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Pier Damiano Ori riflette sul libro di Luca Lanfredi, “Il tempo che si forma”

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PIER DAMIANO ORI SI SOFFERMA FELICEMENTE SUL LIBRO DI LUCA LANFREDI, “IL TEMPO CHE SI FORMA” (LO SCRITTO E’ PUBBLICATO NEL SUO ACCOUNT FB)

Da Gianfranco Fabbri l’editore de L’Arcolaio ricevo questo libro di poesia di Luca Lanfredi. Qui alcune mie argomentazioni che partono dalla constatazione che Lanfredi ha fiducia nel quotidiano:ritiene che possa spegare, più che evocare, l’interezza dell’esperienza. Questo signfica, nella scelta stilistica, fiducia nella parole d’uso e fiducia nel fatto che messe in corto circuito le une con le altre possano raggiungere la più alta qualità cui un testo possa aspirare. Così il libro di Lanfredi è una costante sorpresa: di come maneggiando il semplice si possa arrivare molto rapidamente al complesso.
“Troppe sono le ossa/troppe le mani da fotografare”: è lo scarto spesso il tema di Lanfredi: “rilasciatemi come se fossi/sempre stato attento.”
Lo scarto, che qui è ricerca di verità, ha però bisogno di perdono. Perdono per l’alacrità con cui muove la vita,sposta l’orizzonte delle aspirazioni. in una osservazione puntuale di ciò che muove il nostro essere di tutti i giorni. Un altro libro “importante”, un altro di quei libri “che contano”, insieme a ” La saggezza dei corpi” di Martina Campi (di cui ho già scritto qui alcuni giorni fa) che Fabbri ha editato in questo scorcio di fine/inizio d’anno. Anche qui, devo dire, mi è piaciuto molto.

Barbara Herzog è arrivata in modo stupendo in Arcolaio con il suo libro “Se non nel silenzio”

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Eccoci stasera alle prese con una brava autrice; il suo nome è già noto nel mondo della poesia per aver pubblicato, nel 2012, il bel libro “Sopravvento” per la casa editrice Raffaelli. La nostra poetessa si chiama Barbara Herzog, vive a Bologna da una ventina di anni, dove ha formato la sua famiglia e dove lavora. La scrittura della nostra nuova amica è come una lama tagliente che spacca in più parti il senso di ciò che scrive. Il suo dire si alterna tra prosa e verso, riuscendo splendidamente in entrambe le fasi. Quando il suo manoscritto giunse in redazione, noi tutti rimanemmo stupiti e incantati per la veridicità delle parole e la crudezza elegante di certe sue immagini.  Parole e visioni che oggi vi sveleremo, non senza prima aver sentito il parere della prefatrice di questo ottimo lavoro, Francesca Serragnoli, anch’ella eccellente poetessa e acuta ascoltatrice delle altrui opere.

Benvenuta, Barbara, con il tuo “Se non nel silenzio” !

I primi testi.

**

Voglio sapere. Addentrarmi.
Nuotare nel dolore.
Sprofondare negli occhi iniettati di sangue rappreso da un anno.
Svuotati. Dalla fiducia nell’anima umana.
Cos’è umano.
Parlare con la voce afona che non ha più nulla da esprimere.
Ascoltare il tremendo silenzio.
Non c’è fine. Continuerò malamente ad incollare frantumi.
Continueranno a frantumare.
Voglio essere invasa dal tonfo sordo che batte ribatte
nella testa china per comprendere.
Comprendere è il primo passo verso la guarigione?
Dal gelo nelle vene dei torturatori.

**

Mio figlio aveva tre anni. L’avevo nascosto con la famiglia di mia madre. Ma mi avevano seguito. È stato un attimo. Un colpo di pistola in fronte, e il mio bimbo non c’era più.
Hanno avuto la grazia di non usare il machete. Come invece usavo fare io. Quando facevo parte dei vigilantes del governo. Eravamo un’istituzione ufficiale. Con tanto di mandato. Di trovare, giudicare e giustiziare. Nessun rallentamento giudiziale. Nessuna intromissione della polizia. Veloce ed efficace.
Bisognava tenere le strade pulite e il vicinato sicuro. Ci pensavamo noi.
Era un buon lavoro. Per un buon cristiano come me. Io sono cristiano pentecostale. Avrei dovuto prendere il posto di mio padre alla sua morte. Era il capo spirituale. Gli hanno tolto il cuore e me l’hanno appoggiato in mano. Era la consegna. Ma io non sono mica come loro. Quello era il lavoro di mio padre. Sarebbe toccato a me, gli altri fratelli non andavano bene. Il primogenito sono io. Con le femmine ancora tutte da sposare. Io sono un buon cristiano, come mia madre. E facevo un buon lavoro.
Aiutavo il governo. Liberavo il vicinato dai criminali.
Ma poi il governo ha sciolto il nostro gruppo.
E tante persone erano risentite contro di noi.
Hanno sfondato un bar con quattro macchine perché sapevano che io e i miei amici eravamo dentro. Ho visto due amici morire. Davanti a me. Quella volta sono riuscito a scappare. Sono scappato oltre il confine del paese.
Ma là c’erano comunità di gente del mio paese. E sapevano del mio lavoro. Non c’era tregua. Mi hanno assalito di nuovo, con bastoni e tirapugni e machete. Ho le ferite che lo provano.
C’era sangue dappertutto. Ma sono riuscito a scappare ancora. In un altro paese ancora.
Poi mi sono imbarcato per venire qui.
Chiedo a questo Stato protezione, perché a casa mia non posso tornare.
**

