielo, oh Ganimede!

(pag. 74)

L’occhio di Diane Arbus con le sue “violazioni” rappresenta qui l’occhio della poesia e dell’arte che, se ha anche un fine conoscitivo, non può non spingersi nell’intimità delle cose e delle persone, “violarle” per rivelarle, mentre i “pianti inclinati” viene a essere un gioco linguistico che vuole provocare nella mente del lettore quel cortocircuito tra espressioni usuali (qui i piani inclinati) e la capacità inventiva della scrittura, senza dimenticare che “Anche la scrittura, (è) arresa alla sua impermanenza / La penna un cannone spara neve” (pag. 75), versi che fanno venire in mente un noto luogo di René Char, l’inizio del poema La bibliothèque est en feu:Par la bouche de ce canon il neige“.

le madri sono troppo lontane”  Thierry Metz

(…)

Del viso di lei, con la crudeltà
del tempo e la dolcezza
sopra il suo enigma taciuto
non saprei più dire adesso
se fermo nel dolore, o nel segreto
di aver generato Dio.

(pag. 76)

In effetti la scrittura lotta continuamente contro il disfarsi della memoria, contro l’impermanenza del conoscere, è consapevole della propria peculiare condizione tra essere altro rispetto al mondo e, contemporaneamente, del proprio stare nel mondo (si cerchi d’interpretare il verso e la sua funzione “le chine di Michaux” nel testo che segue):

Nessuna memoria del vero.
Che cosa sono le mani delle tue mani?
Il sole ha coperto tutto
con il suo volume, falansterio.

Ma un taglio sul ventre
e l’evidenza riaffiora:
si mostra tra le mele a bagno, lenzuola
che gonfiano le case,

tra i filoni di porfido addolcito sul mare,
l’edera schierata dinanzi alla morte,
le chine di Michaux…

e dice:

– non confondermi però con i tuoi secoli di scrittura!

(pag. 77)

La mia interpretazione (non c’è bisogno di dirlo, fallace e magari inesatta) è, appunto, che la riflessione di Antonio Pibiri individua l’esistenza “cosale” (intendo dire stabilita a prescindere dall’essere umano e impostagli) delle rocce di porfido e della morte cui vengono accostate “le chine di Michaux“, un atto artistico, cioè, che vive nello stesso tempo della sua necessità a venire a esistere e della sua estrema fragilità rispetto alle “cose” quali sono una scogliera e la morte stessa, la quale è tema di riflessione anche come segue:

Il corpo senza argani

Durerà un solo giorno il giovane furioso e bello.
Ma anche la vecchiaia, di maleodore, l’istessa morte .
“Chi dirige il coro delle voci bianche?”
Lasciami essere il terzo giorno,
il movimento di fiume che solleva la gonna
per scendere i gradini, il nespolo
quando tutta la notte si lascia cadere
sulla tettoia a ondicelle
svegliando di soprassalto
la serrata dei palazzi.
Una diocesi illuminata e acefala
o il pretino di campagna raggiungere
di trafelo la prima luce sui frumenti
ogni volta come sommessa parusìa.
E in questo preciso mondo
un cielo a caso sulla scollatura.

(pag. 80)

Abbiamo appena letto, tramata a tratti di una sottile ironia d’ottima scuola surrealista, direi, che non toglie nulla alla serietà della questione, un inno di lode nei confronti dell’esistere e sempre in quel modo privo di enfasi, ma capace di sprigionarsi per propria forza di stile dal verso, dall’immagine, dalla costruzione del testo.
E veniamo ora a

Sale d’attesa

Prima di volgermi contro
vedo l’occhio di un giovane
sporgere e chiaro, dietro il dosso

di corpi, paiono uomini.

In disparte s’apre in azzurri

(i due grandi laghi sul viso di Hölderlin)
e brilla dietro la Contingenza,
i penitenti all’Ufficio del pane.

Un chiaro di terra che
improvviso ruota i suoi oceani
a un esilio lontano,
a un addio.

(pag. 82)

L’occhio, ancora, lo sguardo, il vedere: se c’è un’ascendenza surrealista (si pensi a Buñuel, ma non solo), essa viene superata e unificata nel nome, qui, di Hölderlin (ma, ribadisco, l’occhio è elemento cruciale anche nella poesia di Celan) e sigillata con quattro versi di magistrale bellezza che amplificano e proiettano ulteriormente in avanti l’attitudine al movimento del libro. La scrittura sembra essere, per Antonio Pibiri, uno stazionamento in sale d’attesa (o in recinti, su alture, in riva al mare) da cui contemplare il reale – ma, ovviamente, si sta in una sala d’attesa perché si aspetta un treno, o un bus, o un aereo, e la sala d’attesa stessa può essere la stazione intermedia di un viaggio in più tappe.
La casa è altra presenza costante nella scrittura pibiriana, già lo sappiamo, e si noti anche nel caso che segue l’originalità della rappresentazione e non si incappi nell’errore di considerare le immagini superficialmente “surrealiste” – non credo che Pibiri coltivi la scrittura automatica o ami abbandonarsi agli affioramenti incontrollati dell’inconscio, ma, al contrario, egli costruisce testi rigorosi nei quali immagini e scelte metaforiche hanno il compito di veicolare l’enigmaticità e talvolta l’orrore insiti nel reale, oltre al fatto che il poeta sardo ben conosce le teorie psicoanalitiche e il suo discendere nelle regioni oniriche e dell’irrazionale è sondare tali regioni con lo strumento della scrittura:

Ho dormito con la porta di casa aperta, il lume spento.
Nessuno è entrato. Nessuno uscito.
Col passare degli anni non c’è più bisogno di medici.
La notte i pesci-palla inverosimilmente blu
a fior d’acqua si gonfiano e smuovono il relitto
in secca, i piedi del letto.
Rimane poi il dubbio che servano protesi agli angeli
per insufficiente apertura alare. E quel coro terribile
dalla strada, quando canta solo le consonanti.

(pag. 83)

La chiusa di Chiaro di terra conferma le caratteristiche salienti della scrittura di Pibiri (asciuttezza del dettato, pochi oggetti, concretissimi, a stabilirsi come ponti tra il reale e la mente osservante e scrivente, rapidi riferimenti culturali a rinforzare ulteriormente l’esperito o il pensato, apertura verso nuove dimensioni del sentire e del pensare):

Epilogo

Fuori di qui, un secchio vuoto rintocca
dal cantiere dove saliranno case.

Dalle sue mani giunte e schiuse
piano prende volto il tuo volto
un Brancusi levigato a oro.

E non saprai più se donna o madre
se parola.

(pag. 85)

Credo non ci sia bisogno di enfatizzare più di tanto il fondamentale distico finale che, lo ricordo, chiude l’intiero libro, inverando l’esergo di partenza; “donna, madre, parola” sono i termini-concetti verso cui tendeva l’intero lavoro, un lungo, irto cammino verso la madre, da non intendersi però secondo stilemi banalmente psicoanalitici, ma in riferimento a una visione di gran lunga più complessa, perché anche antropologica, storica, culturale e linguistica: è un cammino di costruzione (non sfugga il suono del secchio dal cantiere, quindi da un luogo di costruzione e l’associazione più immediata mi sembra proprio quella della voce materna, che è suono e parola, che insegna la parola medesima – dunque avvia il figlio alla poesia, alla scrittura, all’ascolto-dialogo). Men che meno casuale è il riferimento a Brancusi, l’artista che ha impegnato tutta la propria ricerca artistica in direzione del femminile e della forma intesa come essenza costitutiva del reale – in tal senso mi sembra di scorgere una notevole vicinanza alla poetica di Antonio Pibiri, il quale cerca, componendo i suoi testi “a togliere”, di cogliere l’essenzialità nel reale; se la res è spesso occultata e opaca, resistente al tentativo di coglierne l’essenza, la scrittura del poeta sardo lavora come lo scalpello dell’artista romeno fa con la pietra, con il legno, con il metallo, elementi tutti che a loro volta invitano all’essenzialità, alla ricerca dell’origine, al tentativo di ritorno all’origine per capire il proprio essere-qui-e-adesso.

Un caloroso ringraziamento vada a Giampaolo De Pietro che mi ha fatto conoscere questo libro e messo in contatto personale con Antonio Pibiri. Ne valeva la pena.

Le foto che illustrano l’articolo sono rispettivamente di Saul Leiter (copertina di quest’articolo, ma anche autore della foto di copertina del libro di Antonio Pibiri), Ansel Adams, Leonard Freed, Diane Arbus e restano di proprietà dei loro autori.

 

ANTONIO DEVICIENTI

GIAMPAOLO DE PIETRO-RIFLETTE SULL’ULTIMO LIBRO DI ANTONIO PIBIRI, “CHIARO DI TERRA”

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chiaroditerra DEFINITIVO

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Leggendo Chiaro di terra di Antonio Pibiri (L’arcolaio 2016)

Articolo scritto da Giampaolo De Pietro, tratto da inni in vani

 

 

 

settembre 29, 2016

..

“Levigato a oro”: tutto il libro, il suo cercare, forse proprio “un’inedita narrazione”. Questo libro, Chiaro di terra, ultimo di Antonio Pibiri, ha la luce di una forte “esposizione” al visivo – s’intende l’arte visiva, nella fattispecie – al mondo di una fotografia – la fotografia. È una ricerca che passa, per l’appunto e inevitabilmente, per l’immagine, un cammino di parola attraverso.

