Complimenti vivissimi a Carla Saracino che con il suo ultimo libro, “Quest’ora dell’estate“, ha ricevuto la menzione speciale al Premio Rilke 2022. Vadano a lei i nostri complimenti più sinceri!
È profonda la vita dentro la notizia del tuo arrivo.
Estate bambina, non essere irata con la strada polverosa.
C’è nello sterrato qualcosa che ti somiglia: un saluto,
una piega, una svolta.
Cambiare è un mestiere adulto.
La conoscenza senza destino fallisce.
Se spengo gli amori della mia vita, si attenua la tua comparsa. Non sono stata la tua complice ideale, ma ho mietuto le terre che ora calpesti, passeggiando alla scoperta
di un fiore dorato o un’ansa di pace.
Estate piccola della mia vita,
chi ti ricorderà se non io, che ho i sogni
nel cuore della storia.
Il mio sforzo sia di guardare dentro alla sera,
se declina normalmente nella stanza mentre tu sei già fuori.
Saracino fotografa l’estate, le estati con la profondità del dolore, attraversando i deserti, così come fanno i poeti di Alessandra Peluso
Quest’ora dell’estate. La recensione del libro di Carla Saracino
Recensione apparsa sul blog AFFARI ITALIANI
Una breve riflessione sui versi di “Quest’ora dell’estate” Carla Saracino
Si appalesa una “filosofia del paesaggio” nel libro di poesie di Carla Saracino, “Quest’ora dell’estate” per i tipi di L’arcolaio. Il poeta che rispecchia la propria esistenza dalla quale sorge il pensiero così come è stato per Nietzsche, o Camus. Personalità dense e pregne di vissuto che hanno manifestato ciò che ancora resta a noi, testimoni ignari, a volte, della bellezza. E sono giustappunto queste atmosfere che si respirano con Carla Saracino e la sua silloge.
“Quest’ora dell’estate” è qui et nunc ma al contempo è un’ora che abbraccia l’eterno, l’αἰών: Saracino fotografa l’estate, le estati con la profondità del dolore, attraversando i deserti, così come fanno i poeti, perché il “deserto ha un senso”, scrive Camus “è sovraccarico di poesia”. E l’Autrice allo specchio delle parole dipinge i paesaggi, mostra al lettore le dune, le spiagge, le strade polverose, rocce, canneti, litoranee desolate pensando di cambiare nella persuasione che “cambiare è un mestiere adulto”. Leggendo questi versi si ha l’impressione di percorrere le stesse strade, di calpestare la stessa terra, e sentire il calore dei raggi solari. I deserti.
“Quel legno, guasto, era una vita da realizzare” (p. 48) e qui il pensiero kantiano esplode per essere fedele alla ragione, il cuore non comprende. “Chi vive dietro di te, appena sopra / il respiro che adesso allenta l’aria, diviso dalla vita e mai più morente? / Chi sta in questo transito di natura / poco dopo il cuscino, la tastiera, / la luce della stanza?” (p. 55); e ancora: “Anche io ho amato la vita, / senza ipotesi di scambio. / Sono stata nelle spiagge dell’adolescenza / e ho temuto per gli altri, / prima che per me. / Ho seguito chi poteva restare, e sono rimasta. / Ho cenato nelle contrade più belle, con i commensali / migliori. Avevano ragione di starmi accanto: per le loro ombre. / Le vedo oggi, allineate, nella luce della casa. Irrompono / alla vista, scadono nel perdono, irradiano i primi anniversari (p. 57).
Si vive nelle nostalgiche “stanze”, familiari “case”: metafore di poesia. Ricostruzione di fantasmi, di ombre immaginate, di ‘amori cortesi’. La sabbia non copre i sentimenti nostalgici che Carla Saracino vive, respira ancora attraverso “Quest’ora dell’estate”, la “realtà viva del Mediterraneo”, l’incontro fra Oriente e Occidente, l’essenziale del genio mediterraneo, quella bellezza che vive nell’albero, nella collina e negli uomini; che ha bisogno di verità e non di favole. Le origini di un Sud che Saracino possiede, che sono nelle sue stanze e che mostra con garbo. È attenta ai grilli, all’odore di brace, alla calce dei terrazzi, al tempo che “declina” mentre “la spiaggia nasce sulla pagina”.
E così scorrono i versi e i suoni sembrano ‘imputarsi al pensiero’ perché dietro ogni simbolo, analogia ci sono le profondità di vissuti che si avvertono in ogni nuance in modo intenso seppur delicato: leggero quale può essere un granello di sabbia ma travolgente come un’onda bizzarra o appetitosa come una tavola imbandita e acre quale è il sapore del limone del Mediterraneo. Si dipana “il pensiero meridiano” di Franco Cassano, si assapora L’Estate di Albert Camus: incontriamo paesaggi descritti con sublime poesia similmente ai sentimenti profusi da Carla Saracino in “Quest’ora dell’estate” dove campeggiano i versi mentre lei si guarda allo specchio, si ri-flette con ossequio ma senza alcuna genuflessione. In fondo l’estate appare impettita e disinvolta nei riguardi dell’inverno, ignara della sua indispensabile presenza. Come la luce ha bisogno della sua ombra. Il corpo della sua anima. Il linguaggio del suo pensiero. Dicotomie. Unicità.
ISABELLA BIGNOZZI RECENSIDCE IL SILENZIO DEGLI ORACOLI
DI FLAVIO FERRARO.
È da un «estremo margine» che ha inizio la scrittura poetica di Flavio Ferraro, lirico affilato e metafisico, ora antologizzato – benché giovanissimo – in un ricco volume da L’arcolaio (Il silenzio degli oracoli, Poesie 2009-2016, Collana «I codici del ‘900», prefazione di Antonio Devicienti).
