

GABRIELE GABBIA, L’arresto, L’arcolaio Editrice, Forlimpopoli (FC)
L’indagine poetica di questa seconda raccolta di Gabriele Gabbia parte dalla foto di copertina. Un uso del linguaggio non verbale che simboleggia un cerchio luminoso e sbarrato, attorniato dal buio pesto. La foto, di Alessandro Gabbia, è essa stessa premessa alle poesie dell’autore: una via di accesso ad una raccolta con delle scelte tematiche in cui l’indagine dell’io mette al centro la caducità della vita umana e le parabole di oblio che l’attraversano. La luce è sbarrata; attorno non ha nulla. Quasi fosse simbolo di un viaggio terminato lì, dove non trova più aneliti di libertà e di contatto. Uno spostamento verso il buio, l’ignoto che si raggiunge nel perenne movimento che dall’alto, repentinamente, raggiunge il basso. E tutto si smarrisce. Perde forma, meta.
Che in questo libro ci sia il tema della ricerca della libertà – fisica, interiore, emotiva – è palese. Ancora di più, quando il dialogo non conosce messaggio e non esiste un vero ricevente. Le parole, incupite e funeste, si dimenano nella ricerca di forme e significati per varcare confini che spingono verso mondi in cui il divenire svela «la tragicità del vero» (p. 17) nel freddo «movimento della vita» (p. 21). Un itinerario avvolto dalla mancanza di figure di contatto: anelli che limano il confine creando zone di prossimità e di interdipendenza che non riescono mai a trovare una sintesi. Non si scorge traccia di questo processo, di campi di appartenenza che possano significare altri schemi visivi ed emotivi.
Lo sforzo vertiginoso trova sempre un arresto, un immobilismo instabile a cui si tende e null’altro si vede. Solo la parola è sviluppo virtuoso di conoscenza: «la parola che scardina / e rimuove redime» (p. 32). L’atto del nominare non è virtuosismo. Ha una valenza morale e intima, di natura sobria, che permette di intraprendere vie interpretative, abitando i luoghi dell’essere più oscuro. Se da un lato la parola è gesto che sintetizza simboli e valori, dall’altro non contiene il paradigma dell’assolutezza: si muove all’interno di linee di orizzonte che hanno nella fragilità la sostanza predominante. Nonostante ciò, la parola crea quei ponti che possono far procedere oltre la precarietà e l’improvvisazione: «quel modo / di star dentro alle cose / – di starvi poggiato, / fra valichi e case –» (p. 20). Nessuna certezza è data, intesa come arrivo ed equilibrio del reale fatto di tanti termini e tante forme.
Questo libro non ha una valenza oscura, pessimista. È un’indagine palese dell’umano vivere nel momento in cui non trova più risorse e nuovi camminamenti, precisi convincimenti. Del resto, c’è un realismo marcato, dato dalla predominanza dell’io che s’interroga anche filosoficamente ponendo il linguaggio al centro della dialettica dell’umano. Si crea, così, questo scambio continuo dell’io con sé stesso: un interrogarsi che rimarca la dimensione più fragile dell’individuo sospeso tra le poche certezze che la vita offre e la difficoltà a radicarsi nelle azioni del presente per leggere meglio il futuro. «Tu in ogni caso / percorri un calvario. / Dischiudendolo, / ne suggelli il fulcro» (p. 19).
L’arresto è tante cose: è dimenticanza, è ricerca dell’oblio, è mancanza di convincimento, è carcere fisico e mentale. È perdita di identità, rapiti dal vortice continuo delle situazioni e delle emozioni che creano le peggiori barriere da valicare. Neppure lo sguardo rimane strumento di evasione e di rinascita. C’è un velo bianco di fronte agli occhi che rende tutto uguale, monotono, eliminando le differenze e, con esse, la possibilità di discernere e scegliere.
Nonostante il libro abbia poche poesie, mantiene una forza espressiva e una carica lirica di primo piano dentro la cornice dell’esistenza mai data e mai scontata. Si perdono i piani del tempo e del movimento, secondo uno schema di rimandi e di annotazioni transitorie. La legge dell’esistenza accomuna tutti in un disegno secolare di avvicinamento e allontanamento continui in cui la parola è respiro, compagna che rende vero ogni passo anche quando il buio spinge all’arresto e le sbarre impediscono camminamenti e cambiamenti: «Io sarò voi — / i morti, tutti, / noi, voi / dopo di me, / quando / solo, soffierò / lo sguardo, / da ciascuno / di voi tutti / su ognuno / di me» (p. 29).
Gianluca Bocchinfuso
(Recensione edita all’interno del numero 120 – ottobre 2021 – della rivista di ricerca letteraria “Il Segnale”.)