TELEGRAFICAMENTE…
PRESENTAZIONE E LETTURE ALLA VECCHIA STAZIONE
MIRO CORTINI AUGURAZIONE
L’ ARCOLAIO DI Gianfranco Fabbri
Via Monte Santo 22 Forlì
Orario: 18.30
Giorno: 10 Novembre, giovedì
Nella vita non si finisce mai di apprendere
novembre 9, 2016
novembre 9, 2016
Pubblicato da Gianfranco Fabbri · Adesso ·
UNA TRISTISSIMA NOTIZIA PER IL MONDO DELLA POESIA E DELLA LETTERATURA TUTTA: E’ MANCATO EMIDIO MONTINI NELLA SUA CITTA’, BRESCIA, DOPO UNA LUNGA MALATTIA. IL DOLORE CHE PROVIAMO, QUI IN ARCOLAIO, PARE INDICIBILE. AMICO PERSONALE SIN DAL 2008, EMIDIO HA PUBBLICATO CON QUESTA CASA EDITRICE BEN CINQUE LIBRI: “IL PANICO E LA GRAZIA” (2008), “UODISHALLO“, (2009), “LA MONETA A NOI DONATA” (2010), “PAROLA DI SCRIBA” (2011) E “NON UN GRIDO FRA LE PALME” (2013).
IL TITOLARE, GIANFRANCO FABBRI, PARTECIPERA’ AI FUNERALI CHE SI SVOLGERANNO GIOVEDI’ POMERIGGIO NELLA CITTA’ LOMBARDA. LE PIU’ VIVE CONDOGLIANZE RIVOLGIAMO ALLA MOGLIE CAMILLA.
EMIDIO, TI VOGLIAMO BENE. NON POTREMO MAI DIMENTICARTI!!! LA REDAZIONE DE L’ARCOLAIO E IL TITOLARE GIANFRANCO FABBRI.
novembre 5, 2016
Poesia e Prosa Lascia un commento
Torna in Arcolaio il poeta ravennate Luciano Benini Sforza con “La matita e il mare”. L’autore continua, con questo suo libro, la ricerca sopra un paesaggio-tema (la sua terra rivierasca e romagnola). Il suo appare come un mondo appartato dai rumori frenetici della metropoli. Il passato, le radici della famiglia e i piccoli riti umani. Appare così il molo, il canale che si butta sul mare, la trama dei vecchi, la campagna dei nonni e lo scandaglio sui caratteri psicologici dei suoi paesani. Un dettato lieve, costituito da attimi leggeri come piume di colomba.
Un libro da leggere, insomma!
Natura e identità nella poesia di Benini Sforza
di Gualtiero De Santi
«Le vent se lève ! … il faut tenter de vivre ! / L’air immense ouvre et referme mon livre. / La vague en poudre ose jaillir des rocs!». È, come si sa, il mannello di versi che avvia la strofa in explicit de Le cimetière marin di Paul Valéry, il quale però, in senso stretto, non vanterebbe un diretto dominio sulla poesia di Luciano Benini Sforza. Mentre all’incontrario le parti sopra citate, in quel loro muoversi tra vaghe suggestioni di onde e venti, ricordano esplicitamente una condizione esistenziale e un dato di vitalità evocanti un mondo in qualche parte similare a quello del poeta romagnolo. Così in effetti l’air ambiant marino e una percezione acutamente soggettiva sono le unità che vanno a stringersi in reciproco potenziamento ne La matita e il mare: ove si compie una ulteriore consapevole démarche verso una materia dello scrivere, certamente non estranea a Valéry (vedi il richiamo al libro aperto e richiuso) come al paulvalerismo europeo.
Ma, ripeto, Luciano Benini Sforza non ha letterariamente parlando una esplicita e riconoscibile afferenza alla poetica di Valéry; il suo ductus è libero e leggero, confidente (ecco l’ite-rarsi di “sai” rivolto al proprio interlocutore, cui si mostrano le cose ma al quale le si vuol far vedere nel loro connettersi), per nulla ermetico o ermetizzante. E tuttavia, per tornare alla “matita” ed al “mare”, e nel caso del poeta francese al “livre” e alla “vague”, e poi estensivamente alla bellezza e insieme alla fugacità di un paesaggio (l’universo intorno, in Benini Sforza) che è il proscenio e anche la metafora dell’esistere degli uomini, serve rammentare come la relazione mimetica che intercorre tra la finzione, dunque anche la poesia, e l’univer- so sia presente, e indagata innumerevoli volte, sin dai tempi di Platone ed Aristotele. Per cui la rappresentazione fornita dagli scrittori e dai poeti, ma egualmente dagli artisti figurativi e persino dagli scienziati, è la traduzione di una matrice originaria in un derivato che, come nel caso di Benini Sforza, può essere un’immagine sentimentale e congiuntamente mentale, che è forma e simulacro senza per questo scomodare la poesia pura e senza, come avviene nel nostro, che ci si voti ad essa.