Già dai primi versi la poesia di Ferraro si mostra in essenza, elevandosi da una soglia di indagine dell’oscuro che evolve in ripetute aperture mistiche, in un continuo, strenuo «attraversare», che oltrepassa la parola tentata, «raggelata», per discendere nelle lucenti oscurità della grazia.
Nella rivelazione qui donata vive tutto l’ossimoro del reale, che radica «fin dentro la terra. // Per sollevarla». Il verso accumula respiro e afflato, e si solleva in quota nell’istante che precede il dispiegarsi – mai risolto – del bagliore di verità; come la «forza silenziosa» di un arco teso, che rende subito vicini a certi testi zen, o all’adorabile magistero di Cristina Campo, quando invocava, con affine metafora, l’affilarsi dell’intelletto fino allo spasimo, fino all’accurata sconfitta del sapere ogni centro acquisibile solo se privi di mira e d’intento. Onfalico approdo, fuggevole e anelato, quell’«assente che bisogna amare» è invece, nell’inermità, estasi di pura presenza.
Questo forse l’ineffabile baricentro del canto di Ferraro, un elemento fondante sempre rincorso, in un’ascesi protesa, tentata in ricaduta, assottigliata in parola esile e prontissima, che dona candida, istantanea illuminazione.
Il poeta distende in uno «spazio vastissimo e bianco», come nota Devicienti in prefazione, un tempo circolare, sempiterno, affrancato da ogni diacronica linearità, e, nel balenio puntiforme del verso, polarizza il silenzio e la luce, fino alla soglia di quell’«immaginare» che è invece il più puro sentire, il più spoglio abbandonarsi. Ferraro in questo anelito di ascesa a un vuoto che – esso solo – ricolma, distende parole sacerdotali, limpide di trasgressione: perché prescindono dichiaratamente da quella realtà cementificata e opaca, da quella chiassosa e spenta corporeità che fa del nostro tempo una distopia dell’anima.
C’è, in Ferraro, un continuo rovesciarsi e dissolversi di una grandezza nell’altra, «fondo occulto» che è «cerchio di luce», ascesa nel precipizio, rivelazione piena nel silenzio senza margine. Ed eccolo il sapere, quando cessa il chiedere, quando si abita la via vuota del rimanere immobili.
Il paradosso è guida, strada maestra in questo verticale cammino: è la pietra che accoglie il fondale, è il tutto che abita l’infinitesimo punto, è il sontuoso che si staglia nel disadorno, è il sacro che si erge immane, all’interno del cuore, in un nuovo ridarsi all’origine. Un percorso di visioni composite, dialettiche, mutevoli nel fluire. Non esiste, nel poeta, l’immagine statica, giunta, ma epifanie che trasfigurano tra le dita evocando il flusso del creato, in un contrarsi ed espandersi, illuminarsi e rabbuiare che allude continuamente al nucleo vibrante e immobile dell’universo.
Una musicalità profonda abita il verso di Ferraro, qualcosa che ne suggerisce una fatale categoricità d’amore, l’andamento ritmico di certa musica sacra. Un fugato bachiano, che si adorna in geometriche perfezioni: ricerca esilissima, anelante al culmine, fragile nell’istante, ma reiterata, potente.
Ogni lirica, ogni fraseggio tenta di superare il limite semantico e teoretico della parola, continuamente ricreata in nuova sintassi, portata così al lucore più sottile, elevato, d’interminata soglia. Epifaniche dissolvenze che, quando raggiungono l’apice della potenza evocativa, scompaiono lasciando orfani e scossi, con la sensazione di aver sfiorato ciò che, nelle più celate altezze, sempre si nega.
Eppure, un rivelarsi ostinato di indizi arcani, non interpretabili, sussurra alla tempia della creatura, che si avverte sempre tronca, manchevole, cavitata in sete di verità: «Albero cavo da millenni, / da sempre non compiuto, cieco / fra i regni colmi di vento / senza la grazia di oscillare […] Ma adesso, in questo nitore […] è qui, a te chiede un soffio. // A te, che senza fine spargi, / irrespirabile».
Un eckhartiano ridursi in contemplazione, che riverbera di altre grandi voci mistiche dell’antichità, da Giovanni della Croce a Teresa d’Avila, nell’umano che si fa silente e immoto, privo d’intenzione e affetto attivo, ma piuttosto saldo in percezione: «Per costringere il vero / quando le cose appaiono / lontane, e silenziosi araldi / vanno in cerca di parole / e non le trovano, perché / perduto è il regno: mi siederò / qui, e ascolterò i tuoi passi. // […] Sai che non ti seguirò. // Sarà il bastone / a insegnarmi il deserto»; ponendosi in volontario esilio, il poeta, dall’inautentico barbaglio di queste nostre epoche stordite: «e molto deve scendere / nel buio, affinché molto / accada – qui, dove semenza / è tutto; allora fiorire / è questo scorrere in un cerchio, / ansa del non accogliere».
La fede, questo abissale sentire la presenza, non ha solida struttura nel ragionamento, nella parola. È piuttosto quel qualcosa di «indubitabile / entro una macchia / di faggi che si oscura / se la guardi, senza sintassi / come fiori di novembre». È quel durare paziente, nel paradosso, nel senso che sovverte sé stesso «pietra amorosa / nell’accogliere il fondo», e non può mai posare in parole.
Ancora, il poeta si domanda «quale artefice ci sogni / lungamente, quale maestro / invisibile non so»: se inesauribile è l’ipotesi d’esser amati da un altrove, se questo altrove è un «Culmine inasceso», la conoscenza è percorso senza abbrivio, approdo nel vuoto, separazione dal comprendere che è aperta distanza e quotidiana dimora.