Così si esprime Francesca Serragnoli.
C’è una chiarezza nel mondo, senza confini, chiamata soffe-renza. Vicina o lontana che sia, ne siamo impastati nel corpo e nello spirito dalle origini del mondo. Franco Loi in una sua poesia, cito a memoria, scriveva: “ogni volta che mangio, qualcuno muore”. Immagino si riferisse alle notizie del telegiornale. Ecco, questo libro non sono le news di prima pagina raccontate con gli occhi della poesia. Non è un libro furbo che ha trovato un argomento “commerciale” (l’esagerazione non politicamente corretta è per capirsi). Certo, il primo commento, buttato lì, è quello che il dolore che il libro tocca (con mano) è quello che percorre un fiume sotterraneo, parallelo: i migranti, i futuri rifugiati, i derelitti. Noi lo vediamo alla tele-visione e, come gli operatori, ci mettiamo i guanti di gomma. Ma non è questo, ripetiamo, il commentino che può torturare la mente e la pancia. Lo scontro principale è su “cos’è umano” e la chiave di lettura, credo, sia “non si assomigliano/ se non nel silenzio”. I clienti sono i volti, dovrebbero esserlo sempre, e i volti indicano una strada indimenticabile, insostituibile, unica. Siamo umani perché soffriamo? Siamo simili nella sof-ferenza quindi siamo umani? Barbara ha avuto la forza di non isolare il dolore come ultimo pungiglione (sotto teca) che definisce quello che è una persona. Il pungiglione sono i volti, con i loro orizzonti vasti come quelli dei grandi paesaggi collinari che ci circondano. Non si tratta di contenere la sfilata di profughi che entrano nelle nostre città, di contare, di classificare, qui c’è una grande similitudine che sorregge tutte le nostre poesie: la migrazione in questo mondo, senza confini, dolorosa, turbata, il grande viaggio della vita spinto dal deside-rio di stare meglio, cioè della felicità. Si potrebbe dire che noi occidentali vendiamo felicità a buon prezzo, ma quando si tratta di vita o di morte, la felicità che uno cerca non è solo il benessere, ma una specie di salvezza dal male. Lo stare meglio può coincidere con la liberazione dal male, ma credo che per queste piaghe non bastino cerotti, soldi e case a riempire i vuoti. Allora cosa rimargina le ferite? Un amico mi ricordava in una mail una frase di Leon Bloy: “soffrire passa, ma avere sofferto non passa mai”. Occorre una consolazione immensa, profonda come è fondo il dolore. Barbara intravede qualcosa di più del carcere dei fatti accaduti, del curriculum tremendo. Una signora, compagna di stanza di mia madre in ospedale, parlando delle pesche, diceva che suo marito decideva che erano da raccogliere quando “i ha fat è vulton”. Non si riesce a tradurre e io non voglio nemmeno capire di meno di questa frase che per me ha a che vedere con il volto, il sole, l’attesa fiduciosa, la bellezza, la pazienza. Si potrebbe dire che una pesca non è un uomo. Verissimo. Ma siamo tutti appesi a un ramo che non è il nostro. E vulton è desiderabile e basta. “Non si somigliano/ se non nel silenzio”, dicevamo, la chiave di lettura di questi testi. La somiglianza è quello che permette di guardarci in faccia e riconoscerci, senza che un colpo di macete ci divida. Non parleremo certo del modo di aiutare queste persone, ma del perché. In Amarcord, ad un certo punto, nella scena della grande nebbia, il nonno esce di casa e si perde. Sente poi arrivare una carrozza e grida “Ferma! C’è un uomo qui!”. Ogni volta che in ospedale, per la strada, in un ufficio, in una sala d’aspetto si ravvisa questa somiglianza, non dico che ci sia salvezza o garanzia di non essere colpiti con un pugno, ma ci si allarga come laghi, ci si senti in fondo in buone mani, la pasta di cui siamo fatti è buona. E in quella bontà siamo fatti nuovi, vestiti come con il vestito della dome-nica. “C’è un uomo qui!” basta e avanza. Non c’è nulla che ci sfami e disseti come un gesto umano che è quasi divino. Questo è lo specchio che ci fa belli, il belvedere. La poesia, anche quella civile, contro le guerre, non salva (la vita), Barbara lo sa. Ma allora a che serve un libro di poesie? È un volto come gli altri, sperduto, che dai barconi ci guarda e lava i disperati come lavasse se stesso. È retorica poetica questa? Retorica sulla poesia? Sicuramente lo è, ma occorreva com-pensare la mancanza di retorica di queste poesie.

Francesca Serragnoli

**

Ancora, ricorriamo ai testi!

**

Un velo di barba
morbido ma curioso
come il seno appena spuntato
manifesti più che mai
i legami

soppesato
in un mondo che non ti appartiene
hai capovolto
la scelta imposta

insieme ai capelli
hai tagliato i seni
e il futuro di madre devota

ciò che gli occhi vedono
li fa dolere
ciò che il cuore non vede
li rende ottusi
alla tua rinascita

**

Lucky è un ragazzo come tanti. Fin da piccolo ha venduto frutta e verdura sul ciglio della strada, a due ore di cammino da casa. La scuola non era per lui. Era troppo lontana, e comunque bisognava che aiutasse a sfamare la famiglia.
Un giorno si fermò presso il suo negozio una ragazza. Mercanteggiò per qualche tempo per un pezzo di canna da zucchero. Venne via trionfante. Iniziò ad andare spesso a mercanteggiare con il ragazzo pacato sul ciglio della strada.
Il ragazzo aveva avuto come unico pensiero il guadagno da portare alla mamma, e la felicità del suo viso a secondo dell’ammontare.
Ma ora era un altro sorriso che cercava.

Arrivarono in tanti. Ognuno con un machete. Dapprima lo colpirono a lama piatta mentre inveivano. Come aveva osato rovinare una ragazza perbene. Lui, che non era nessuno. Quel bambino sarebbe morto come lui. E rovesciarono i machete.
Non sa come è riuscito a scappare. Non sa come ha attraversato paesi mai sentiti nominare. Non sapeva nemmeno ci fosse un mare.
Per tirare avanti metteva la malta finché gli dicevano di farlo. Si nascose quando scoppiò la guerra e braccavano quelli del suo colore. Si imbarcò quando gli dissero che era ora di partire.

Vide morire tante persone. Anche il ragazzo che gli aveva prestato una spalla quando non sapeva dove volgersi. Da solo, insieme a tanta gente, si fece l’ultimo pezzo a nuoto. Cercò di schivare le forze dell’ordine. Gli avevano spiegato che quelli ti mandano indietro. Ma non seppe dove andare. Aveva fame. Non aveva mai preso un treno. C’erano solo bianchi. Diversi. Minacciosi.
Si arrese mesto ad una divisa che gesticolava. Non aveva parlato molto nella sua vita, ed ora le poche parole che pronunciava non furono comprese.
Lo portarono in un centro di accoglienza. Gli diedero un letto in un mare di letti, qualche pasto, e gli fecero poche domande. Poi gli dissero che più a nord lo stavano aspettando. Gli avrebbero dato una casa. E un lavoro. Soldi per vivere.

Così arrivò in una delle tante città che hanno esaurito le possibilità. Con la promessa di un’esistenza alla pari.
Fu tra i fortunati. Ebbe una stanza condivisa, con una cucina condivisa.
Tanto gli premette avere il suo documento, e tornare a vivere come aveva fatto prima. Prima della ragazza. Si vide passare davanti uno dopo l’altro, ad andare a spiegare le proprie ragioni per averlo, quel documento. Sembrava che non lo chiamassero mai.
Nell’attesa fu convinto a fare un corso di alfabetizzazione. Lui, che a malapena parlava il suo dialetto, avrebbe dovuto leggere e scrivere in questa lingua sconosciuta. Gli dissero che per trovare lavoro era indispensabile. Diede retta. Avrebbe voluto dire che lui non sapeva. Che lui non capiva. Invece si impegnò tanto.