(…)

o del come fosse

finzione il temporale e gioco la ferita.

(…)

(pag. 11)

 .

Il titolo della raccolta originariamente era un altro, con riferimento alle madri e al deserto. Chiaro di terra, il titolo poi scelto, sembra prendere in considerazione tutti e due gli “elementi di partenza” e in più, s’è possibile, il padre – allora l’impressione, o il suggerimento (la suggestione), potrebbe essere che ciascuna “fase” di questo cammino parta da una forma di sintesi; sintesi che avrebbe per sottotitolo l’originale titolo. L’attraversamento che compie lo sguardo ha anche chiari riferimenti alle tecniche e ai materiali della pittura: in Due epiloghi su tela, diversamente s’è dentro a un’opera di Bruegel, coi sensi di chi legge e i nessi di chi guarda  – “due con l’ombra, due lacune” –  Le poesie di Chiaro di terra sembrano puntate, episodi o tratte e tratti di una strada maturata da un biografo-poeta che “saldo sui gomiti/annota dal ciglio l’infanzia di fili d’erba:/valuta i traumi sensibili, il gioco/sottilmente coi pari, la buona stella,/l’esposizione alla luce smorta e/diretta del lampione.//Più sotto – dal calpestio dei passanti -/solleva l’alluce e sente tra le dita/il trifoglio raggiargli la terra,/divarica i secoli muti. (pag. 15)

(…)

Il filo del racconto chiude per sé

ogni vita in consegna.

.

(…) [pag. 27 La serie mancante: tra questi versi vi è anche una chiara (ritorna spesso questo aggettivo, o sentimento, e sempre preso in prestito dal titolo)] presa di posizione (coscienza), in chiusura alla poesia, entrando in mare:

.

Ma più avanti entrando in mare

– ora puoi anche non scrivere –

il pontile slaccia il suo impalco

rifonda lo spazio tra le dita

che qui ritorna.

.

Lo spazio, qui, ritorna – come rifondato, tra le dita – “simbolico”. Spazio nello/dello spazio: meta-scrittura?

E il tempo? Un grande senso di sospensione. In questo “gioco del mentre”, “tra vento e palpebra”. E alla domanda: “Come si costituisce una parentela?”, come rispondere? Forse con “ora puoi anche non scrivere”. Ma questo è solo un gioco tra le parti riconosciute di una mappa.

.

L’ultima sezione del libro, “Le mani per terra” s’inaugura con Ida Travi, ascoltando la voce del padre, inseguendo quella della madre e con Borges procede e s’avvia: “Scriveva Borges che l’oblio è una forma del perdono”.

A parole impronunciabili, orfane (ricopio qui l’intera poesia di pag. 60):

L’orfanotrofio di tante parole:

dicono di smettere, incattivite col tempo.

Non dicono, puntano gomiti e piedi

quando serve, indocili

non si lasciano da alcunché trascinare.

Si precipitano di corsa alla finestra

ogni volta che inservienti spalancano le tende

al mattino (stanze appena fatte, tesi i letti)

e il giardino fuori si solleva fino ai vetri

crepita i suoi verdi come metallo

che percuote le inferriate.

Queste parole arroccate

sono nude sotto i camicioni

si protendono sulle dita

tacciono di muta gioia.

Ma tu non le puoi pronunciare.

 –

 .

Il tempo di questo libro è coniugato al presente, poi all’imperfetto, anche all’infinito, vi è spesso il mare (inconiugabile, se non all’infinito?), vi è la Grecia, orientamento d’isola. Le stagioni, in pensiero. Ancora la terra, un effettivo “sostegno-supporto” da toccare, riscrivere. Tra simboli, un delicato sonno, e ancora un’effettiva “sostanza” di sogno, riconciliati col meno (a mio avviso “parte fondante” della poesia)

Ho bisogno che la neve resti dov’è

i suoi adagi, ai laghi, non per la sete.

.

Ho bisogno che la sete resti in gola

con la neve, riconciliati col meno.

.

Presentimento della nuda roccia

riavuta. È la parte da riscrivere.

.

.

GIAMPAOLO DE PIETRO

 

 

ANTONIO DEVICIENTI RECENSISCE “LETTERE DAL MONDO OFFESO” IL CARTEGGIO TITO – DI RUSCIO. ARTICOLO TRATTO DAL SITO SAMGHA

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foto in primo piano di ChristianFOTO PRIMO PIANO LUIGI B NERO

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ANTONIO DEVICIENTI, SULLA RIVISTA SAMGHA, RECENSISCE

LETTERE DAL MONDO OFFESO”,

IL LIBRO CARTEGGIO TRA CHRISTIAN TITO E LUIGI DI RUSCIO.

 

Ho avuto la fortuna d’incontrare questo libro direi ancora nella sua penultima fase di scrittura, per poi riattraversarlo nella versione definitiva che tutti possiamo leggere nel bel volume (anche dal punto di vista editoriale) dell’Arcolaio. Ricordo ancora la fortissima emozione che provavo leggendone le bozze e il desiderio che nacque di scriverne subito; poi tutta una serie di circostanze mi hanno portato a parlarne solo oggi, a quasi un anno dall’uscita ufficiale, ma ne sono contento perché accade spesso, almeno sul web, che la pubblicazione di un libro riceva una risonanza immediata, per poi cadere dopo poche settimane nell’oblio. E invece la presente è un’opera da leggere assolutamente e della quale continuare a parlare.  

Tutto comincia dalla Libreria del mondo offeso di Milano, oggi in zona Sempione, ma alla sua apertura e per alcuni anni successivi in Corso Garibaldi e comunque, allora come oggi, voluta e animata da due persone che innanzitutto amano e conoscono i libri, Laura e Marco Bocciarelli. Sono loro che fanno conoscere a Christian Tito il nome di Luigi Di Ruscio, che gli procurano i libri; Christian è una persona e un artista estremamente versatile (“sai fare tante cose…” gli disse una volta un’amica e quell’osservazione è divenuta, col tempo, il verso di una delle più belle poesie contenute nella raccolta Tutti questi ossicini nel piatto, Zona Editrice, Arezzo, 2010) e, negli anni di cui parlo qui, egli è qualcuno che cerca la sua voce nella scrittura e che, con umiltà e consapevolezza, sa di aver bisogno di persone da cui imparare. Comincia così il viavai di emails tra Milano e Oslo dove Luigi Di Ruscio abita da anni e dove si è diviso tra la sua vocazione alla poesia e il mestiere di operaio in una fabbrica di chiodi. Potrei ora discettare sul genere del romanzo epistolare o anche dell’epistolario tout court, scrivere che il libro di Christian è la controprova che tale genere letterario non è morto (e mentre scrivo ho vicino a me, e non a caso, l’epistolario di Ingeborg Bachmann e Paul Celan e lo tengo qui accanto quasi chiedendo a queste lettere doloranti e bellissime il viatico perché io sia all’altezza di scrivere del libro di un amico carissimo e di uno scrittore e poeta davvero bravo); preferisco invece concentrarmi su quello che le Lettere dal mondo offeso è: un magistrale montaggio (suddiviso in capitoli) di missive in forma di posta elettronica che, diciamo così, allo “stato grezzo” erano lo scambio affettuoso e per entrambe le parti diventato col tempo necessario tra due persone molto affini – ma il dato tecnico, così freddo, è ampiamente subissato dalla partecipazione e dalla commozione che afferrano il lettore man mano che entra nel rapporto amicale tra Christian e Luigi. Mi piace sottolineare che Christian dice sempre “il libro mio e di Luigi” ogni volta che ne parla: questo non è mai soltanto “il mio libro” e a ragione, visto che numerosi testi sono le emails di pugno di Di Ruscio, ma, soprattutto, perché Christian è convinto che si tratti di un libro scritto a quattro mani e di un’opera che tenta di restituire a Luigi Di Ruscio la statura (grande) che ha, ma che non sempre gli viene riconosciuta. È, direbbe Sebald, “un tentativo di restituzione”.

Sarebbe facile e banalizzante immaginare che Di Ruscio diventi il padre che Christian ha perso pochi anni prima (anche se è lo stesso Christian, in un punto del libro, ad accennare ad un suo rapporto anche filiale col poeta marchigiano): nel corso dei contatti Luigi afferma e sottolinea il loro rapporto amicale e, proprio all’inizio della corrispondenza, quella di Christian è una calda, commossa ammirazione per un autore appena scoperto e dal quale si sente come folgorato; il poeta risponde sempre con affetto, passione, mettendosi volentieri a nudo, parlando di sé, della propria scrittura e della sua famiglia senza reticenze, cosa che fa anche Christian, proprio perché non è il medium (non sono né il computer né la posta elettronica), ma è la parola, di un uomo detta ad un altro uomo, che fa germogliare l’affetto e la stima reciproci. Sotto il benigno governo della parola nasce e matura un rapporto che ruota attorno a più punti focali: l’interesse totalizzante per la scrittura, la vita di coppia, i figli, la dignità di uomo e di scrittore, la capacità d’indignarsi, heroici furori senza i quali l’esistere sarebbe indistinto grigiore. Ed è nel montaggio e nello stile che questo libro s’innalza da semplice documento ad opera letteraria, grazie ad un lavoro annoso e finanche doloroso che Christian Tito ha compiuto per fare di una serie di emails private (che ad un “estraneo” potrebbero anche non dire nulla o apparire noiose) un’opera narrativa entusiasmante e umanissima.