Dio s’incava, si cela e il creato stenta nel suo non dichiararsi, mentre l’uomo, cieco e dolente semidio, conosce la sola ricerca, la «stanchezza dei mari / quando vanno controvento»; gli è negata la luminosa via dell’animale, guidato per istinto lineare, in essenza tersa di natura.
Ma vi sono indizi, e creature fatate, figlie di altre sfere, trama e ordito di sopramondo, a indicare: «Figure del congedo, / puoi vederle talvolta. / Sono mani infantili / che intrecciano steli / in fondo alle forre, / disadorne corone / per l’ascensione dei fiumi […] Promessi all’esilio, / ovunque sfavilli un girasole, / e straniera la terra dei padri / nel recinto dei sogni».
Dimoranti sopiti di un universo i cui segni non guardiamo, né più sappiamo, siamo solo «orme, e mai abitatori / dell’origine, soltanto orme / sulla terra che non sa morire»: nella materia rabbuia continuamente un’essenza di morte, benché mai portata a radicale compimento, che è quella pesanteur che ci definisce e delimita; eppure portiamo in noi aditi, lumi, fenditure che ci fanno diafani, non completamente spenti, non esclusi in potenza dalle stanze dello spirito.
Perché, nella poesia di Ferraro, esistono misteriosi varchi del sentire, in cui l’assoluto pare offrirsi alla creatura, in intuizione sublime e spaventosa, luminosa tenebra di una sconfinatezza anteriore a ogni cosa: «Sempre il medesimo profumo, / quel sentore di terra e sangue: / ricordi di savane, di notti / monsoniche all’aperto. // Tigre immemorabile, / sei qui nel cuore di ognuno, / assorta in ampiezze».
Siamo in epoca oscura, Kali yuga, «autunno ovunque», «incompreso grigio/ dell’inverno, avverso / alle metafore, senza eufonia/ di accordi nell’affresco» ma «I fiumi conoscono la loro / meta: dal mare hanno origine, / e al mare fanno ritorno»; e l’assenza apparente del principio primo è piuttosto una ubiquitaria presenza, celata, nel flusso: «Si effonde nei mondi, / senza essere i mondi. // Così, scorrendo in tutto, / non c’è nulla / che non trattenga».
Nell’impermanenza, tutto è illusione che dissolve. Ma nel rovescio, il lucente mistero: chi sa farsi nulla diviene eterno: «Più durevole l’ombra / dell’albero che imita […] Sanno di mentire i nomi, / e pura è solo la voce / che in un pozzo / – decrescere felice – / rinuncia all’eco».
Quella la soglia dell’interrotto mancare, del valicato patire: «C’è un istante fuori / dal tempo, lontano / dagli annali dell’orrore. // Vedi, gli uomini passano. / I semi che scomparvero, / fioriscono».
Una bellezza, sembra dire il poeta, attraversa incolume i millenni, ed è immobile in un luogo intimo, segreto, che è aurora, sorgente. Rimanere silenziosi e immobili, farsi cavi diviene pratica ardita, perché si finisce per udire, ed è a questo fluire di tremendo splendore che si sovrappone un senso presentissimo della potenza di Dio. Ineluttabile allora accantonare, almeno nelle intenzioni, quella mediocrità morale che ci marchia come malriusciti animali, per scegliere l’aspro e lirico percorso che rinnova il voto in ogni istante alla fedeltà, al ritorno: origine interminata, bianco enigma, cosa limpida e assoluta, che cura ogni limitatezza, ogni epilogo, ogni umana nostalgia: «Così l’amante scompare / nell’amato, finché solo / l’Amore resta».
da Il silenzio degli oracoli (L’arcolaio 2021)
tendere là, dove s’irraggia,
dove a miriadi, a sciami:
sempre quell’iride, quel fondo,
in un solo punto radiante.
A miriadi, a sciami,
perpetuamente spettro:
ma dove luogo? Dove un unico
e infinito, accadere?
Noi saliamo, saliamo.
Noi strappiamo palpebre
alla luce
*
Luce che mi è segreta
se non tramonta; e dove porta
mi chiedi, dove scompare
a chiudere dintorno a cingere
lo spazio dei miraggi.
Estrema parvenza d’increato,
guarda come tutto è preso
in un abbaglio: raggiunto
da uno stesso esilio,
senza discernere i colori.
Bianco su bianco, sempre,
e nonostante tutto andare.
*
Sei solo quando tacciono
i venti alla finestra notturna,
e nessun popolo minuto
cospira nel tuo orecchio
e nell’ombra, ignaro
di alfabeti, tenti sillabe
misteriche.
Però nessun maestro,
nessuno che seguiti
a tacere.
Flavio Ferraro è nato a Roma nel 1984. Poeta, saggista, studioso di dottrine metafisiche e traduttore, scrive articoli per diverse riviste e giornali online, e tiene conferenze su molteplici tematiche. Tra le sue ultime pubblicazioni: La malvagità del bene. Il progressismo e la parodia della Tradizione (Irfan, San Demetrio Corone 2019); la traduzione delle Odi di John Keats (Delta 3, Grottaminarda 2021); e il libro che raccoglie tutte le sue poesie, Il silenzio degli oracoli (L’Arcolaio, Forlimpopoli 2021).