Poi lo chiamarono. Spiegaci perché ti dobbiamo dare questo documento.

Gliel’avevano spiegato, quel momento. Dovrai rispondere. Parlare di te. Delle cose più brutte che ti sono accadute. E di come ti sei sentito.
Ma signora, io non ho mai parlato di me. Nessuno mi ha mai chiesto come mi sento. Non lo so. Non sono andato a scuola. È difficile. Tu mi dici che devo dire in quanti erano. E lo faccio. Ma poi non so. Mi hanno fatto male. Sono andato via. Non so cos’altro dire. Non sono andato a scuola. Nessuno mi ha mai chiesto come mi sento.

Quando dopo poco tempo arriva l’invito a farsi comunicare la decisione, su quel documento, comprende.
Sempre impassibile, ha l’acqua negli occhi. Non è buono. Ci hanno messo poco tempo. Tanto poco. Non è buono. Ma io ho detto tutto quello che mi hai detto. Davvero. Ho fatto del mio meglio. Ho fatto come hai detto tu. Perché hanno già deciso. So che non è buono.

Voglio solo vivere. Non so niente. Ma voglio imparare. E voglio vivere. In che cosa ho sbagliato?
***

Barbara Herzog si è trasferita dalla Svizzera in Italia a vent’anni e si è laureata in Lingue e Letterature Straniere con una tesi in Letteratura Africana.
Lavora presso lo Sportello Protezioni Internazionali dove dà sostegno a rifugiati ed aspiranti tali.
Collabora a progetti contro le Mutilazioni Genitali Femminili in Italia e in Africa.
Ha pubblicato la raccolta “Sopravvento” nel 2012 con Raffaelli Editore.
La presente raccolta di poesie e racconti esplicita gli anni dedicati al lavoro che svolge quotidianamente

 

 

 

 

Entra in catalogo Roberto Zaccaria con il suo secondo libro: “Cielo di metallo”

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Ecco un’altra novità! Roberto Zaccaria è romagnolo di Russi -provincia di Ravenna-. E’ alla sua seconda pubblicazione (la prima è avvenuta in occasione della sua opera prima; “Il poeta beato“, nel 2011). Il libro dell’oggi s’intitola Cielo di metallo di cui Antonella Jacoli ha scritto la prefazione che qui di seguito pubblicheremo. Il nostro autore definisce questo suo lavoro come un album fotografico che raccoglie, nella propria intenzione, le immagini di noi tutti; una cornice che identifichi l’uomo di oggi come abitante di una dimora schiacciante e vuota; un cielo “per nulla salvifico, affatto mistico, dove il tutto si specchia e si immedesima”.

Tracciamo qui, ora, un segno peculiare della scrittura di Zaccaria. Poi sarà la volta dello studio critico di Antonella ed infine chiuderemo con ulteriori testi di questo nuovo amico, nel segno dell’Arcolaio.

**

Spirito del Pirata

Risalendo il Lamone
cammino sulla vetta di questo colle
a cavallo tra Zattaglia
e il comune rustico di Brisighella.

Pagàno
il tempo,
respiro ogni singola luce
che brilla alla riva del giorno:
presumo sia l’imolese.

Solo l’anima del vento
prende forma quassù dimentica:
eppure una scritta
risalta al curvone,
riporta: “Qui Pantani vive”.

*

Fumi d’Ottocento

Lampeggiano i fanali ad olio
come fiaccole;
il mondo attorno s’annulla
e regna il nichilismo delle cose.
Uno scialbo motore singhiozza,
un gomito s’alza all’osteria;
aria libertina svolazza
tra muri abbattuti.
Il mantello sfugge
al contadino, il foulard
alla dama.
L’Unità è raggiunta.

Questa sera Brisighella
esala fumi d’Ottocento.

*

Letture

Leggo un poeta
triestino e il mio cuore
va al mare ed al suo porto,
raggelati di brezza
e solitudine infernale.

Leggo confessioni
d’una volpe milanese,
una scuola che profuma
di follia e repressione.

Leggo pagine vicentine
d’un genio Decadente
e la mia mente
d’assalto presa si sente
dal duello permanente.

Leggo il sincero diario
d’un baffuto anticredente:
l’uomo egli amava
odiava al contempo.

Leggo le storie d’amore
d’un innamorato piemontese:
né i miei amori così poetici
somiglieranno…

… leggo un libro, due libri
forse tre,
Montale più degli altri
resterà lì dov’è.

 

Lettura di Antonella Jacoli

 