C’è una foto di Luigi Di Ruscio che a Christian piace tantissimo (la si trova in quarta di copertina): Luigi Di Ruscio tiene in mano una spiga e sembra porgerla sorridendo a chi guardi la fotografia; scrive Christian:

Avrei voluto, con intento provocatorio, chiamare questo libro “la vita segreta dei ratti”. Nello “zibaldone norvegico” uno dei diversi libri usciti postumi, Luigi scriveva che ratti era la parola più presente nella sua opera. I ratti erano una delle sue tante ossessioni. Diciamolo però: a parte i simpatici topolini di campagna, in effetti , per quanto amici degli animali si possa essere, l’immagine dei topi di fogna, annidati negli anfratti più luridi e nascosti delle nostre città, non evoca immagini positive e sicuramente non occupano i primi posti in materia di bellezza animale. Ma sono proprio quelli i ratti a cui Luigi spesso si riferiva nella sua scrittura, non certo a quelli delle campagne da cui proveniva e, quando ne scriveva, sembrava quasi simpatizzare e fare il tifo per loro e non per i bipedi, spesso brutalizzati e disumani, che passeggiavano tranquillamente sopra le fogne, esposti alla luce del sole. Chissà, magari inconsciamente un po’ si identificava con essi, ratti e pantegane , abituato come era a scrutare nelle zone d’ombra del suo animo per tentare di studiare quello dell’essere umano, così come hanno fatto e fanno i più grandi artisti della storia. Forse, come capita spesso ai poeti non istituzionalizzati, quelli fuori dagli allori delle accademie, dai giri che contano, dai salotti bene della cultura, esisteva in lui una specie di identificazione con questi animali: si sentiva isolato e schifato da quel mondo che invece lui amava e descriveva con spietata lucidità. Ma non ce l’ho fatta. Non sono riuscito a dare quel titolo a questo libro perché quando guardo le splendide foto che il fotografo Ennio Brilli, caro amico fermano di Luigi, ci ha generosamente donato per il libro, vedo tutta l’umana essenza di Di Ruscio. Dove tiene in mano la spiga, Luigi sembra tenere in mano l’intera natura; natura che amava profondamente. La spiga che ci dà il grano che ci dà il pane, cibo quotidiano; simbolo di comunione tra gli uomini e degli uomini con Dio, quello buono, a cui lui faceva finta di non credere. Nonostante Di Ruscio dal mondo ha spesso ricevuto cattivi trattamenti o noncuranza (che è ancora peggio) io, che ho amato questo uomo come ogni allievo ha amato colui che riconosce come il proprio maestro, in quella foto lo trovo bellissimo, come bellissimo era mio nonno, altro uomo di campagna a cui sono stato profondamente legato e che tanto mi ricorda (pagg. 19 e 20).

È questo l’emblema della generosità reciproca che innerva la corrispondenza tra l’anziano Maestro e il giovane poeta, ma anche della generosità pura e semplice con cui entrambi si spendono nella scrittura e nella vita, aggiungendovi l’affetto reciproco e quella che mi sembra di poter chiamare la devozione che Christian Tito nutre per Luigi e che continua a spingerlo, infaticabile, a parlare di Di Ruscio e a leggerlo ovunque gli sia possibile, anche per ottemperare ad una promessa che ha fatto al poeta e a se stesso.

Scrivevo della struttura del libro che si articola in una Nota, in dieci capitoli con numerazione romana e titolati, concludendosi con una bellissima postfazione di Sebastiano Tommaso Aglieco che è una delle persone che più da vicino ha seguito il farsi delle Lettere dal mondo offeso. E non scrivo casualmente del “farsi” di questo libro, un farsi lungo, complesso che ha dovuto confrontarsi con quello che ostacola e mette alla prova ogni artista: dare forma e dignità d’arte alla materia concettuale e sentimentale, prendere le distanze dai propri sentimenti e dall’emotività, in questo caso, poi, riportare ad unità frammenti, numerosi e talvolta informi. La tecnica modernissima del montaggio (ma ricordo che Christian è anche un appassionato ed esperto cineasta) ha dato forma ad un libro che, dopo un’attenta lettura, svela tutta la sua complessità, la sua prismaticità, la sua splendida capacità di riversare echi e suggestioni in moltissime direzioni. La scansione “classica” dei capitoli consiste in citazioni dall’opera di Di Ruscio, segue poi una prosa di Christian ad introduzione al capitolo, ma anche in forma d’eco alle parole dello scrittore fermano e, quindi, i testi delle emails:

La corrispondenza raccolta in queste pagine è avvenuta tra l’11/10/2009 e il 23/02/2011. Ad eccezione  dei primi due e nell’ultimo capitolo,  dove si riporta fedelmente o a tratti lo sviluppo temporale, non saranno presenti le date delle singole mail poiché, avendo sviluppato il testo secondo aree tematiche ricorrenti nel corso del dialogo, i salti temporali risultavano continui. Per esigenze narrative, inoltre, poiché i due autori non scrivevano con l’idea che dalla loro corrispondenza sarebbe nato un libro, sono state a volte accorpate alcune lettere per dare maggiore senso e fluidità al discorso. (…) (dalla Nota di pag. 11).

Il primo capitolo è sostanziato dalla corrispondenza che i due protagonisti si scambiano negli ultimi giorni di vita di Luigi Di Ruscio, il quale possiede una virile consapevolezza della propria grave malattia e sembra aver raggiunto una nobile serenità, pur continuando ad esprimere un insaziabile amore alla vita e alle persone a lui care:

21 gennaio 2011

Caro Christian, sto molto male, qui dall’ospedale mi hanno dato un permesso di due giorni, ho 82 anni e poeti eterni sono solo una fantasia, grazie per la tua amicizia, se ti capita parla dei miei libri, un forte abbraccio. Luigi (pag. 14) e a pagina 15:

22 gennaio 2011

Caro Christian, ti regalo queste parole. Forse sono le ultime che scrivo.
Sei stato per me un carissimo amico.
em>Grazie
 

E’ così che capisci di andartene, gli sguardi dei tuoi cari si abbassano, le parole stentano ad essere pronunciate, i figli ammutoliscono. Divorato dalla febbre preparo la valigia per andare in ospedale.

Le mani indugiano sulla cerniera, la paura è la stessa di quel giorno di maggio del 1957. Allora vi disponevo con cura i miei libri, con gli angoli delle pagine tutti arricciati; adesso i calzini, le mutande, i pigiami, perfettamente stirati e ricamati. Chiudo tutte le finestre, ripongo nella custodia la macchina da scrivere, ritorno tranquillamente nel niente da dove sono venuto.Nei miei versi è la mia resurrezione (queste ultime parole sono un’autocitazione da Memorie immaginarie e ultime volontà).

E infatti il capitolo si chiude con il laconico annuncio da parte del figlio Adrian della morte del padre. Lettere dal mondo offeso si profila in tal modo anche come un lungo flash back, la cui stesura ha portato Christian a ripensare la storia della sua amicizia con Luigi e la storia della propria vita negli ultimi anni, oltre che ad un bivio cruciale per qualunque scrittore che desideri basarsi su del materiale biografico e autobiografico: raccontare di sé, ma riuscendo a diventare personaggio, raccontare camminando sul difficilissimo filo sospeso nel vuoto che collega l’esperienza personale con la sua oggettivazione. Si capisce bene, allora, come questo libro posegga un alto valore anche grazie alla capacità dell’estensore di allontanare da sé momenti e figure così carnalmente  infisse nella mente e nell’emotività per contemplarli dalla giusta distanza e poter creare un’opera che parli ai lettori, che non sia banale documento di un’amicizia, ma anche una scrittura matura, consapevole di sé e dei propri rischi, situatasi sul difficile crinale tra stile ed esplorazione della propria interiorità. Lettere dal mondo offeso è infatti la storia parallela di due vite, quella di Di Ruscio il quale spesso racconta del proprio passato sia privato che letterario e quella di Christian Tito, giovane Tarantino che si è appena sposato, che presto diventerà padre, che lavora in una farmacia di Milano e che sta scrivendo un libro di poesie che spera di pubblicare. Ma attenzione: l’atteggiamento di Christian non è mai quello di mettere se stesso al centro dell’attenzione, egli entra sempre in punta di piedi nel mondo di Luigi, ne attende con trepida ansia i messaggi, sempre con discrezione e sentendosi piccolo, molto più piccolo del suo amico; racconta di sé, della sua gatta, del libro in fieri, del bambino in arrivo e di sua moglie (sottolineo che le figure di Loredana, la moglie di Christian e quella di Mary Sandberg, moglie di Di Ruscio, sono tra le più belle, interessanti e originali del libro e ne balzano fuori con una vividezza dettata dall’amore e dalla consapevolezza della loro fondamentale importanza nella vita di entrambi). Leggiamo la storia di una vita che si avvia alla fine e che incontra un’altra vita in fermento, aperta al futuro, ci commuoviamo leggendo le parole di affetto, d’incoraggiamento, di entusiasmo dell’anziano poeta per tutto quello che il suo giovane amico gli racconta e chi si dedichi alla lettura di questo libro comincerà a familiarizzare, se ancora non li conoscesse, con lo stile e con le opere di Luigi Di Ruscio, con una scrittura originale e protestataria, nervosa e pure a tratti lirica, che non paga pegno a nessuna scuola, men che meno a qualche moda, ma con il vantaggio, leggendone poi i messaggi, di conoscere l’uomo Di Ruscio, tenero e sensibile, gentile e generoso.