Poesia brasiliana: su “Distratti vinceremo” di Paulo Leminski
LETTERATURE E ARTI VARIE
di Antonio Devicienti
Sono molteplici le ragioni per cui si traduce; nel caso di Distraídos venceremos / Distratti vinceremo di Paulo Leminski (L’arcolaio, Forlimpopoli 2021) Massimiliano Damaggio introduce, sceglie e traduce dal portoghese-brasiliano-leminskiano in italiano un poeta per lui vitale e determinante – non è un caso se avvio questo scritto fermando l’attenzione sul traduttore prima che sul poeta tradotto perché siamo davanti alla circostanza di un traduttore e poeta “in proprio” che trova in uno degli esponenti di punta della poesia brasiliana contemporanea ragioni, conferme, suggestioni per continuare uno studio di voci poetiche accomunate tutte da una medesima cifra: lo slancio vitale, l’energia creatrice insita nella lingua e nelle sue radici etimologiche, il testo poetico quale serissimo giuoco di senso e di suono, di ritmo e di immagini.
Paulo Leminski ha nella mente e nelle mani che scrivono un’elettricità che incendia, contagia ed entusiasma, un flusso ininterrotto di pensiero libertario e liberatorio che mette alla berlina qualsiasi stantio accademismo e qualsiasi reazionario atteggiamento borghese, ponendo in atto un’idea della lingua-e-della-poesia materiata di musica, di contrappunti raffinatissimi scaturenti sul discrimine difficile tra suono e senso, allusione e ironia, realtà e paradosso.
Paulo Leminski (ph. Dico Kremer)
La voce di Leminski giunge così a imporsi (nel bel mezzo di un atteggiamento largamente diffuso in Italia e che è quello di scrivere versi spesso stanchi e noiosi, privi di accensioni dell’immaginazione e di slanci veramente anticonformisti) in maniera generosa e senza risparmio: non è stato mai avaro il poeta, non è avaro il suo fratello-traduttore e non a caso mi sono inventato un termine come “leminskiano” per riferirmi a quello che succede soltanto con i poeti-creatori: essi ereditano una lingua sovraccarica di storia e la rifondano, restituendola come nuova, rinvigorita, capace di dire il mondo come fosse l’alba della creazione; il “leminskiano” è, allora, la gioia, l’erotismo, l’anarchia dell’in-utile – di questo volume si leggano e si godano non solo i versi, ma anche il breve saggio “Inutensílio / Inutensile” alle pagine 133-136 nel quale Leminski tra l’altro scrive:
«La poesia è il principio del piacere nell’utilizzo del linguaggio. E i poteri di questo mondo non sopportano il piacere. […] Chi vuole che la poesia serva a qualcosa non ama la poesia. Ama un’altra cosa. […] Il lucro della poesia, quando vera, è il sorgere di nuovi oggetti al mondo. Oggetti che significhino la capacità della gente di produrre mondi nuovi. Una capacità in-utile. Oltre l’utilità».
La poesia come gesto libertario ed erotico (anche eretico). Credo sia questo il fuoco che abita le pagine di Leminski (e nella memorabile poesia di pagina 77 non a caso il poeta rappresenta sé stesso ricoverato nel reparto ustionati dell’ospedale di Curitiba), è questo il vento che le percorre:
moinho de versos
movido a vento
em noites de boemia
*
mulino di versi
mosso dal vento
in notti di follia
(pp. 36 e 37) e numerosi testi-haiku di “Ideolágrimas / Ideolacrime” tra pagina 108 e pagina 29 sono attraversati dal vento, questa è l’alcolica ebbrezza che aggiunge moto a una poesia già di per sé mobilissima, irrequieta, vorticante
cinco bares, dez conhaques
atravesso são paulo
dormindo dentro de um táxi
*
cinque bar, dieci cognac
attraverso san paolo
dormendo in un taxi
(pp. 120 e 121).
Massimiliano Damaggio sceglie e traduce dal corpus non solo poetico di Paulo Leminski con totale partecipazione e divorante passione; è chiaro che Leminski è stato ed è decisivo nel suo mondo interiore e intellettuale e desidera che molti lettori italiani possano esperire qualcosa di simile – anche Damaggio, sia chiaro, appartiene al gruppo di coloro che studiano e scrivono poesia per devozione nei confronti dell’in-utile, della gratuita gioia di assaporare parole tra lingua e palato, di scoprire, con fanciullesca felicità, accostamenti di suoni e d’immagini inediti; e infatti la versione in italiano mantiene e restituisce la musicalità (mobilissima ed erotica, tengo a ribadire) dei testi originali, traghettando in italiano quello che la particolarissima temperie del mescidatissimo Brasile ha saputo regalare alla lingua portoghese: nuova sensualità e ulteriore pulsione vitale.
Nelle belle pagine introduttive di “Distratti vinceremo” il poeta è al centro di un ritratto capace di farne comprendere la dirompente personalità che non separava mai la vita dalla poesia e che nelle sue passioni totalizzanti (le lingue, comprese quella latina, greca e giapponese, il judo, l’alcol, la libertà, il sesso, la traduzione), tracannava la vita senza pentimenti, assaporandone ogni istante – per apparente paradosso (del tutto leminskiano oserei dire) in questo libro leggiamo un monaco devoto del mondo e della poesia: allievo del collegio retto dai Padri benedettini di San Paolo, Leminski scopre sé stesso (latinista, grecista, lusitanista e innamorato… della donna) proprio in collegio e a leggere “In honore ordinis sancti benedicti” (pp. 78 e 79), ma anche del suo interesse per Basho e per lo zen giapponese, si comprende bene la fedeltà, la devozione, il culto (laici, ovviamente) della bellezza e della vita, delle cose inapparenti:
à ordem de são bento
a ordem que sabe
que o fogo é lento
e está aquí fora
a ordem que vai dentro
a ordem sabe
que tudo é santo
a hora a cor a água
o canto o incenso o silêncio
*
all’ordine di san bento
l’ordine che sa
che il fuoco è lento
ed è qui fuori
l’ordine che si fa dentro
l’ordine sa
che tutto è santo
ora colore acqua
canto incenso silenzio
e conclude:
e no interior do mais pequeno
abre-se profundo
a flor do espaço mais imenso
*
e dentro ciò che è più piccolo
s’apre profondo
il fiore dello spazio più immenso.