Il poeta non è più beato

“Il Poeta Beato”, titolo della prima raccolta di Roberto Zaccaria, ha traslocato dal sole della Grecia a quello del-l’Italia. È tornato in patria. È diventato più moderno, anche se di questo sembra rendersi conto svogliatamente, per sottrazione anziché per scelta. Se da un lato il mito classico (Carducci) introduce nuovamente alla libertà del sentimento (che è più tipicamente romantica), e dall’altro lato la fuga futurista della sezione “Nuova Poesia Tecnologica” rovescia ancora una volta la noia in exploit (“Profumo del metano” trovo sia la poesia più coinvolgente della sezione, con accenno alle pompe di benzina di hopperiana chiave pittorica), l’osservatorio non è più in stile neoclassico e il cielo non è più stellato.
Anche se le tronche e le rime fanno ancora capolino qua e là, talvolta con nostalgia ostinata, viene ora da chiedersi: la Bellezza ha smesso di avere la B maiuscola?
Forse no, forse aspetta lucidature impossibili per il momento e si esprime con dolcezza nuova ad esempio nei versi di “Pioggia di vita”.
Domina invece quasi incontrastato signore del tempo e dello spazio il disagio per la cappa di piombo del vivere quotidiano che s’impone a noi mortali, un “cielo colore di lamiera” alla Elio Pagliarani (che della Milano postbellica scheggiava la luce industriale come un tornitore esperto e che è autore caro al nostro).
“Cielo di metallo” è metonimia, traslato dal concreto all’astratto che fin dal titolo limita la nostra panoramica. Non solo contiene lo spaesamento che non lascia scampo ma sotto la sua morsa viene meno la volontà di combattere, lo sguardo registra e s’allontana, evita il coinvolgimento personale, s’inabissa e riprende a misurare in camouflage.
Proprio questo vivere “il nichilismo delle cose” è atteggiamento e carattere strettamente contemporaneo e più d’ogni altro carattere merita a mio parere d’essere sottolineato qui come sapido disvelamento in fieri del nostro sapere “orizzontale”, monco del sacro e destinato a destinarci se non ricorriamo a qualche fuga nel mondo “altro” dell’arte e del pensiero. L’humanitas bussa di nuovo alla mente, e allora si aprono squarci di sereno e tentativi di riposizionamento (“In cima al cuore”, “Terra che beve”, “Nuovo battesimo”, “Sullo sfondo un vetro sorride”).
Estraneo al mondo come si definisce, di casa solo dove l’ispirazione ha sede, Roberto avverte il rimpianto per la natura compromessa e lo tiene stretto quasi soffocandolo.
Il metallo del cielo alla fine ci ha ferito o ci ha ucciso? Non è chiaro.
Se la volta è vuota, se l’uomo d’oggi sprofonda nell’indifferenza e tralascia il sogno, il giovane poeta cerca rifugio nel bozzetto attuale o nel ricordo. A questo proposito un quadretto ottocentesco di sapore agricolo (“Fumi d’Ottocento”) appare particolarmente toccante, senza parole scopertamente antiche, ripreso da non troppo vicino, pascoliano quanto mai, con l’autore quasi timoroso di disturbare la scena. Altri luoghi fuori mano, aspri e fluviali, altrove scorrono accanto alle riflessioni impressionistiche, suggerite più che rifinite: il poeta è solo, ad osservare, lo si potrebbe immaginare poco vestito, poco nutrito, ma continuamente rianimato da qualcosa che lo getta indietro, che lo lega alla memoria. Dovrebbe invocare le Muse, come Omero ed Esiodo, se volesse portare a termine l’impresa e invece confida più di tutto nel paesaggio.
È pittore paesaggista, la distanza è la sua forza.
Basta leggere “Spiagge” per capirlo. Anche l’amore sfiduciato, anche le case sono paesaggio. Anche la solitudine dell’ultimo Pantani è paesaggio (“Spirito del Pirata”, dove il narrante è a fianco di ciò che si svolge nella mente, decretando lo stile generale della silloge), così come il cielo di bronzo cantato all’inizio del terzo libro dell’Odissea era paesaggio donato a Telemaco dalla Musa. La poesia incarna da sempre questo cammino autentico interrogante e dispersivo, ipnotico e ambivalente, e in Zaccaria le sue fughe, come quelle di Bach, verso bellezza o idillio, portano piacevolmente lontano rispetto al punto di partenza, sono classiche proprio perché raffreddate in sentimento.
Certo, la linea di “romagnosità poetica” in lui è fisiologicamente innegabile, ha respirato il disincanto dolce-amaro di Marino Moretti e di Raffaello Baldini, intrisi dello stesso senso velato e malinconico dello scorrere implacabile del tempo e dell’esistenza che Roberto possiede per istinto, mediato dalla lezione pascoliana e carducciana. Rare volte giunge a un accenno di disperazione, ch’è malinconia all’ennesima potenza, subito dismessa, soffocata, obliata, un po’ alla Stefano Simoncelli, altro romagnolo ma contemporaneo e più graffiante.
L’ex poeta beato rimane classico nell’animo, mentre nel vivere è appassionato. Due nature che sono come le facce di una moneta, lanciate in aria trovano pace insieme solo nel palmo della mano.

 

**

Punto

Metallo verde
sulla fronte.
Cigolio di specchietti
cristalli di lamiera
plasticità di curve
su ticchettio di relè.

Classe di interni
analogico il tempo
di luce verde soffusa.

Meccanica intensa
la freccia,
fisica l’elettrica,
Prima Punto
poesia a quattro ruote.

*

San Luca ondeggia sui gamma

Impregnati d’autunno
i nostri capelli,
nuotano tra i campi emiliani
pesanti come cieli inquinati.

Bussiamo profani
al suolo ritratto, rappreso
firmiamo terreni
calvi e vomitati.

La sorgente è carica,
in mano la cicala inesausta
San Luca ondeggia sui gamma
evaporati.

Dante Maffia recensisce “Nuove nomenclature e altre poesie” di Anna Maria Curci.

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NUOVE NOMENCLATURE E ALTRE POESIE
di Anna Maria Curci,
L’arcolaio – 2015,
letto da Dante Maffia
Dal blog LA PRESENZA DI ÈRATO

La prima cosa che colpisce di questo libro è un rispetto assoluto della metrica, del verso che deve contenere il malessere del dettato ma la serenità della forma. Infatti pagina dopo pagina si snodano le terzine, le quartine, i distici, i settenari con una misura raffinata che ci fa intendere immediatamente che cosa c’è dietro le spalle di Anna Maria Curci, i suoi studi di germanista, la sua passione di traduttrice, il culto della poesia. E grazie al culto ella è entrata con efficacia in un’atmosfera così intensa di percezioni e di emozioni che le permette di trattare disinvoltamente qualsiasi argomento estraendone l’essenza. Anna Maria adopera la misura espressiva come arma per evitare scantonamenti, ma quel che dice è spesso irriverente, sarcastico, perfino umoristico e non perché si diverta a farci ridere, ma perché la realtà le si presenta spesso nei lati più assurdi e anche crudeli: “Nottetempo il principio di realtà / ha preso a schiaffi il vecchio desiderio. / Il malmenato, a schiena contrapposta, / ha bofonchiato: non sporgo rinuncia”. C’è qualcosa di Marziale, in quest’opera, il rasoio affilato di un’ironia che decompone le sfere del tempo e fa sbandare gli equilibri composti delle abitudini. Il tutto però con una grazia che è frutto di uno sguardo di tenerezza sul mondo o, come scrive Plinio Perilli, “Testo rigoroso ed esemplare… Testo magnifico-insolente e tenero, impietoso, ma come un medico senza frontiere, che cura insieme il corpo e l’anima, l’attimo e l’eterno, l’individuo e la Storia, il maiuscolo e il minuscolo, il virtuale ipotetico e l’incallita rimembranza da cui veniamo”. Difficile comunque trovare delle vere parentele con la poesia di Anna Maria Curci, forse Ingeborg Bachmann, che però ha una concezione più rigida del verso e della vita, e poi, che importa? Importa semmai godere l’ariosità con cui la nostra poetessa tesse le musiche interiori, il piglio gioioso e amaro che circola tra pagina e pagina come a voler scacciare la tentazione dell’operetta. Sono molti i nomi che Anna Maria ripropone dedicando loro momenti indimenticabili, da Isabella Morra, la poetessa lucana trucidata dai fratelli e dagli zii, a Celan, da Klee a Cristina Campo. Nomi scelti per ribadire il proprio stato culturale, per fare comprendere che la sua distillazione è lavoro certosino, appassionato, palpitante. Dunque un libro variegato e ricco, che accende molti lumi in chi legge, che fa riconciliare con la poesia finalmente senza belletti inutili e senza acrobazie da circo equestre.
               Dante Maffia

Fuori classe

A fatica trascino
le quattro carabattole più amate
case-motto da manto declassate
a ripari ambulanti.
A sostenere il mondo
per velleità prescelta ti condanni
d’abnegazione tu sciorini i panni
e sempre giri in tondo.
Non mi distoglie scherno
e quel pallore mio già m’innamora
l’idillio di natura non ristora
chi sceglie l’auto-inferno.
Anna Maria Curci

Alessandro Spadiliero recensisce l’ultimo libro di Renzo Favaron, “Balada incivie, tartufu e arlechini”.