Luigi Di Ruscio

Tra i molti temi affrontati nella corrispondenza largo spazio occupa quello della poesia italiana contemporanea, dell’editoria e di molti suoi protagonisti con cui Di Ruscio era in contatto e con i quali, non raramente, è entrato in conflitto per la propria natura diretta e collerica, ma, dice Luigi, “è stata sempre colpa mia”: Di Ruscio non fa sconti a nessuno, men che meno a se stesso. Spesso Christian cerca di aiutarlo a ricucire certi rapporti o funge da tramite tra Luigi e il mondo editoriale milanese.

Tengo moltissimo, però, a fermare l’attenzione sulle prose di Christian che, come ho già detto, introducono ogni capitolo, ché questo libro (non lo si dimentichi) è fatto anche da parti scritte ad hoc e risultanti da quell’operazione di riordino del materiale e di riflessione sul rapporto amicale di cui scrivevo più addietro. Lo stile è asciutto e chiaro, la sintassi rigorosa e limpida: con questi strumenti Christian domina la partecipazione emotiva, superando, grazie a testi di classica e conchiusa costruzione, i dati autobiografici, trovando accesso ad una narrazione all’interno della quale la partecipazione etica ed emotiva sono ben presenti, ma con un equilibrio davvero encomiabile e con una lucidità che mette al riparo il libro dal rischio della confessionalità..

C’è da dire anche questo: scrivo queste riflessioni su Luigi nell’estate del 2014, più di tre anni dopo la sua morte. In questo tempo ho maturato un sufficiente superamento della ferita e del dolore per la perdita e questo mi consente di guardare le cose con maggiore lucidità. Ho capito che, come accade spesso a tanti artisti (e come pilastro fondante e molto frequente di tanta arte), Luigi tendeva ad ingigantire alcuni aspetti della realtà che erano motivo di preoccupazione. Ad esasperare questa tendenza caratteriale contribuivano le sue condizioni di salute che continuavano a peggiorare facendogli sfiorare la depressione che, tra i suoi sintomi più frequenti, ha proprio l’ alterazione della giusta misura del reale nella propria percezione.

Ma perché, tra altri aspetti che per ragioni di privacy nascondo, è proprio questo che decido di esporre? Semplice, perché trovo assurdo che uno scrittore che si è dedicato anima e corpo alla sua opera, opera considerata da tanti di altissimo valore, in mezzo a una vita dura, perseguita con altissimo senso del dovere verso sé, verso la sua famiglia e verso la società, non abbia avuto, attraverso questo riconoscimento, la possibilità di vivere la sua vecchiaia con un tantino più di serenità, affiancando la sua pensione da metalmeccanico a qualche compenso derivante anche da essa. Contrariamente a quanti (tanti, troppi) pensano, fare arte è sempre un atto di estrema generosità, ma è anche pericoloso, si rischia molto in termini emotivi e psicologici. Certo, a farlo, spesso, sono persone con un ego fuori dalla media che vogliono lusingare anche il loro narcisismo, non è da nasconderlo, ma al di là di questo peccato che mi sembra tutto sommato veniale (a seconda delle proporzioni, certo), lo stereotipo dell’artista parassita, tanto caro a certi nostri governanti è solo un miserabile stereotipo, frutto di una inesistente empatia e di scarsissima sensibilità.

Ci vuole coraggio ad essere artisti, per essere veramente poeti occorre un’intelligenza sovrumana scriveva il suo amico Leo Paolazzi in arte Antonio Porta. Se lo si è e la si ha, a volte, è possibile che l’intera “luridissima” razza umana faccia un balzo in avanti rispetto alla coscienza che ha di se stessa.  A me non sembra poco (pagg. 137 e 138).

Se, facendomi coraggio, ho cercato di accompagnarlo fino all’ultimo, ho trovato la forza di farlo perché conosco l’assillo, forse la vera ossessione del poeta, il vero motivo per cui scrive: lasciare un segno, un frammento d pensiero, qualcosa che testimoni un passaggio in un’epoca, una storia, quel dare senso al suo essere stato un uomo, tra e con gli altri uomini, non solo per mantenersi in vita, ma per arricchire la sua e la vita di tutti. Perché il poeta sa, come pochi, che la vita è probabilmente la cosa più preziosa e irripetibile che possediamo e non può essere sprecata. Lui sa che, se esiste davvero il peccato, questo sarebbe certamente il più grande (pag. 154).

Antonio Porta è altro poeta fondamentale per la formazione intellettuale e umana di Christian; non a caso leggiamo quasi sul finire del libro (Rosemary Liedl è la moglie di Porta):

Il 5 maggio 2014, incontro Rosemary Liedl. Non la vedevo da tempo, l’appuntamento è nella nuova piazza Gae Aulenti di Milano. È una bella giornata di sole, appena arrivo mi guardo intorno e la vedo seduta al centro della piazza assorta nella lettura. Mi avvicino, la saluto, lei incrocia il mio sguardo e prima ancora di dirmi ciao mi rivolge una domanda: “come si fa a morire?”. Io che al solito amo scherzare le rispondo che conosco diversi modi più o meno indolori e che, data la mia esperienza, avrei potuto darle qualche indicazione. Ma capisco bene il senso di quella domanda. La domanda della moglie di un grande poeta che, oltre ad averlo perso fisicamente, teme che egli rischi di morire anche da un punto di vista letterario e questo è, giustamente, molto duro da accettare. Anzi, direi che è proprio inaccettabile se vogliamo pensare di abitare in un paese civile, che dovrebbe attingere anche dalla cultura e dalla sensibilità dei poeti per riflettere su se stesso e provare a ripensarsi, a migliorarsi.  Conosco la tenacia e la dedizione di questa donna, la ritengo commovente e oggi mi sento quasi in colpa nell’avere, in quella occasione, volto l’interrogativo in gioco invece di averle  trasmesso la giusta dose di speranza. Ma quella speranza cara Rose esiste, abbiamo il dovere di farla esistere, fossimo anche gli ultimi uomini sulla terra. E come giustamente pensavi di fare tu, se qui da noi la volgarità, l’arroganza e l’ignoranza vogliono piegare e svilire i nostri sforzi, allora portiamola lontano, anche fuori da qui, infiliamola nella bottiglia e gettiamola in mare, ci sarà da qualche parte una mano d’uomo che la pescherà e ne farà tesoro, ne sono certo.

(…)

Dunque che fare caro Luigi? Niente, continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto, continuiamo a osare l’impossibile forse il cerchio non è chiuso e, se dovessimo fallire, sarà bello immaginare almeno che un giorno cinque o sei giovani, attorno a un camino leggeranno una nostra poesia e in quel momento saranno felici. Questo in realtà, sarebbe tutt’altro che un fallimento (pagg. 189-192).

La copertina del libro è un fotogramma elaborato dal cortometraggio di Christian Tito e di Nicola Sisci I lavoratori vanno ascoltati, coraggioso e limpido atto di poesia e di civismo: la sagoma di Christian, che dà le spalle all’obiettivo, guarda le luci e i fabbricati dell’ILVA di Taranto, i cui veleni hanno causato, tra le tante, troppe morti, anche quella per cancro del padre dello scrittore tarantino. È l’ILVA ed è ognuna delle fabbriche, compresa la Christiana Spigervek di Oslo, che occupano il nostro orizzonte esistenziale e culturale attuale e con cui si misurano scritture consapevoli e moderne come la presente.

Caro Christian, racconta, dovevi essere molto giovane quando tuo padre è morto. Le fabbriche ovunque, possono essere dei luoghi davvero infernali, lo strano è che chi le vive da dentro non parla mai di quell’inferno mentre chi sta fuori ne parla moltissimo pur non sapendo niente (pag. 113): ecco quello che intendo quando scrivo che le Lettere dal mondo offeso guardano nelle viscere della nostra contemporaneità, che, sulla scia della citazione da Elio Vittorini, il dialogo tra Luigi e Christian e la scrittura stessa di Christian Tito aprono il dato privato al mondo, costringono la loro umanità e il loro essere scrittori a fare costantemente i conti con la realtà contemporanea, con l’offesa che gli uomini ne ricevono o gli uni contro gli altri perpetrano; non è un caso, ad esempio,  che uno spicchio anche qualitativamente consistente delle poesie di Tito abbiano come ambientazione la farmacia, ossia un luogo di lavoro dove s’incrociano la sofferenza delle persone, lo sfruttamento dei lavoratori, la solitudine, ma anche l’allegria e la solidarietà umana. Assume un significato più profondo, allora, il fatto che il più volte progettato viaggio di Christian ad Oslo non possa avvenire e che i suoi tentativi di aiuto anche economico nei confronti di Luigi non abbiano séguito: Di Ruscio è per Christian una voce che, rispetto a quella soltanto “letta” dei poeti che più amiamo, stava per prendere la forma di un corpo e che, comunque, ha ricevuto un corpo particolare, quello del desiderio fortissimo d’incontrarsi e quello delle missive nelle quali Luigi ha trasfuso il se stesso degli ultimi anni di vita – un corpo che, poi e suo malgrado, si è sottratto a causa della morte. Non può non essere commovente un libro scritto sul filo della nostalgia, ma direi meglio della Sehnsucht, perché la nostalgia presuppone un nostos, un ritorno che qui non poteva esserci, mentre la Sehnsucht suggerisce un sich sehnen, uno struggersi e un desiderare fortemente qualcuno o qualcosa, anche di vedere un luogo, oltre che una persona e per Christian Oslo (assieme a Fermo) sono i luoghi dell’arte e della vita di Luigi dal momento che la scrittura possiede la facoltà di ancorarsi a luoghi determinati, di evocarli e trasfigurarli. E anche Milano (oltre a Taranto, ovviamente e più volte i due interlocutori parlano di entrambe le città) assume a ben pensarci un ruolo inedito: è la Milano di una libreria indipendente e accogliente, è la città dove Christian, nel capitolo finale, incontra Rosemary Liedl, ma è soprattutto la città che sta torno torno all’appartamento dal quale Christian manda i suoi messaggi verso Oslo e ne riceve, uno spazio intimo di pensiero e di affetti nel quale si consolida una famiglia (ivi compresa un’altra figura lieta e simpatica, quella della gatta Julietta e Di Ruscio si dimostra molto sensibile nei confronti dei gatti), cresce un’amicizia e, oserei dire, si avviano a venire alla luce due vite: quella del figlio di Loredana e Christian (Samuele) e quella del libro di poesie; per entrambe Luigi esprime affetto e sollecitudine, ma, obiettivamente, può seguire più da vicino la scrittura del libro che diventerà Tutti questi ossicini nel piatto e per la quale è prodigo di consigli. A tal proposito chiarisco che il titolo di questo mio intervento deriva proprio da uno dei più bei testi contenuti nella silloge e che anche Di Ruscio ha molto amato; si chiama Istantanea e si chiude con i versi: non importa se voi non leggete le poesie / perché sarà la poesia a leggervi tutti (pag. 129).