Non ci si meraviglia, allora, del grande successo e della popolarità di Paulo Leminski in Brasile, folgorante poeta che sa trovare la propria indimenticabile voce sia in testi articolati di lungo respiro che nella difficilissima brevità dell’haiku; la brevitas leminskiana viene coltivata anche, per esempio, nei graffiti-stencil visibili sui muri delle città brasiliane (pratica questa d’imprimere versi e ritratti di scrittori sui muri urbani diffusa sia nei paesi lusitanofoni che anglofoni) e lo dico proprio per sottolineare l’icasticità dello stile e delle immagini, dei frequenti rovesciamenti del senso, della sonorità linguistica; ne offro due esempi:
a estrela cadente
me caiu ainda quente
na palma da mão
*
la stella cadente
m’è caduta ancora ardente
sul palmo della mano
(pp. 122 e 123),
soprando esse bambu
só tiro
o que lhe deu o vento
*
soffio in questo bambù
e solo sento
quel che gli ha dato il vento
(pp. 124 e 125).
Cachorro louco (cane pazzo) si definisce (p. 60) il poeta (e cedo alla tentazione di percepirlo anche come perro romántico…), interessato pure agli aspetti sperimentali della scrittura, ché, come sempre accade con la poesia consapevole e avvertita, il lavoro/lavorìo si esercita sulla lingua, sulle sue strutture, sui suoi portati di senso (e di non-senso), sulla sua pura materialità di suono e di segno grafico: ecco allora “um texto morcego” (“un testo pipistrello”, pp. 40 e 41) tutto giocato sugli echi e sulle ripetizioni di determinate sillabe, ecco un libro aperto a mezzanotte il cui luminoso bianco della pagina e nero delle lettere stampate pare attirare gli insetti che forse, ironizza il poeta, si sentono parenti di quelle lettere (pp. 52 e 53), ecco un intero testo (splendido) intessuto intorno alla speculazione etimologica circa i vocaboli “porta” e “finestra” (pp. 100 e 101) – Leminski raggiunge un equilibrio perfetto tra poesia colta (anzi coltissima) e poesia-canzone non ignara, a mio parere, dell’inarrivabile tradizione cantautoriale della Bossa nova, tra ironia e dolce, tenue malinconia dato che il vivere è comunque destinato a terminare e il mondo è davvero meraviglioso e meravigliante per il poeta.
Distratti vinceremo offre in maniera efficace una prima chiave per formarsi un’idea della parabola artistica e umana di Leminski, è un libro umilmente ed entusiasticamente al servizio dell’opera ricca e articolata di chi a sua volta si sentiva irresistibilmente chiamato dalla poesia al cui servizio si era posto per pura gioia, per eretica gratuità.
***
Razão de ser
Escrevo. E pronto.
Escrevo porque preciso,
preciso porque estou tonto.
Ninguém tem nada com isso.
Escrevo porque amanhece,
e as estrelas lá no céu
lembram letras no papel,
quando o poema me anoitece.
A aranha tece teias.
O peixe beija e morde o que vê.
Eu escrevo apenas.
Tem que ter por quê?
Ragion d’essere
Scrivo. La cosa è questa.
Scrivo perché ho bisogno,
bisogno perché gira la testa.
E altra gente non c’entra niente.
Scrivo perché in cielo schiarisce
e le stelle rassomigliano
alle lettere sul foglio,
quando la poesia m’imbrunisce.
Il ragno si tesse la rete.
Il pesce bacia e morde ciò che vede.
Io scrivo, e questo è.
Ci dev’essere un perché?
*
nuvens brancas
passam
em brancas nuvens
nuvole bianche
passano
fra bianche nubi
*
Sete dias na vida de uma luz
durante sete noites
uma luz transformou
a dor em dia
uma luz que eu não sabia
se vinha comigo
ou nascia sozinha
durante sete dias
uma luz brilhou
na ala dos queimados
queimou a dor
queimou a falta
queimou tudo
que precisava ser cauterizado
Sette giorni nella vita d’una luce
per sette notti
una luce ha mutato
il dolore in giorno
luce che non sapevo
se veniva da me
o nasceva da sé
per sette giorni
una luce ha brillato
nel reparto ustionati
bruciato il dolore
bruciato l’assenza
bruciato tutto quanto
andava cauterizzato
miracolo oltre il peccato
che senso può avere
più significato?
*
o pauloleminski
é um cachorro louco
que deve ser morto
a pau a pedra
a fogo a pique
senão é bem capaz
o filhadaputa
de fazer chover
em nosso piquenique
il pauloleminski
è un canepazzo
meglio se l’ammazzo
a mazzate e pietrate
col fuoco a bastonate
sennò può fare
il figliodicane
diluviare
sul nostro picnic
*
essa a vida que eu quero,
querida
encostar na minha
a tua ferida
amore, è questa che amo
di vita
poggiare alla mia la tua
ferita
*
Distâncias mínimas
um texto morcego
se guia por ecos
um texto texto cego
um eco anti anti anti antigo
um grito na parede rede rede
volta verde verde verde
com mim com com consigo
ouvir é ver se se se se se
ou se se me lhe te sigo?
Distanze minime
un testo pipistrello
è guidato dall’eco
un testo testo cieco
un’eco anti anti anti antico
un grido verso la parete rete rete
ritorna verde verde verde
con me con con con sé
sentire è veder si si se se se
o se se mi si ti seguo?