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baladaincivie aggiornata e validalogo ARCOLAIO

 

 

 

Balada incivie, tartufi e arlechini

di RenzoFavaron
112 pagine – anno 2015 –

12 euro – L’Arcolaio

RECENSIONE DI ALESSANDRO SPADILIERO, APPARSA SU L’OSSERVATORE 39

«Epur no’ son vecio: solo / o no’ son cressuo o no’ son mai vissuo / al de là del circolo che cô lo se bate / el me parla in diaeto / o no ‘l me parla par gnente»: questi versi esemplificano con chiarezza la natura dell’io lirico che si racconta attraverso le pagine di Balada incivie, tartufi e arlechini, l’ultima raccolta poetica di Renzo Favaron, nonché la sua pressoché totale identificazione con la lingua dialettale, il cui impiego, rafforzato da quasi trent’anni di scrittura, più che una scelta deliberata, viene presentato al lettore come una necessità, un assecondare il processo di pensiero più spontaneo. L’io lirico, innanzitutto: grande protagonista di questa silloge, che impregna di autobiografismo anche i testi a tematica politica e sociale, i quali, a loro volta, s’infiammano di un’incisività e di una violenza altrimenti impensabili, se la voce dell’autore non li fondasse sulle memorie ancora brucianti del proprio vissuto. Se è il poeta stesso a dichiarare di non essere ancora vecchio, tuttavia tale affermazione assume, all’attenzione di chi legge, un valore puramente anagrafico, poiché l’io presente nei versi non ha timore di palesare caratteristiche riconducibili all’archetipo del senex ovvero di chi ormai ha superato quel punto della vita dopo il quale si tende a guardare più indietro, che avanti, e a fare i conti con le proprie nostalgie, sconfitte, disillusioni. Tali tematiche emergono con dolorosa franchezza soprattutto nella prima sezione, Altre conparse e ultime presenze, in cui già la chiusa del primo componimento («Se sento e se penso / el senso pì ciaro / xe cô brusa l’incenso») adombra immagini funebri e il ben poco confortante sospetto che soltanto alla morte spetti il compito di chiarire il senso ultimo dell’esistenza. Si susseguono poi ricordi di vita, parole rivolte a persone perdute, amare e disincantate riflessioni sulla contemporaneità che, seppur accusata di alienazione e insensatezza, non viene mai utilizzata come attenuante per non guardare in faccia il proprio presente personale, colmo di stanchezza e di tedio nei confronti di coloro a cui basta «dire / ‘na paroa solo pa’ contentare, / ma che no’ sarìa mia». A tutto questo il poeta preferisce il ronzare monotono e irritante di una «tachènte e odiosa mosca», privo di qualsiasi significato, ma ormai unico suono che ancora può addolcire il lento avanzare di una sorta di paralisi emotiva, interiore, fragile rifugio per chi, avendo compreso che tutte «le robe de la vita […] no’ dura / e se perde, in fumo e senare, / anca a voerle tegnere da conto», ha infine riconosciuto l’ineluttabile condizione di ogni essere umano, la solitudine («e davanti a lo specio speto che passa l’ora in cui no’ son / ch’el rosso vivo dea sigareta: / batisuòsola de tute le robe che no’ ghe xe pì / a ogni respiro»). Ogni sforzo di «trovare o provare / on arzhene al calvario» è «cionpo», e il poeta non può fare altro che continuare ad avanzare in questa esistenza di «bestia che se inbalsama da sola», soffrendo, certamente, ma anche con una seppur debole consapevolezza della propria dignità, della propria innocenza di fronte al dolore del mondo e, più ancora, all’insensata crudeltà umana: concetti, questi, che il loro corrispettivo metaforico nelle frequenti immagini bibliche ed evangeliche, come il capro espiatorio in El cavaron, o l’«agnein smarìo» in Passejando tra albei e faghère.
Nella seconda parte della raccolta la nostalgia e la tristezza cedono il posto all’indignazione e a una dolorosa rabbia, a cui corrisponde, dal punto di vista formale, la scelta del poemetto, la cui lunghezza e la maggiore possibilità di articolazione sintattica danno sfogo a una feroce invettiva contro il teatrino da incubo in cui si è trasformata la nostra società, infestata di tragicomiche maschere vittime della propria mediocrità e megalomania, nient’altro che «furboni furbi in tramaci», ciecamente seguaci di un’ipocrita religiosità e del più bieco e spietato arrivismo sociale, contro cui il poeta può opporre soltanto un inascoltato grido di invocazione: «Povara Italia / come gheto fato a lassarte inpenire la panzha / e ‘ncora de pì svodare la testa? / Ciapate el tenpo se no’ xe massa tardi.» Forte elemento di coesione e di trasmissione di significato all’interno della raccolta è la dimensione linguistica dei testi, ovvero l’impiego di quel dialetto che, come è già stato più volte rilevato nelle pubblicazioni precedenti, non è quello di una città precisa o di una particolare zona geografica, bensì una lingua “mista”, che accoglie varie particolarità e inflessioni, e che quindi coinvolge più l’universo intimo dell’autore, che non l’idioma effettivamente parlato. Il dialetto di Favaron è una lingua viva e innovatrice, è una scelta etica, è uno scavo nelle cose della quotidianità, che l’idioma stesso non cessa di interrogare fino ad averne svelato la loro essenza, l’autentica relazione instauratasi fra loro e lo sguardo dell’autore. È una lingua che, piantando le proprie radici nella spontaneità e nell’onestà intellettuale del poeta, riesce a tradurre sulla pagina i più intimi e delicati tormenti e, allo stesso tempo, a trasformare la rabbia e l’indignazione in una corrente che trascina il lettore via con sé, fino a costringerlo a guardare dritto negli occhi le ingiustizie e le brutture che l’autore vuole denunciare, e il cui scarto con la lingua standard si può facilmente comprendere grazie alla scelta grafica di far seguire la traduzione in italiano delle poesie non, come per tradizione, “a fianco”, ma nella pagina seguente, trattandola così come un testo in sé autonomo.
ALESSANDRO SPADILIEROL’OSSERVATORE 39 – GIORNALE LETTERARIO INDIPENDENTE

Marco Malvestio, sulla rivista on line “Carteggi letterari” parla del libro di Damiano Sinfonico, “Storie”.