Direi che bisogna avere il coraggio dell’utopia che hanno avuto Christian Tito e Gianfranco Fabbri, l’editore, per scrivere e pubblicare un libro come questo, fuori quadro e in controtempo (cose, queste due, che considero virtù e che non dovrebbero essere scritte in una recensione, ma che scrivo ugualmente) e di quest’utopia, del candore entusiasta e per nulla infantile, ma adulto e consapevole di Christian, del fare editoria contro le tendenze dominanti ringrazio qui entrambi e concludo con un’ultima citazione, eccola:

Questo libro è dedicato a chi, sotto la superficie piatta delle cose, è in cerca di tutti i miracolosi segreti che si celano in profondità, dove la comunione e la fratellanza tra gli uomini è ancora possibile.

Di Ruscio a volte credeva, a volte no, ma di certo sperava sempre e a me ha insegnato a sperare.

Christian Tito (pagina 22).

 

ANTONIO DEVICIENTI

SALVATORE BARBIERI RIFLETTE SULL’ULTIMO LIBRO DI EUGENIO VITALI, “LA TRACCIA”

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L’INTERVISTA

EUGENIO VITALI, UNA “TRACCIA” IMPERITURA

Intervista a Eugenio Vitali di Salvatore Barbieri, pubblicata sul CORRIERE – ROMAGNA

Il poeta ravennate pubblica per L’arcolaio una nuova raccolta introdotta da Davide Rondoni.

 

Con un’intensa introduzione di Davide Rondoni, è in libreria la nuova raccolta del poeta ravennate Eugenio Vitali. Tra ricordi e prospettive. E in appendice alcune acute pagine di aforismi.

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È una “traccia” che si dipana lunghissima quella che dà il titolo alla nuova raccolta del poeta ravennate Eugenio Vitali, uscita in questi giorni per i tipi de L’arcolaio di Forlì con una copertina di pregio illustrata da Roberto Pagnani e un’acuta appendice di aforismi.

Vitali si concede al lettore a piccole dosi. Nel 2010 era apparso un suo mirabile poemetto su L’Almanacco dello Specchio per Mondadori, mentre è del 2012 il libro “Le sabbie del sole”.

In questa nuova raccolta il poeta ripercorre il senso della vita, dall’oro del grano nelle estati della giovinezza (“A sera conclusa, / la casa / diventava suono / nell’aia. / Ci appoggiavamo / su panche di vento, / mia madre un libro di favole, / sul suo volto un’ombra / lasciata intatta dal sole”) fino alla consapevolezza della traiettoria finale (“Fu un attimo. / Caddi da un tetto (…) i ricordi avevano dimenticato i cammini”).

Dice bene su “La Traccia” un altro grande poeta, Davide Rondoni, che del libro firma l’introduzione: in Vitali  “c’è una energia non alternativa e non di segno opposto, di certo non egocentrica, ma attenta a considerare il grande mistero dell’ “io”. Dell’uomo che pronuncia “io” nell’universo e si rende cosciente di una differenza vertiginosa e misteriosa. Una identità e alterità sperimentate secondo quello che ha scritto il genio di Charleville, Arthur Rimbaud, che gridò al centro della poesia moderna, sconfiggendone ogni sicumera espressionista, egoista e avanguardista di bassa lega: “J’est un autre” – io è un altro (…)”.

Vitali, quanto di autobiografico ritroviamo ne “La Traccia”?

Parlerei di autobiografia universale. I temi sono a tratti autobiografici, certo. Ma narrati per essere colti come personali da ogni lettore. Montale diceva che tutto quello che può fare un poeta è scrivere, poi la sua poesia non gli appartiene più”.

Eugenio Vitali è in effetti poeta di lungo corso, negli anni ’70 sorprese l’Europa con il “Libro d’affissione”, manifesti giganti di poesie sui muri delle città italiane,  dal Veneto alla Sicilia. Classe ’34, dodici raccolte alle spalle, premi come il Dino Campana e il Moncalieri, liriche pubblicate in Francia, Germania e Polonia, e un’intera silloge tradotta nel 2016 nella Repubblica Ceca da Zdenek Frybort – l’indimenticato traduttore de “Il nome della rosa” di Eco.

Nella mente un angelo di vetro, / l’universo ti imitava”: inizia così la poesia che lei dedica proprio a Frybort  in questo libro.

“Frybort è stato un amico vero. Ci ha lasciati e ci manca. Amava l’Italia e Bocca di Magra dove aveva trascorso lunghi periodi con Einaudi, Fortini, Sereni in quell’angolo di Paese che negli anni settanta pulsava di cultura. E veniva spesso a Ravenna dove aveva incontrato quella che sarebbe diventata la sua  compagna di una vita”.

C’è, in effetti, ne “La traccia”, più di qualche poesia dedicata agli affetti perduti, per lei amici prima ancora che scrittori, come quella per Roberto Roversi (“Sapevi vestire / di un solo colore di bandiere”) o quella per Maria Luisa Spaziani.

“Sono assenze che pesano a me e al nostro Paese. Del resto, con gli anni, inevitabilmente la poesia della “memoria” si allunga. Ma “La traccia” guarda soprattutto avanti, come nella poesia dedicata alle mie nipoti, Lucia e Serena, o in quella per l’amico e poeta Nevio Spadoni.

Ravennate anche Spadoni, in effetti Ravenna nei suoi libri non manca mai

“Non può mancare. È gli anni che ho sulle mani”

Uno dei versi dedicati alla sua città in questo libro?

«“E la nebbia su Ravenna / si attarda / rateizzando la vita”»

A concludere “La traccia”, una raccolta di aforismi, ce ne citi uno.

«Il viaggio è l’alibi per potersi attendere».

 

 

 

 

 

“LETTERE DAL MONDO OFFESO”, DI C. TITO E L. DE RUSCIO, OSPITATO SUL SITO LOGOS EDIZIONI

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03 ottobre 2014 PROTOTIPO DI COPERTINA

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LETTERE DAL MONDO OFFESO

Un articolo tratto da logos edizioni

 

Se ti capita parla dei miei libri. Spedisco tutti i miei inediti, lunedì mattina vado all’ospedale. […]. Nei miei versi è la mia resurrezione”.

Sono queste le ultime parole che Luigi Di Ruscio scrive all’amico Christian Tito, un mese prima della sua morte, avvenuta il 23 febbraio 2011. Prima di allora i due poeti si erano scritti e-mail con regolarità per un anno e mezzo, da quando Christian aveva contattato Luigi sull’onda dell’entusiasmo per l’ultima raccolta acquistata nella milanese Libreria del Mondo Offeso. I loro scambi, combattuti tra il desiderio di incontrarsi di persona e la voglia di fondare il loro rapporto unicamente “sullo strumento che utilizzano i poeti per tentare l’arte: la parola”, vengono riportati a partire da questo congedo, rinunciando all’ordine cronologico in favore di raggruppamenti tematici che consentono di esplorare meglio i nodi di questa relazione maestro-allievo. Ruoli che fin da subito si rivelano ambivalenti: se l’ottantenne Di Ruscio, uno dei maggiori poeti italiani contemporanei, si pone come modello artistico e costante alimento del sogno del giovane scrittore, questi assume a sua volta con fermezza e fervore un ruolo di guida. Raccogliendo le confidenze di Luigi, Christian offre al lettore uno sguardo prezioso sull’umanità dell’artista e al tempo stesso assicura a quest’ultimo la necessaria fiducia per avviarsi verso la propria “resurrezione”. Le lettere, editate in modo da garantire l’appassionante fiorire del romanzo epistolare, lasciano a volte spazio ai versi come invito ad approfondire l’opera di entrambi gli autori, accomunati nell’intrecciarsi di poesia e vita, nel segno di un conflitto tra la fiducia ostinata, l’amore tenace (soprattutto per le mogli) e la consapevolezza di vivere in un “mondo offeso”. In particolare la vocazione della scrittura trova al tempo stesso ostacolo e ispirazione nella dura quotidianità lavorativa: alla Christania, la fabbrica di chiodi “di cui mai saprò chi andranno a crocifiggere”, dove Di Ruscio ha lavorato per quarant’anni dopo essere immigrato in Norvegia, fanno da contraltare la farmacia di Christian deve fare i conti con il potere delle multinazionali e l’Ilva, altra fabbrica infernale che ha dato lavoro e morte al padre del giovane poeta. Ma quello  che forse è l’aspetto più interessante del libro è il delinearsi della lotta che il tentativo della scrittura comporta, una lotta dalla quale tuttavia si può trarre speranza: man mano che affiorano i dubbi le frustrazioni, la difficoltà di essere riconosciuti, si fa sempre più strada la consapevolezza che la poesia sia ancora la chiave di lettura ancora più autentica e profonda dei nostri tempi; “non importa se voi non leggete poesie / perché sarà la poesia a leggervi tutti”  (Christian Tito)