*
Ouverture la vie en close
em latim
“porta” se diz “janua”
e “janela” se diz “fenestra”
a palavra “fenestra”
não veio para o português
mas veio o diminutivo de “janua”,
“januela”, “portinha”,
que deu nossa “janela”
“fenestra” veio
mas não como esse ponto da casa
que olha o mundo lá fora,
de “fenestra”, veio “fresta”,
o que é coisa bem diversa
já em inglês
“janela” se diz “window”
porque por ela entra
o vento (“wind”) frio do norte
a menos que a fechemos
como quem abre
o grande dicionário etimológico
dos espaços interiores
Ouverture la vie en close
in latino
“porta” si dice “janua”
e “janela” si dice “fenestra”
la parola “fenestra”
non è passata in portoghese
sì invece il diminutivo “janua”,
“januela”, “porticina”,
che ha dato la nostra “janela”
“fenestra” è passata
ma non come questo punto della casa
che guarda il mondo là fuori,
da “fenestra” è venuta “fessura”,
che è una cosa ben diversa
ma in inglese
“finestra” si dice “window”
perché è da lì che entra
il vento (“wind”) freddo del nord
a meno di non chiuderla
come chi apre
il grande dizionario etimologico
degli spazi interiori
[“janela” è finestra]
*
abrindo um antigo caderno
foi que eu descobri
antigamente eu era eterno
apro un vecchio quaderno
e scopro
che un tempo ero eterno
*
Adminimistério
Quando o mistério chegar,
já vai me encontrar dormindo,
metade dando pro sábado,
outra metade, domingo.
Não haja som nem silêncio,
quando o mistério aumentar.
Silêncio é coisa sem senso,
não cesso de observar.
Mistério, algo que, penso,
mais tempo, menos lugar.
Quando o mistério voltar,
meu sono esteja tão solto,
nem haja susto no mundo
que possa me sustentar.
Meia-noite, livro aberto.
Mariposas e mosquitos
pousam no texto incerto.
Seria o branco da folha,
luz que parece objeto?
Quem sabe o cheiro do preto,
que cai ali como um resto?
Ou seria que os insetos
descobriram parentesco
com as letras do alfabeto?
Amminimistero
Quando il mistero verrà,
mi troverà addormentato,
una metà che dà sul sabato,
sulla domenica, l’altra metà.
E non suono o silenzio,
quando il mistero aumenterà.
Silenzio è cosa senza senso,
osservo ad ogni passo.
Mistero, è qualcosa, penso,
più tempo, meno luogo.
Quando il mistero tornerà,
il mio sonno sarà così libero
che non potrà nessun timore
più farmi da timone.
Mezzanotte, libro aperto.
La farfalle e le zanzare
poggiate sul testo incerto.
Sarà il bianco del foglio
luce che pare oggetto?
Magari l’aroma del nero
che lì crolla come un rudere?
O che a momenti gli insetti
si sentano parenti
delle lettere dell’alfabeto?
*
essa ideia
ninguém me tira
matéria é mentira
quest’idea
non mi leveranno
materia è inganno
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Paulo Leminski nasce a Curitiba, nello stato brasiliano di Paraná, il 24 agosto 1944, da una famiglia di origini polacche da parte di padre, portoghesi e indie da parte di madre. Dopo aver studiato per un anno presso il collegio dei padri benedettini maristi, impara da solo il francese, l’inglese, il latino, il greco antico e il giapponese. Conosce il grande poeta Haroldo de Campos, leader e creatore del concretismo, che nel 1964 gli fa pubblicare i primi versi sul suo giornale Invenção. Si immerge nella controcultura degli anni ’60 e ’70, frequenta la facoltà di Lettere per poco più di un anno, poi la abbandona. Si guadagnerà da vivere prima come insegnante, poi come pubblicitario, giornalista e critico letterario. A soli diciassette anni sposa l’artista Neiva Maria de Sousa, da cui divorzierà sette anni dopo. Il secondo matrimonio, dal 1986 al 1988, è quello con la poetessa Alice Ruiz, da cui avrà tre figli. È un appassionato di cultura giapponese e insegnante di judo e ha praticato la forma dell’haiku. Muore il 7 giugno 1989, di cirrosi epatica. Nel 1975 esce il romanzo sperimentale “Catatau”, annoverato fra le sue opere più significative, nel quale immagina una visita di Cartesio in Brasile; nel 1984 segue “Agora É que São Elas”. Come poeta, pubblica i volumi “40 Clics em Curitiba” (1976), “Polonaises” (1980), “Não Fosse Isso e Era Menos/Não Fosse Tanto e Era Quase” (1980), “Caprichos e Relaxos” (1983), “Haitropikais” (1985, insieme alla moglie Alice Ruiz) e “Distraídos Venceremos” (1987). Postumi escono “La Vie en close” (1991, con Alice Ruiz) e “O Ex-Estranho” (1996). Ha inoltre scritto biografie di Matsuo Bashō, del poeta João da Cruz e Sousa, di Gesù e di Trotsky. Ha tradotto in portoghese Petronio, John Fante, Alfred Jarry, James Joyce, Samuel Beckett e Yukio Mishima. Nel 2013 è uscito per l’editore Companhia Das Letras “Toda poesia”, che raccoglie la sua intera produzione poetica e ha venduto ad oggi centinaia di migliaia di copie.
Massimiliano Damaggio vive in Grecia. Ha studiato lingua e letteratura portoghese. Si occupa di lettura, traduzione e scrittura di poesia. Ha pubblicato quattro libri di poesia: “Neon” (1994), “Poesia come pietra” (2011), “Edifici pericolanti” (2017), “Ces qui prennent un café fac à la mer” (Francia 2017). Di prossima pubblicazione “Io scrivo nella tua lingua” (Zona 2022); uno di traduzioni: “Paulo Leminski, Distratti vinceremo” (2021). È confondatore del blog “Perìgeion, un atto di poesia” e redattore della “Dimora del tempo sospeso”.