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MARCO MALVESTIO, sul blog “carteggi letterari” recensisce il libro d’esordio del nostro

DAMIANO SINFONICO,
“STORIE”

 

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L’esordio di Damiano Sinfonico, Storie (L’arcolaio, 2015) è un libro coeso e coerente. Si vede bene che il lavoro dell’autore non si è fermato ai singoli testi, ma ha investito anche l’architettura complessiva. Si vede anche, in filigrana, il lavoro di autoselezione che sta alle spalle di questo volume, di nuovo non solo a livello complessivo (perché il libro è brevissimo, essenziale), ma anche e soprattutto a livello testuale.
Infatti, benché si tratti sempre di poesie di natura aneddotica, narrativa, quello che piace delle liriche di Sinfonico è la gestione dei silenzi, di quello che non viene detto: l’uso costante del verso-frase crea una pausa tra verso e verso intorno alla quale si costruisce il vero senso delle poesie. Alla sensazione di rarefazione che questo ritmo a ondate crea contribuisce anche l’equilibrio molto ricercato tra prima persona e dettagli oggettuali, che impedisce alle poesie di scivolare nel bozzettistico o nello sfogo e le trasforma al contrario in versi fatti soprattutto di atmosfere.
Così come nella fluidità del ritmo spiccano i pochi ma brillanti versi tradizionali, come il bell’endecasillabo che chiude la raccolta (“In te c’è un altro secolo di vita”), la lingua di Sinfonico è pulita, ordinaria, povera di tensioni e di metafore, il che rende ancora più lucide le poche utilizzate. È quello che accade in una delle migliori poesie della raccolta:

fuochi d’artificio, notte in bianco, colazione sulla spiaggia
i sacchetti vuoti, le bottiglie addormentate e il sale ovunque
poi le scarpe inumidite, uno strato di ghiaia sui piedi
siamo lontani come due bordi di un cucchiaio

È un libro,  in cui, per paesaggi malinconici e surreali, si respira una bella aria, nitida e rinfrescante; un libro in cui Damiano Sinfonico ha il coraggio di cercare una misura onesta per la propria voce.
                                                                                                                                              

Marco Malvestio

Federico Asborno riflette sul primo libro di Alessandro Mantovani, “Poesie dopo la festa”.

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Impressioni dalla lettura di «Poesie dopo la festa»
di Alessandro Mantovani

Articolo di Federico Asborno, direttore di sezione per la rivista culturale Fischi di Carta

poesiedopolafesta

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Questa raccolta parte dai “rimasugli”, dai ritorni sbronzi da quelle feste che stanno nel titolo, ma che ci vengono praticamente solo accennate, da cui siamo messi ai confini: in limine. E liminare è anche la poesia di Mantovani, che si preoccupa di raccogliere quei rottami, quei cocci di umanità dispersi lungo il biancore delle spiagge che si susseguono, quasi fossero in realtà un’unica striscia di confine che separa il poeta dai suoi bersagli. Un mare che è denso di insicurezze, ma un mare che è casa (per un genovese più che mai). Sì perché il senso è ambivalente e spesso contradditorio, ma proprio per questo valido: non una asfittica ricerca del Vero, ma un’umana, umanissima disamina di quei motivi e quelle immagini, ma anche dei suoni e dei tormenti che hanno reso il poeta uomo e viceversa, in una fatale compenetrazione senza soluzione di continuità.
In mezzo a qualche bizantinismo formale c’è tutta la materica asprezza corrugata della Liguria, che si intravvede in filigrana nelle Lettere portoghesi e che sa di agrumi e acciughe marinate; c’è un oceano un po’ Titano, un po’ padre amorevole che si stende, imperturbabile come il bove che rumina le sue domande. Un bove tremendamente adolescenziale e dagli occhi puerili, che giace sulle rive di un fiume che è la vita; c’è l’acqua che fluisce prepotentemente tra le falde di ogni componimento e innerva e rivitalizza le radici di quei trucioli e rottami che Mantovani raccoglie e a cui restituisce senso di esistere.
Un’altra immagine che va e fluisce è quella del movimento che apre la raccolta e accompagna il poeta nella sua raccolta di sostantivi per oggettivare le sue realtà molteplici. Ci sono Genova e Bologna, Portogallo e Sicilia, strade selciate e monumenti senza nome che si rimpallano domande e paure inconfessabili, strozzate dalle sbronze nelle mille e mille e osterie con i bicchieri appesi.
In fondo a tutto questo c’è un senso di ritorno, come se il viaggio avesse scavato profondamente sottopelle e incida anche sulla voglia di tornare, la voglia di casa, anche di chi casa non sa dove sia.
E allora ci si trova consapevoli, in fondo a tutto questo “meriggiare pallido e assorto”, a questo montaliano portrait, che casa è in fondo ad ogni sera arrossata, ad ogni notte di miele, ad ogni rotta ancora da sondare: casa è dove sta il piacere di continuare ad esistere, dove si trovano quei rimasugli di umanità che ci sottraggono dal dolore e dal dubbio. Casa è sempre dietro la linea dell’orizzonte.

Luca Minola recensisce “Il tempo che si forma”l’esordio editoriale di Luca Lanfredi.

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Luca Minola, su Golden Blog, recensisce il libro di esordio

di Luca Lanfredi,

“Il tempo che si forma”

iltempochesiforma tre

 

Luca Lanfredi, ha lavorato in questi anni alla sua prima e, per ora unica, raccolta di poesia. “Il tempo che si forma” non è solo un libro ma è la vera e propria costruzione di un luogo interiore. Uno spazio di parole. Pubblicato per le edizioni “L’Arcolaio” dell’editore Gianfranco Fabbri, sempre attento alle novità poetiche interessanti, è arricchito dalla prefazione di Giacomo Cerrai. Quello che conta di più in poesia è il tempo, non esiste altro: nel tempo si formano le parole, nel tempo si distillano le parti che è giusto che emergano, “la miglior sintesi”. In poesia la cosa più sbagliata è la fretta. La tempistica moderna del “tutto e subito” non può valere per la poesia. Lanfredi ha fatto esattamente questo, ha aspettato il momento migliore e l’esigenza vera di pubblicare. Lo spazio improvviso che scaturisce da questo libro è un episodio di notevole pregio. Ogni elemento del quotidiano viene irradiato di propositi e di luce in un’immersione di chiarezza. La poesia di Lanfredi è avvolgente e lucida: trascrive un vivere di esigenze e d’immediatezza che scatta nella vertigine: “Succede./ Che del resto è pura vita/ anche morire./ E ci si incontra quando la pioggia/ sfila, accanto. E che si/ corre all’infinire”. Tutto il vissuto si ripercuote in noi, passa dentro. Le poesie in questione parlano attraverso frammenti di “notizie” e “fatti”. Ogni cosa nelle poesie di Lanfredi raggiunge se stessa e si doppia nella solitudine di ogni avvenimento, di ogni progetto umano senza risoluzione: “ Poi, vedi, al termine,/ c’è sempre un tragitto/ che ci accompagna./ La notte sono i tuoi cenni,/ il tempo della non infanzia,/ il sostenere obliquo della frase./ Gli eroi non sono più-/ i vertici ci scagionano”. Tecnica e arte sono senza progetti, esistono nella loro incertezza. L’inevitabile è che la vita è una e come la poesia pretende una schiavitù a se stessa irripetibile. Bisogna vincere ogni timore, non accontentarsi di un semplice “apparire”, la poesia pretende di più. Luca Lanfredi stesso pretende di più. “Il tempo che si forma” è un’opera vera, bisogna passarci attraverso, rendersi coscienti dell’inevitabile sorpresa che produce. Nessuno può accontentarsi, bisogna saper leggere anche fra le righe, oltre le parole che sono già sintesi di altro, per produrre una propria reazione a ogni lavoro che porta con sé l’energia della parola, in questo caso la poesia di Lanfredi:“ Sarebbe come accontentarsi/ dei riassunti, dici”.