ROBERTO R. CORSI RECENSISCE “LA RESA DEL MARGINE” DEL NS. ANDREA LABATE

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Articolo apparso sul blog PÉRIGEION

 

a cura di Roberto R. Corsi

 

Una delle massime soddisfazioni di un recensore che scrive anche poesie è “perdere in trasferta”, ovvero venire piacevolmente convinto da Autori che adottano una poetica profondamente diversa dalla propria. È il caso di Andrea Labate, esordiente classe 1987, col suo La resa del margine, uscito lo scorso anno per i tipi de L’Arcolaio. La prefazione è di Davide Castiglione, che coglie ottimamente i caratteri fondamentali dell’opera sin dal titolo: il bisenso di “resa” (arrendersi, restituire) e, lungo lo svolgimento della sua critica, anche il polisenso di “margine” (margine destro della pagina, quello per definizione lasciato intatto dai poeti; poi, limite tra città e periferia, soglia di passaggio all’età adulta, soglia degli affetti, soglia sociale tra realizzazione e precariato).
Una quinta nobile di tematiche svolta con uno stile definito dal prefatore ricco di aperture surrealiste, e direi marcatamente astratto fino alla disarticolazione della frase (ciò che mi aveva messo sul chi vive). Sono però presenti squarci di poesia piana, veri e propri cantabile in corrispondenza della narrazione affettiva: si veda l’ultima strofa di Giù, p. 21.
La combinazione è pregevolmente in equilibrio soprattutto in quelle poesie che più delle altre esprimono l’incertezza, quando non la condanna, del futuro, il grigiore del circostante. Qui la ricerca dell’astrazione si scontra con una notevole forza tranchant nella descrizione situazionale; perimetro di coesione o nervatura interna che tiene insieme mirabilmente ognuna di queste liriche. Il riferimento di chi scrive è allora a un’altra raccolta valida ed egualmente intermittente (anche negli esiti) tra sociale/esistenziale e personale: L’ufficio del personale di Francesco Lorusso (ne ho trattato tempo addietro sul mio sito personale).
Tornando e concludendo su La resa del margine, tra koan (p. 36) e riferimenti alla

“teologia negativa” zen (l’incipit di p. 58: «il sole dura l’attimo di dirlo»), non manca, giusto in un paio di casi, qualche espressione acerba – scusabile, anzi direi auspicabile in una raccolta d’esordio, per garantire a questo interessante Autore un margine di miglioramento nelle sue prossime prove.
Di seguito vi propongo le quattro poesie per me più riuscite, incastonate tra i due “Sdì”, cioè gli estremi della raccolta, a carattere di perdita e commiato, che invece vi forniranno le coordinate stilistiche della maggioranza delle liriche.

***

Sdì veloce ti prese la polvere

La terra è sparsa sulle diagonali
racimola un contagio familiare.
L’aquila in cielo non spaventa le nuvole.

Fuori è un impatto d’afa, chiodano
il bronzo scaduto agli edifici fatiscenti
nel pomeriggio stanco che svapora.

Se ne va, l’alone tarantola le garze
il letto è scomodo, la morfina
fa il suo giro.

***

Vorrei fare un tentativo ma ho trovato un posto di lavoro

Il ristagno dell’industria che cancella il domandare
ha un legno marcio nello sterno
rende venerabile il mercato –
s’inginocchia arpionata l’aria fatta amara.

Vieni, guarda: è tutto vero
anche il muro di stagnola che separa i passi soffocati dalle
metropolitane.

L’estasi
stipata nello stupro di essere comprato
nei quartieri ombrosi degli uffici.
Firma, hai le ferie pagate.

***

Far di necessità schiavitù

È come non dormire ora
annaspando tra i giardini martoriati delle ortiche
per smaltire un milione di sì
con la testa nelle fauci del leone.
Prima di sdraiarsi segnare le ore
a capofitto in questo centro disturbato
dove ci si possa scorporare.

Qualcuno ama seguire le costellazioni
io quel pomeriggio ebbi paura
a non vedere intorno nessuna casa per chilometri.

– Dei diari furono trovati sotto la pioggia
e il lascito di non aver mai niente di interessante
da dire.

Nel punto in cui ti spuma la rabbia
c’è quello che hai perso nella fretta.

***

Career day
(Felicitazioni)

Centrifugati – miliardi di particelle strutturate
nelle gabbie di moduli compilati e fototessera.
Tutto sincrono, esigono più ordine –
non ammettono che si saltino passaggi.

Così lo potevo capire
tossendo forte in ogni sua lacrima che sbucava dalle siepi –
il cielo si sparge nei capelli
la siccità del sole
la percepivo sulla voce che s’è fatta ombra.

L’incastro delle carni, sui calli
la delusione per il rigetto da carriera.
Ora spurga come un veleno dalla bocca
l’incredulo è nell’aria tesa, cammina sulle acque dei boati
evita di farsi riconoscere.

***

Facciamo come i cani che isterici annusano i loro territori

Un ticchettio claustrofobico
in un confine di spago – non puoi sovrastare
l’ordine costituito.
Tu sei dio – morto nella macchina di latta
o eri solo e disperato in tangenziale:
le antenne raschiano quella voragine di cielo viola –
c’è un dovere da rendere sacro
mentre chiedi ad altri più clemenza.

Chi vuole può correre in cerca dell’aria
sul cemento rosso di provincia –

l’infinito è un concetto non gestibile dalla mente umana.
La notte mostra la morsa del gelo
domina dall’alto i suoi cantieri
un brusio elettrico rende il silenzio screpolato,
le banche hanno le insegne luminose.

Il distacco è un vicolo che non accumula memoria
non ha niente da tirarci fuori.

***

Sdì è un nome che non riesco a immaginare

Chi t’attendeva a vivere
se sia il caso di simulare ingorgo.
Lui era un fiutato
rappreso fin dentro gli occhi aperti
allevia scialba la mattina.
La miscela è in altri corpi, ora.
Lui dorme con i muri – convalida la calce
si spippola tra i pioppi.

Proviamo ad origliare chi non parla
un banco di nubi ci sconfina
rende fragile l’esistere.

Lo sbrego fa premuto con le dita, fino a saturazione.

NEVIO SPADONI RIFLETTE SULL’ULTIMO LIBRO DI EUGENIO VITALI, “LA TRACCIA”

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Riflessioni su La traccia di Eugenio Vitali

 

 

Nell’elegante collezione di Poesia de L’arcolaio, collana diretta da Gianfranco Fabbri, in copertina un raffinato olio su tela dell’artista ravennate Roberto Pagnani, con la sapiente introduzione di Davide Rondoni, esce La traccia, ultima fatica di Eugenio Vitali, autore ben noto al vasto pubblico letterario, già attivo negli anni settanta in quanto autore del “libro da affissione” apparso sui muri di diverse città italiane. Autore schivo, che ha sempre disdegnato i salotti e i consensi, è stato tuttavia più volte premiato e riconosciuto dai grandi maestri, da Roversi, alla Spaziani, a Bàrberi Squarotti, per una poesia autentica, vibrante, moderna. Se in lavori precedenti, quali ad esempio Testata d’angolo, Edizioni dell’Orso 2006, il poeta ha inanellato eccellenti metafore di un male cosmico, in un’era virtuale ormai priva di gesti vivi, inglobata in una corsa senza ritorno, denunciando profeticamente, sulla scia di Pasolini, una soffocante “disumanizzazione e desentimentalizzazione della vita”, in quest’opera, più rattenuta, ci presenta liriche sospese tra memoria e disincanto. Il tratto tuttavia presenta l’energia di sempre, il linguaggio  è incisivo e si fa più  incalzante per l’interrogazione sulla esistenza, e sul mistero che ci avvolge.

Versi pieni di sobria tenerezza sono quelli dedicati ai figli, alle nipotine, e al fratello Franco, chiamato troppo presto ad altra vita, dalla morte che –come leggiamo in “La vita mi si aggira intorno” – con una mano dona un fiore, /nell’altra nasconde l’astuzia. I ricordi di persone che lo hanno nutrito: genitori, maestri, amici, la fedele compagna, non eliminano la consapevolezza oraziana del “dum loquor hora fugit”, e la vita mi sfugge e non riesco a perforare /la parola,/ E l’ombra /appassisce i dadi,/appena lo scarto / di una nascita.