Antonio Devicienti, di origine salentina, è redattore del blog “La Dimora del Tempo sospeso” fondato da Francesco Marotta e gestisce lo spazio personale “Via Lepsius”. Nel 2021 ha pubblicato “Andanze” per la collana Prova d’Artista della Galerie Bordas di Venezia diretta da Domenico Brancale.
Carla Saracino è di Maruggio (Taranto). In poesia ha scritto “I milioni di luoghi” (LietoColle, 2007. Premio Saba Opera prima), “Il chiarore” (LietoColle, 2013), “Qualcosa di inabitato” insieme a Stelvio Di Spigno (Edb, 2014), “Paesaggio” (Gattili, 2018). Ha scritto anche dei libri per bambini, tra cui “Gli orologi del paese di Zaulù” (Lupo, 2012), “Fiabe lombarde” (Pane e Sale, 2018), “Il mare è…” (Kurumuny, 2021), “Un giorno come gli altri” (Kurumuny, 2021). Scrive per la rivista digitale Monolith monolithvolume.com e per L’estroverso cura la rubrica La rosa necessaria
l’intervista di Andrea Leone
Una domanda inevitabile quando siamo di fronte a un terzo libro. Come vedi l’evoluzione, il cambiamento (se ci sono stati) tra le tue tre opere di poesia?
Considerando che la scrittura sa nascondersi in un riserbo inesplorabile, non riesco ad intravedere nelle mie poesie una eventuale “evoluzione”. Non so neppure se la voglio. Piuttosto, cerco la messa a fuoco. E questa, lentamente, mi sta offrendo il pregio di rivelarsi; l’atto del mettere a fuoco si sta sostituendo alla visione istantanea. Sono riuscita a concentrare e ad affinare l’istinto dello sguardo, che si è educato a non essere solamente un mezzo ma pure una definitiva e conclusiva presenza. Questo mi ha permesso, nel tempo, di avere meno paura di interpretare la realtà attraverso un modo, il mio, del tutto personale e libero dai giudizi altrui.
Una categoria interiore che mi sembra permeare tutta l’opera è quella di “anima”, parola dal significato ambiguo e probabilmente abusata, che forse solo James Hillman ha saputo inquadrare esattamente. Ti riconosci in questa categoria e cosa significa esattamente per te?
È vero, esistono delle parole abusate ed “anima” è forse una di queste. Contribuendo involontariamente all’abuso, ugualmente me ne distacco, perché per me la parola anima non ha nessuna direzione di senso artificioso o retorico. Ho apprezzato moltissimo Il codice dell’anima di James Hillman e sono sedotta, come tanti, dai suoi studi sul daimon, sulla chiamata, sulla vocazione. Ma in questo libro l’anima è una condizione, precaria e fragile, di compartecipazione alle cose; uno stato dell’attenzione, avventuroso e sotterraneo, intensamente vigile, generoso, proteso a vivere, ad essere partecipe o ad autoescludersi, a seconda delle esperienze. Ha a che fare con una tensione verso la compassione e l’ammirazione (sentimenti che reputo tanto nobili quanto rari): è l’arma bianca con cui mi illudo di difendere le persone e i luoghi che amo dalla decadenza e dalla rovina del tempo.
Mi sembra sia un libro molto unitario, non una semplice raccolta di liriche, cioè di “momenti”. Sembra che ogni immagine e ogni parola partano da uno stesso luogo originario. Qual è secondo te l’elemento strutturale, lo schema centrale che costituisce l’ossatura del libro?
La struttura portante è il tempo. Nella raccolta si sviluppa circolarmente, si chiama e si rievoca, spoglia e riveste il suo stesso nome, mirandosi a uno specchio che è la prova, anche, del suo narcisismo. È una strana creatura, il tempo: ci sono giorni in cui non lo sento, non lo percepisco, non esiste. Penso a quel che è stato, ai miei antenati, ed ho la certezza che potrei raggiungerli all’istante o mi convinco di averli appena intravisti. Viceversa, ci sono giorni in cui il tempo piomba irreversibilmente sul presente: lo leggo sul mio volto, su quello dei miei cari, sul corpo di chiunque, sull’organo corpo della realtà. Delle altre volte ancora mi capita di pensare che l’invecchiamento delle cose accada per eccedenza di espressione: quella che ci espande e ci fa essere; che, allo stesso modo, ci misura e confina. E questa percezione mi accade di sentirla d’estate, una stagione controversa, amata o odiata, eppure l’unica che ci permette di ridiventare noi stessi, nello spazio della vacanza, del vacante tempo che allaga nelle ore in cui possiamo ritrovarci e non siamo più preda delle iperattività del contemporaneo.
Un’immagine ricorrente è quella della casa, anzi il libro sembra una “casa”, ma con lo sguardo rivolto ad una finestra e quindi all’esterno. Ti sembra appropriata la metafora della casa come opera, cioè come scrittura?
Sì, sicuramente. La scrittura è tale quando trova una collocazione propria, unica, irrevocabile. Nasce dagli interstizi. Come per le case, quando emettono suoni misteriosi e si aprono alle crepe, alle forre, ai passaggi di vento o alle voci lontane. In questo libro la casa è il contenitore simbolico della mia scrittura, la pagina in cui le cose accadono, i sentimenti si irradiano, prendono nuova vita dalla cenere, dalle metamorfosi, dalle feste e dalle mestizie. Mi interessano i “passati imminenti”, come direbbe il poeta Carlos Barral; mi appassionano le storie di famiglia, i vuoti che si stringono intorno all’ombra della memoria e mutano in testimonianze di contrasto, di crisi, di straordinarietà; mi interessano le persone che amano intensamente e tentano, malgrado tutto, di partecipare della felicità, che è sempre istantanea. Tutte queste cose convivono in uno spazio elettivo quale è da sempre, anticamente, la casa: la casa di ognuno, dalla dimora abitata fino a quella estrema, la casa del Genio e del Cuore.