LUCA MINOLA

Iniziamo le presentazioni approfondite dei poeti usciti alla fine del 2015. Luca Lanfredi, “Il tempo che si forma”, collana “I germogli”, prefazione di Giacomo Cerrai.

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iltempochesiforma tre

Proponiamo alcuni testi dell’autore bresciano Luca Lanfredi, che esordisce nel mondo della Poesia con questo suo “Il tempo che si forma”. Proporremo, oltre alla prefazione dell’ottimo Giacomo Cerrai, anche alcuni testi del libro.

A tutti gli amici della nostra casa editrice, auguriamo una piacevole lettura.

Prefazione di Giacomo Cerrai:

Come dissi a Lanfredi la prima volta che entrammo in contatto, io ignoro se il tempo si formi (ci sono svariate e opposte opinioni al riguardo), se sia ciclico o lineare, non so nemmeno, con Agostino di Ippona, che cosa sia davvero, sebbene poi il santo qualche convinzione in proposito l’avesse. Quel che sappiamo è che in poesia il tempo è uno dei tòpoi più ineludibili, e che soprattutto c’è, sta lì da qualche parte anche se non lo nomini, lasciandosi dietro un po’ di scorie, di accidenti e di casualità, e non si lascia misurare se non in termini di istanti.
Mi pare di poter affermare che quella di Lanfredi sia, in effetti, una poesia dell’istante. Non solo per la concisione dei testi ma anche per l’estrema sintesi dell’espressione, quasi una riservatezza del dire o, meglio ancora, un senso di inadeguatezza del linguaggio nei confronti di questo dire, come uno iato tra il cuore e la favella che almeno una volta abbiamo provato tutti, o una supposta mancanza di definizione, per dirla in termini fotografici, a cui la poesia cerca di sopperire o si arrende.
Il testo tipico di Lanfredi è un istante prolungato, un momento in cui qualcosa si realizza in una sua fugace compiutezza, un frame, come guardare fuori attraverso una finestra in giornate uggiose, uno sguardo non tanto su oggetti, su una realtà non sempre materiale (sono rari o indefiniti i luoghi fisici) o su un ambiente in cui la vita agisce le sue dinamiche, quanto su un pensiero, una luce, una improvvisa e temporanea lacerazione di un velo di Maya. Nella loro brevità, che appare essere del tutto funzionale e organica al pensiero dell’autore, le poesie di Lanfredi suggeriscono da un lato la parziale visione dell’esistenza che ci è dato di vivere, la nostra impossibilità di vederci nella nostra totalità, dall’altro la vaghezza autotelica anche di quel poco che riusciamo a vedere. In altre parole una schermaglia dialettica elusione/elisione tra realtà sfuggente e scrittura. Tuttavia la poesia di Lanfredi non è rapsodica poiché non svaria tra le occasioni, al contrario segue un suo filo di pensiero, una necessità di speculazione del piccolo per individuare il significato di qualcosa di più grande. Soprattutto sul versante emotivo della vita, nel trascorrere di un tempo che, essendo come abbiamo detto istantaneo, si realizza per lo più in un quotidiano che Lanfredi dipinge bene e con pochi tratti nel suo inflessibile riproporsi, nel suo “defluire scostante e senza tempo”. Quel che c’è di “occasionale” assomiglia appunto ad uno sguardo che sfiora le cose per poi sfocare e perdersi verso un orizzonte interiore. Si passa ad esempio nel testo dall’osservazione della pioggia ad una sete dell’anima, all’assenza di qualcosa o qualcuno; o addirittura assomiglia a ciò che potremmo chiamare un ” pensiero di pensieri”, cioè un’idea, un’intuizione che rimanda subito ad una piccola realizzazione epifanica, una impressione (usando qui un altro termine fotografico, e del resto anche l’autore in un punto parla di “istantanee rubate”). E quasi sempre si segna un passaggio (o una fuga, se preferite) tra una realtà fisica ed quella interiore, non necessariamente una migliore dell’altra ma che, ammettiamolo, ci trova partecipi come lettori. Tutti, in altre parole, abbiamo sperimentato questo disperdersi, questa perdita di contatto, al seguito di una mente che aspira a riscrivere una realtà corriva.
Tutti questi passaggi sono veloci poiché, come abbiamo detto, la brevità di 10-12 versi liberi e asciutti è la forma della poesia di Lanfredi, il suo farsi e il suo perimetro, la sua prassi e il suo stile, entro i quali mette in scena un linguaggio “moderato”, per molti versi comune, che da questo punto di vista potremmo definire “sociale”, perché economico, efficiente e non esclusivo nei confronti di chi legge. Giacché io credo che Lanfredi abbia una convinzione riguardo alla lingua poetica, e cioè che sia strumento – di evocazione più che di sperimentazione – abbastanza potente anche per quel che di vago, impercettibile e sfuggente c’è nella nostra vita.
L’indefinito, o magari l’indefinibile, è infatti l’altra cifra della poetica di questo libro e forse uno dei suoi temi di fondo. E’ quello che mi pare di percepire scorrendolo: leggendo ci si accorge che è una poesia, questa di Lanfredi, che lascia sospese molte domande (dove, chi, cosa, quale,…) come se ci si trovasse nel mezzo di una azione scenica già iniziata o gettassimo lo sguardo in un appartamento da un treno in corsa. Siamo spettatori di una apparizione, non meno di quanto lo sia il poeta, che è il primo a denunciare (in sarebbe come accontentarsi) che “questa vita, poi, […] appare / e disappare con uno svaporìo / di indizi”, una vita a sua volta disciolta in un fluidissimo tem-po/spazio “nel giorno che potrebbe essere dovunque” (in con un tratto di linea i punti). A volte si avvertono, come al di là di una porta, frammenti di conversazioni con qualcuno (dici, avevi detto,…), spesso senza replica di chi (l’autore) ne registra gli effetti come cerchi concentrici alle sponde di uno stagno (in i vetri, nella sezione La pronuncia del nome), brani che il lettore è chiamato a ricomporre idealmente; altre volte, come per proustiane intermittenze, cose minute (uno “slabbrato sentimento dell’istante”, un “afferrare le chiacchiere frantumate”, un “segno chiuso”) precipitano nel giro di pochi versi in una domanda capitale: “Che cosa fare-mo, quando non saremo?” (in il narrare del nostro fluire), oppure verso una conclusione apodittica e sconfortata, un ribadito “Tutto qua” (in ultime notizie; e un altro testo, qua e alle pagine seguenti, esordisce con un identico “Tutto qui”).
E’ questo palesarsi, in sostanza, che attesta una realtà vissuta in maniera inquieta, proprio perché può essere còlta (e questo è un tratto di molta poesia attuale) solo per sintomi, più che per cause e radici. Anche la catastrofe, e quindi il dramma, in ragione di quel che c’è di “eventuale” nell’orizzonte poetico di Lanfredi, può essere insieme istantanea e minuta: “quante volte, la morte è poco più / che un passo non guardato?” magari nascosta dietro “solamente un gioco di parole”, si domanda il poeta (in lettera aperta). La scena è quella di una topografia incerta, anzi “insicura” dice l’autore, quasi metafisica e insieme ermetico/crepuscolare (ma è poco importante definirne gli ambiti letterari), nella quale, in una sua “crespa”, le parole (o la loro mancanza) sconfinano e precipitano, mentre l’agire si invischia (“piace l’eterna indecisione della azioni”, in inventario di una fine estate); o quella di “una stanza vuota (che) non si può dire vuota ma piena di niente” (in qua e alle pagine seguenti), ma che tuttavia vuota non è, anzi, per le ragioni che la poesia deve darsi, vuota non può essere.
Qui, insieme al poeta siamo anche noi, colpiti come mosche da questi segnali intermittenti e affascinanti, da questi istanti significativi; qui, in questa stanza come mosche “trattenuti, come da un bicchiere capovolto”.