Non manca anche in quest’opera il pressante invito a difendere le ragioni  dell’esistenza e il luogo del nostro abitare, come nella lirica “Uomo, santifica il Pianeta!” e nella conclusione si legge: Uomo, smacchiati le mani, / c’è la tua impronta sullo sfascio, / non sfuggirai al giudizio / di lepri e formiche. In questo mondo stravolto e rivoltato, anche la pace, per citare Raimon Panikkar, non è frutto della vittoria, ma scoperta dell’armonia del diverso, e per scoprire tale armonia occorre coltivare il luogo che nella nostra civiltà abbiamo dimenticato: il cuore. “Le coeur à sés raisons, que la raison ne connait pas” (Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce) ci ricorda Pascal. E Vitali, da poeta vero, ha saputo attraversare queste ragioni del cuore, uscendo dall’ io prigioniero e malato per abbracciare il noi, in un afflato di amore cosmico. La sua vena intensamente lirica, ricca di metafore desuete, con punte di sarcasmo e con figure ossimoriche, che possiamo leggere anche nella seconda sezione  degli illuminanti aforismi, fa di Vitali, autore di numerose opere poetiche, una personalità di spicco nella panoramica letteraria non solo italiana, perché conosciuto e tradotto in diverse lingue. Un suo aforisma ,che ben lo tratteggia, suona deciso: Vorrei separarmi da me stesso, / ma Dio / ha fatto le cose eterne. Vitali non è uomo tuttavia di certezze o verità granitiche  e inconfutabili: è piuttosto un viandante alla ricerca continua di ciò che pulsa dentro, un Diogene romagnolo, adagiato nel suo abitare poetico.

Nevio Spadoni

 

ESCE OGGI IL SECONDO LIBRO “ARCOLAIO” DI NARDA FATTORI: “DISPACCI”

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dispacci

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Prefazione di Anna Maria Curci    (L’inizio…)

 

I Dispacci di Narda Fattori sono ambasciate poetiche che del messaggio e della poesia possiedono tutta la forza comunicativa e creativa. L’equilibrio, la coesistenza, il connubio tra significatività del contenuto e cura dell’espressione non mostra cedimenti e ogni testo della raccolta ne dà testimonianza. Una prova evidente della riuscita di tale unione è il movimento sicuro sull’asse temporale e tra le direttrici temporali: mi riferisco non solo ai piani del passato, del presente e del futuro, ma anche all’uso meditato e misurato dei tempi e dei modi verbali. Anche nel procedere di un singolo testo, questi si alternano spesso e ricorrono in più varietà, come accade, in maniera esemplare, proprio nei primi tre dispacci, inviati rispettivamente al padre, alla madre, alla sorella. Non si tratta soltanto di andare a ritroso con i ricordi, non ci si limita – e non si sbarrano gli accessi, tuttavia – alla nostalgia, al rimpianto. I messaggi ai propri lari includono i desideri, le aspirazioni e le peculiarità di quelli, così come le dicerie e le opinioni forzatamente manchevoli degli altri. Perché sono forzatamente manchevoli le opinioni ‘pubbliche’, ‘comuni’? Lo sono per il semplice fatto, come dichiara Narda Fattori, che tutti gli umani si trovano a dovere, e a non sapere fronteggiare «materia  / difforme e sorgiva – implacabile – / / vita».

Quanta strada ha percorso (percorre e percorrerà, il quesito va coniugato in tutte e tre le forme) la poesia di Narda Fattori, quanti volti, quanti gesti hanno inquadrato il suo obiettivo, con quali «intermittenze del desiderio», proustiane e no, si è accordato e scontrato il suo battito, in quali acque si è rinfrancata, si è immersa, quali precipitazioni ha invocato, da quali mulinelli e da quali miraggi ha messo in guardia, quali corde ha pizzicato, teso, saggiato, quali schiere l’hanno insospettita e di quali, invece, a dispetto dei cori ammaestrati, ha composto e intonato le canzoni?

I testi qui raccolti, scritti nel 2014 e nel 2015, rispondono a questa domanda, e altre ne pongono, tenendo sempre alta la soglia dell’attenzione. Ciascuno di questi dispacci reca con sé una duplice consapevolezza: non ci si sottrae, neppure in quanto poeti (o meglio, tanto meno come poeti) alla vita e alle sue manifestazioni, siano esse sublimi, «il cielo lassù azzurro alto», oppure prive di qualsivoglia grazia e pertanto intenzionalmente storpiate nella grafia, «smartphone  iPod e tablette»;  la vocazione dei poeti che «Testardi tornano a seminare fonemi / dentro i solchi» è sentinella su un avamposto arrischiato, uno dei pochi, tuttavia, che garantiscono vista acuta ed eloquio chiaro. Un metodo di conoscenza e un sistema di invio e disseminazione del messaggio del quale si sono volute perdere le coordinate e che la poesia, caparbiamente e controcorrente, pure persevera nel tramandare. (…)

Alcuni testi

 

Di noi

Abbiamo i lati oscuri esposti

alla radente luce dell’ovest

vespertina e breve ladra di sguardi

 

abbiamo mani inabili

al termine di braccia corte

che non arrivano ad abbracciare

un  bambino dai grandi occhi spauriti

un vecchio dalla pelle trasparente.

 

Pensieri senz’aria televisivi

vagano per i supermercati

s’allargano in rotonde cittadine

s’infrangono su specchi di vetrine.

 

Le unghie biancoperfette

graffiano dorsi come cortecce

di betulle lisce a linfa chiara

che non riescono ad uscire

dal lungo inverno abbronzato

da lampade UVA.

 

All’ammasso numeri in statistica

e i viaggi sempre lontani e i pensieri

sempre più corti bisettrici

di angoli statici di noi stasi che monta

come un’ira sottesa e smangiata

fumi da palude o da deserti.

Ma quanto attesa resta prima – vera

luce di stella.

 

**

Viaggi

1.

Non mi fermo. Lo prometto alle lune di giugno

e di luglio – la famigliarità è un anello attorno

a un vuoto che vortica in parole ipercinetiche

così restano a cercare un senso e a consonanze

si sostengono – devo donare loro uno scopo

una possibile meta ma non fui mai abile mentitrice

e scrutano dall’interno la mia miseria.

 

Il viaggio è finito quando decido che cosa ha nome

se l’erica tornerà a fiorire se mi macchierò

le labbra di more – oh l’innocenza dei furti infantili –

se cercherò il pallore della luna sopra i coppi

 

il viaggio ad anello in Islanda la balena che non mi

ha mangiato e i boschi nani perché c’è un sole

che sgocciola appena e subito ritorna alla tana

 

nei libri il viaggio più lungo bambina fu con Sandokan

con Nietzsche più tardi e saputa ma non ho imparato

a discriminare il grano dal loglio m’ingannano ancora

le anse dei fiumi le cime dei monti la curva delle fronti

e sorrido ironica al mio sguardo rimasto infantile

mentre cado di nuovo e faccio un punto del viaggio.

 

2.

Allora era bello con le cime alte a farmi barcollare

Alpi di vacanze giovanette e viaggi nella meraviglia

di una stella alpina nel tepore del latte appena munto

e rotolare sull’erba ubriaca di vita dentro la vita

come il rametto dentro il Millefiori.

 

Il lungo viaggio sul tuo corpo d’amore traversando

le curve celando raminghe imperfezioni

nel rollio di chi va e non pensa alla meta. Così gioisce.

**

Affabulando

Ladra di specchi e di fole

evasa da sbarre e lame di vento

sul passo correndo le nuvole

in tondo l’azzurro per veste

 

di rabberciati pensieri cucita

mi sforzo nel volo rasoterra

restando e sollevo la polvere

che il pianto mi asciuga e il canto

nell’aria dilaga

 

canterò canzoni nel percorso

sarò  grata a voi amici cari

quel salto non compiuto il gesto

ritratto il mio sguardo ridente

 

alla vita sì alla vita ai suoi dolori

agli amori ai troppi errori e una maniglia

si volesse aprire ancora una porta.