Una parola interessante, che forse dà il tono musicale al libro, è “remissione”. Cosa puoi dire a questo riguardo?
Sono legata a questa parola, nata di impulso dentro me. Non ha nessun significato morale o pedagogico. Ha a che fare con l’abbandono, la resa, il placare, il concedere: cose che mi piacciono molto nella relazione con l’esterno. Penso sia essenziale, venendo alla luce, darsi, consumarsi, ridursi per eccesso di espressione, offrire il meglio di sé, cercando fino in fondo l’avventura della “crescita”. Mi sembra quasi un dovere verso se stessi e gli altri; prima ancora, un innocente atto di bellezza.
MARCO ERCOLANI RECENSISCE “SUL BANCO DEI PESCI” IL PRIMO LIBRO DI CARLOTTA CICCI. L’ARTICOLO E’ APPARSO SUL BLOG SCRITTURE. PREFAZIONE DI ALBERTO BERTONI.
Il libro d’esordio di Carlotta Cicci, Sul banco dei pesci (L’Arcolaio, 2022, prefazione di Alberto Bertoni), è davvero un’opera d’esordio. Artista visivo, specificamente videomaker, Carlotta trova, alla sua prima raccolta di versi, una flessuosità ritmica che rende le poesie del libro frammenti crudeli, misteriosi, compatti, cantabili: intrisi, oserei dire, di una semplice, disperata, inevitabile cantabilità. (“in un passaggio / di vortici e soglie / con l’anima capovolta / in un improvviso odore / di fieno e sale / nel delirio / lei nasce // il suo respiro / come una carezza / assoluta // un suono / piccolo”). Bertoni osserva, nella postfazione, che questo libro innova la percezione del linguaggio: “montaggio dinamico e variegato di fotogrammi che lasciano alla fine della lettura una sensazione di attività cooperante e soprattutto di libertà reciproca”. Io aggiungerei: questi versi non sono pensati come versi autonomi di singole poesie ma come strutture cangianti di una cantata profana, fra tragico e sacro, radicata in una straniata “pressione” della psiche a contagio col “garbuglio del mondo” (Bertoni).
Suddiviso in quattro sezioni (“La sentenza”, Bestie caute”, “Tunnel”, “Stanze deserte”), il libro racconta, con echi surrealisti e secche sequenze metriche di versi brevi, un viaggio iniziatico di conoscenza/sperdimento/spoliazione dell’io. Naturalmente, ogni poeta ci comunica sempre il suo personale sperdimento. Ma c’è chi lo fa dall’esterno, come se sviluppasse teoricamente un tema prima di trascriverlo in versi. Nulla di tutto questo accade in Carlotta: la sua poesia, che per necessità non appartiene neppure a lei scrivente, la nutre dall’interno, come la trascrizione fisica, nelle parole, di un potente terrore psichico, che dal linguaggio viene appena placato: “cerco un appello / cerco la mia faccia // mi manco // senza pericolo / senza inventarlo / è calma / è sevizia”; “devo difendere il silenzio / tornare dove le allodole / fanno i nidi / dove la vita smarrisce / nella pazienza del tutto // devo cercare la sua voce / così un uccello mi segnerebbe / il petto // spalanco la bocca / scelgo di coprirmi il volto // schiantare / voglio schiantare”). Si potrebbe parlare per questi versi di epifanie, se la parola non fosse fin troppo abusata. Ma occorre dirlo: di epifanie qui si tratta, di fessure visionarie dove è abolita la punteggiatura ma non il ritmo, e che rivelano l’immediato riversarsi della percezione in poesia, gettata “sul banco dei pesci” senza mezze misure, fra odori, soprassalti, brandelli di preghiere (“latente / pregiata / rara / come un cervo bianco / eludi tu che resti”), in un campo perturbato di emozioni e di polifonie ritmiche, alla ricerca della parola adeguata, la più nuda possibile (“la mia parola marciva / nelle tue parole perdute / nella spirale inattesa / nella misera fine”).
“Zona disforme” è il titolo del lavoro, a quattro mani, che Stefano Massari e Carlotta Cicci hanno intrapreso come teoria del “fare poesia” in questo tempo: un progetto utopico, multimediale, lacerato, alla ricerca di quell’anomala bellezza di cui i veri poeti sono assetati e dipendenti. Di questa “zona disforme” la poesia di Carlotta è uno degli emblemi più autentici.
MARCO ERCOLANI
Antologia
Cammino in una gabbia
che non attende nulla
un enorme ventre
senza acqua
senza bianco
il ferro mi annienta
non c’è cerimonia
non c’è potere
non c’è beatitudine
non ci sono i ladri
e i giovani
nessun segreto
sembra il letargo dei custodi
è tardi anche per i mostri
**
Incarno un colibrì
occorre renderlo fratello
ma ho perso il paesaggio
ho perso l’acqua
il sangue mi è sfuggito
tutto è già accaduto
anche tu domandi
mentre spietata
perdo vigore
mi lecco le ferite
chiedo asilo
tra sublime
e immondo
**
Nei silenzi vicinissimi
ho la bocca macchiata di reato
rigo muri col pollice
scortico tavoli e sedie
mi sposto di continuo
tocco fondi
riemergo
sola sono tutta mia
Carlotta Cicci, videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato progetti video e documentari (www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.