——–

Alcuni testi tratti da “Il tempo che si forma”

dalla sezione “Trovare tutto”

(ogni tanto cambiano le immagini)

Ogni tanto cambiano le immagini:
è un defluire scostante e senza tempo
come di chiodi che ci sono
appartenuti.
E – vedi? – ci meravigliano le pietre
e le parole, i nostri
corpi negli occhiali, il fiotto scuro,
le pareti, le strade
gettate alla rinfusa
sopra i letti.

**

(l’ottavo mese dell’anno)

Giocavano a pétanque sotto il sole.
Ricordo questo, quando mi venne dato conto
dell’assenza.
Era un borgo non grande, ma con la ghiaia
aperta perché le bocce potessero brillare.
Allora,
misi tutto il mio gesto in quella busta.

dalla sezione “Lo spazio geografico”

(il segno)

Ho adoperato una tua fotografia
per redimere i miei peccati.
Che: dacci oggi il nostro pane, diceva:
dacci oggi (ancora) la voce che indossammo
allora.

Dell’immagine ho unicamente il segno:
lo sciacquarsi attento delle labbra,
il diligente colare d’una vita
dall’ombrinale dentro la murata.

**

(il narrare del nostro fluire)

Mi piacciono le iniziali minuscole del nome,
sfrangiare i libri dal ripiano: il balenìo del primo,
senza che gli altri franino, e dopo
lo slabbrato sentimento dell’istante,
il parlare in sottrazione, l’afferrare
le chiacchierate frantumate
dei passanti.
«Che cosa faremo, quando non saremo?»

____

dalla sezione “La vita adulta”

(la vita adulta)

Questo è ciò che non si è detto.
E ancora adesso io, che accosto il tuo ricordo
ad una corsa. Noi, che non ci muovemmo
di un secondo.

Vedi, poi: la sabbia, l’ombra – il
cane che inveisce contro quella.
Un mare corto, lì vicino: un giallo
nastro che rincorre l’amarezza di tutti
i tuoi capelli.

Nel porgere dei polsi, le parole.

**

(sarà il leggerti in un’altra lingua)

Ecco, è questo: del piano d’asfalto
reso lucido dall’acqua, e dell’andarsene.
(la voce dal telefono che non domanda,
ma che precede il nome)
Uno spingersi continuo dei frammenti;
un cielo di un calore irrisolto.
Poi cercherò di te,
oltre la nudità del gesto.

_____

dalla sezione “La pronuncia del nome”

(stand-by)

Le conferenze dei nostri morti;
il silenzio esploso di ogni giorno.
La scena chiusa, come l’amore rovistato
e perso. La tua memoria, tatuata e
intatta. Che sopra uno dei palmi c’era scritto
del mio rovescio, io,
non ne ho bisogno.

——

(passaggio)                     a G.

Infine, trovi ciò che cerchi.
Un cammino sopra un muro in mezzo ai
tuoni, il buio. Ecco:
ho sbozzato la tua bocca, i tuoi capelli,
la disciolta sorpresa dei tuoi gesti.

Come l’inseguimento di un ritratto
che abbia la stessa notte, dentro.
Un passo falso, il mio non domandare,
la luce di quegli occhi, il lento
cullarsi sino a quando
non avrebbe avuto più nessun valore
niente.

_____

dalla sezione “Registro personale”

(continua la lettura)

Per iniziare: la città sul ventre e
quel testo, poi, che avremmo interpretato
insieme sulla gente che un’altra volta
ci coglie alla sprovvista.
Le nascite, le morti, le cose che
ci sono sopraggiunte.
L’anagramma nel quale ti scomponi, ora,
ed un versare di biografie concentriche.

Oggi tocca a Roberto Zaccaria, il cui libro è uscito il 30 dicembre scorso: il titolo, “Cielo di metallo” si avvale di una foto di copertina di Carlo Fabbri.

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Si conclude così la minima presentazione dei libri usciti il 30 dicembre 2015. Oggi è la volta di un autore romagnolo, provincia di Ravenna – per l’esattezza, Russi-. Il giovane poeta è alla sua seconda esperienza editoriale. In questa occasione si avvale della presentazione di Antonella Jacoli.

Ecco la copertina, piuttosto bella, a mio avviso, curata da Carlo Fabbri.

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