 

Postfazione di Bruno Bartoletti   (l’inizio)

 

Terminata la lettura di Dispacci – ma si dovrà rileggere come esige ogni libro importante – eccomi con le prime impressioni, di lettore certamente, non potrei fare altro; il mio rapporto con i numerosi testi di Narda Fattori (se non sbaglio siamo all’undicesimo libro di poesia) è stato sempre quello di lettore disponibile all’ascolto. Ma questa volta mi accorgo di trovarmi impreparato a scrivere. Lo dico senza falsa modestia. Lo trovo così intenso, così vero questo libro, che non potrei aggiungere nient’altro. Nulla. Si dice infatti che il miglior commento alla poesia sia la poesia stessa. Schumann insegna: quando gli fu chiesto di spiegare un suo brano musicale complesso, egli si limitò a mettersi al pianoforte per suonarlo ancora. Ma qualcosa bisognerà pur dire. Cesare Garboli affermava di essere «un critico che scrive per capire». E lo faceva a modo suo, cercando e documentandosi. Così cerco anch’io di capire. Innanzi tutto il titolo – Dispacci – messo lì non a caso. Scrive Antonio Baldini in Le scale di servizio che i titoli si mettono alla fine, la spiegazione è semplice: il titolo è la summa, la sintesi, il principio da cui tutto scaturisce. Il dispaccio è un messaggio che ha un carattere di particolare urgenza, è un telegramma breve ed essenziale, urgente perché deve comunicare un contenuto di fondamentale importanza. Ma non sembri che le singole parti (o poesie) siano tra di loro frammentate, isolate, come capita spesso ai tanti libri di poesia che circolano in questi anni. No. Tutte le poesie fanno parte di un organico, di un corpo, una specie di romanzo coordinato nelle sue parti; Narda ne è la protagonista, la tessitrice, la mano e l’oggetto, la sua storia di figlia, di madre, di donna che vive nel mondo, con uno sguardo che si fa via via più cupo; chi legge si inoltra in un terreno sempre più sofferto, si fa portare lontano in visioni tragicamente attuali: dalla famiglia (il padre, la madre, la sorella), esempio di valori e di certezze vissuti nella fatica quotidiana, ma di quella fatica che forma, aiuta a crescere; a uno sguardo sofferto sul mondo (il mare, i migranti, i bambini innocenti dai grandi occhi che muoiono, – migranti dalla pelle nera bellissimi occhi di bambini / pieni di stupore –); tutto è orchestrato da una mano sapiente che non lascia nulla al caso e che, proseguendo e ampliando i temi che erano già presenti a incominciare da Verso occidente, si fa ancora sguardo attento e meditativo sul mondo ampliandone il senso: non più o non soltanto l’io poetico, ma l’altro, la storia, il voi, o il noi con cui si fa la vera poesia, perché alla fine ciò che resta è sempre il noi, partecipazione e condivisione di chi fa parte della storia.

Raccolgo alcune sue parole che recentemente mi scrisse: «Scrivo tanto ma sempre pescando in un paniere che non è mai vuoto, perché il tempo è costituito da eventi sociali che mutano la visione. Ormai ho acquisito fedeltà a queste povere cose; mi hanno aiutato, sono state una benedizione divina per rendere sopportabile ed esprimibile il dolore».

Questa è Narda, donna e madre che concepisce la poesia come un atto di fede, come testimonianza che non può tirarsi indietro, come salvezza. Me lo ha detto tante volte, il poeta è «operaio di parole», colui che costruisce, che dona, che fa fiorire. Ed è solo nella poesia che si trova una giustificazione e una salvezza, ma anche la denuncia e la speranza. Sono ancora parole sue quelle che mi scrisse: «Non resisto a vedere tanto marciume, l’egotismo portato a vessillo; penso a mio padre che mietendo lasciava dei ciuffi di spighe ritti e non mi ha mai detto perché; l’ho scoperto da sola, bambina, in un’al-ba serena: le spighe erano per la Malvina, vedova e senza figli che passava all’alba per non mostrarsi».

 

 

UNA DELLE ULTIME USCITE ARCOLAIO: “AUGURAZIONE” DELL’ESORDIENTE MIRO CORTINI

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augurazione

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Un autore forlivese entra nel catalogo de L’arcolaio. Il suo nome è Miro Cortini; scrive da parecchi anni, avendo cura di migliorare costantemente il suo stile, accettando anche consigli con umiltà intelligente.

Questo suo primo libro s’intitola “Augurazione”.

Vi invito a leggere sia la prefazione di Cesare Ricciotti sia i versi di questo nuovo autore.

***

La ricerca eretica di Miro Cortini

 

Come un tragedia greca senza coro, una hairesis che non si alza per volontà propria, per negligenze di atti, per dispetto, per intelletto o forma, ma solamente per “elezione” (“se la mia scrittura sarà il prolungamento di me stesso… mi sostiene un dettato, non tanto antropologico ma, in modo più stringente, direi antropomorfo”). Tutto il resto può essere anche possesso o conquista ma alla voce­scrivente, alla sua anima, Miro Cortini sta sempre fisso, attaccato, aderente quale fosse una dottrina, una scuola, una linfa vitale. La ricerca che diviene dolente ed eretica, ma anche sfibrante, dissoluta, rabbiosa, a volte anche arrendevolmente dolce, serva di parole non sue, che non sente mai di sua proprietà, delle quali gli è concesso l’uso, il prestito disincantato: mentre spio la mia inquietudine  / fermenta l’ansia da solitudine.

Su questa voragine, con pervicacia Cortini ha infrazionato, deturpato, suffragato, contaminato i giorni della  creazione poetica, della possibile concezione di una affezione dominante, soprattutto nell’attesa e nella meraviglia. Nulla sarà mai paragonabile per bellezza, decoro,  magnificenza, a quel volto giovane, fanciullesco, ricordato o proiettato nel futuro, che non avrà mai come “suo”.

La sua scelta delle parole, delle frasi, o meglio delle perifrasi del mondo, dell’esistenza, restano impietrite di fronte a questa realtà mai agognata ma esistente da sempre: Qui / Ora  / senza speranza né pietà compresa  / La forza è nella resa.

Per assurdo, perché da Cortini mai confessata, nei suoi versi si forma una continua preghiera, che il suo canto non sia vano, riconosciuto, e assieme agli altri, cantato.

Cortini sa che gli è richiesta una parola autorevole, indispensabile per inoltrarsi nella selva oscura, una parola di cui la notte svela i margini della ferita, che solo richiudendosi può fermentare l’urlo che svela il verbo che crea.

Potenza e rabbia, dolcezza e brivido, passione e dissolvenza, i contrari che si bramano, si assomigliano e si attirano; solo così, viene fuori la parola “scelta” che appare sulle brecce, come un’eresia che Cortini vuole fare fuggire.

Il calcolo deve essere vero e il desiderio retto, e preclude quindi ogni svincolo, che non sia vizio cioè deviazione dal giusto fine. Ma questa etica può essere messa in crisi, può rimanere priva di vita senza una idea di libertà, e radicale, a quest’ultima scelta tende la costruzione del verso e tutte le dichiarazioni di poetica di Miro Cortini: Tra parola e uomo c’è inferno che dilaga.

Non è razionalismo l’eresia, nasce insieme all’ortodossia, alla mitologica speranza, endemica nel poeta, e anche se si opporrà alla verità rivelata, così deve fare, per sapersi difendere da tutte le voci che lo divorerebbero, anche le più sole e disperate. Ovunque vi sia grazia, lì c’è lo strumento della parola che ci consente di penetrare nell’anima, nel nodo esistenziale. La libertà è l’oscillazione possibile, l’unica, delle cose, tra essere e nulla, ed è questa la coscienza massima e precisa di Cortini che su que-st’asse sta in equilibrio perfetto, anche se dalla sua faretra scivolano verso l’abisso innumerevoli parole acuminate, velenose, rivelate come “una mandria di colori”.

Cesare Ricciotti

I testi:

 

Cara Solitudo

Prosit

a questa pesantezza  leggera

di solitudine senza contorno

sorseggiata da un calice colmo d’un fiato

come un soffio gelato e puro.

Prosit alla compagnia

più fedele e cara

non richiede stile.

Ragnatela e rete per acrobati e fantasmi

equilibristi in bilico

tra la bugia e il furto

con te ora in silenzio mi siedo e ti abbraccio.

Sapersi fragili è un prezioso dono

sapersi fragili è un prezioso dono.

***

Dante’s beach

 

Potenza circuitata

dell’amare come il mare.

 

Carezzami la pelle terrea

limen dello slancio

fluido acqueo.

Inonda il mio organo di contatto

affacciarsi di un gorgo

popolato da sempre di villi

e sonorità di gorgoglii…

Dipana e di – lavale budella come liane acquatiche

foresta sommersa di concrezioni

per / le ostriche in una torbida mescolanza muscolosa.

Ogni Oceano è stagno a sé stante.

sognanti sirene attendo nello sfregio di medusa

e nel morso elettrico di murena / rapacità di iena.

Fiuto l’aria affamato di corpi e svenimenti

vibrisse attente le mie ciglia – scandagliano feromoni –

ricerca termodinamica di contatto anche laido

purché griffato da abbracci vitali!

 

***

Luna e violini

 

Quel fare ieratico

la voglia di sagomare

e l’alternare del cantastorie

pur vestito da misantropo – c’era Lui –

con gli occhiali spessi sempre fuori posto

e gli avambracci ricoperti di trucioli.

Non so se mai avranno suonato

gli informi pezzi d’albero,

di suonato, dicevano, c’era solo lui.

E tra quei ragazzini sfaccendati

nel cortile dell’oratorio, c’ero anch’io.

Ma bastò un giorno, quando gli parlai, solo,

a capire la fatica della liuteria

che è scultura e si fa musica.

Ancora oggi, sotto questa luna.

 

***

Selvatico

 

Basse foreste collinari dossi calanchi paludosi bordi

sono la sua arena aperta

si ciba di deliziosi tuberi alla faccia di bipedi eretti.

Ma soprattutto ama il morire della notte

che lo vede già silente cacciatore-raccoglitore.

L’aura delle albe sono il contorno arcaico e pittorico in cui si muove

nel muto degli attimi precedenti ai cieli blu notte

dove la luce si smarca con lame verdepetrolio viola / indaco,

sagomando, mano a mano, steli gambi tronchi muschi .

Salvifico è il trasmutarsi dei canti

il desiderio lo consacra come vertice di bassi istinti cui aderire,

il mitico cinghiale dei miei boschi. Grunf!

 

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