Da questa attitudine per così dire universale e sovratemporale, ecco l’abbandono alle cose del “mare” e di ciò che gli sta vicino: il sentirsi onda, conchiglia, sabbia, cefalo; il volersi trasportati da un’acqua che si sa contigua al corpo dell’interlocutore e ad esso si riconduce. Tutto ciò in quel modo secondo cui quanto costituisce un punto fermo affiorante dal “mare” o dal nulla (le isole e le sponde lungo le quali va a allungarsi il respiro poetico) rinvia costantemente ad una identità. In primo luogo quella dell’autore («sono un insegnante con gli occhiali e ricordi o idee sulla fronte», Intorno) e poi delle persone conosciute da sempre: gli abitanti del paese, i propri alunni, i familiari nell’ultima toccante sezione della raccolta. (segue)
***
Sulle ginocchia
La terra che non scivola,
l’onda prima di ogni vento
è fra le tue mani,
è ferma sulle tue ginocchia.
E sei nel pensiero,
nell’attimo che si fa conca,
orma sulla spiaggia, vela in mare aperto.
Casa e stanza del mio cammino,
nel tuo vivere in me anche alla distanza,
anche da lontano.
Perché adesso sono conchiglia, corrente,
riva fra le tue ciglia.
Petalo arreso,
privo per te del suo stesso peso.
***
Più di una sera
Non so resistere più di una sera.
Non so resisterti, credimi,
se non all’apparenza delle parole,
dell’educazione messa alla vita vera.
Sono una preda in fondo a una valle
e tu un rapace in alto, in volo.
E più brucio
quando ti allontani o resto solo.
Nota
Questo testo è stato “scritto” in suo dipinto dal pittore R. Pagnani.
***
Il viaggio di Diego
In queste ore così lente,
queste onde immobili portano all’indietro
il cammino, i passi, i volti,
e monete o alghe brillano di nuovo
sotto i piedi. Emergono dall’acqua.
Ti vedo, Diego, sei tu che vieni avanti,
hai i capelli biondi e arruffati
anche senza vento, cammini
nella tua città in bilico. Trieste, amico mio.
Ti trovo adesso nella costa larga dei miei fogli
e sei un fiore di duna, un volo basso a riva,
lasci le tue vie, le tue pietre bianche
e risali così queste sabbie,
respiri, sei già qui davanti a me,
gioia, luce chiara
che buca per un momento il tempo…
***
E dunque, le relazioni che appunto si connotano tra il “mare” e le cose rinvengono un preciso corrispettivo in quelle tra il “mare” e la scrittura. Del resto, è l’estensione della finzione alla volta del mondo, il voler immergersi in esso, e insieme l’inseguire una poesia che ne sia espressione diretta, a sospingere al legame tra i due punti di vista, dove la parte della figurazione espressiva è fornita dalle parole e dalle figure abbozzate. La “matita” corre sul foglio e traccia versi e strofe, ma delinea anche immagini e spazi. La sensazione è stare per un attimo come dentro un foglio, all’interno di una cornice tanto quanto (per tornare al lemmario che accetta le sue spinte nel “mare”) in una bolla d’acqua.
«Sulle panchine sento, tocco la vita. E a volte la scrivo» (Sulle panchine). Una poesia racconta di una mattina in cui il personaggio rappresentato dice di aprire il giornale. E ad un tratto le lettere cominciano a ballargli di fronte; nomi ma anche cose, oggetti si confondono tra loro e, nuovamente con metafora marina, stendono reti sugli occhi. La familiarità con il “mare”, con la sua luce (veicolo della confidenza con le persone, del rapporto con gli altri, con l’altro), crea tra l’autore e la propria materia un rapporto di analogia profonda, che ha finito per scavarne e ovviamente arricchirne la personalità poetica.
Questo tipo di proiezione dello stato individuale sul paesaggio e più in generale su una condizione esistenziale non è dunque la sovrapposizione arbitraria di due universi semantici eterogenei, così per Luciano Benini Sforza “matita” e “mare” compongono un’endiadi. Ma la scrittura, procedendo attraverso la percezione dell’esterno, lascia trasparire una natura al di là della quale si risale alle vicende degli uomini. Sono un professore come tanti e non è cosa di scarso momento poter stare con gli altri. «Scrivere con te, amico, non è poco. / La penna si muove sullo spazio della pagina / e come un remo affonda nell’acqua / di qualcosa che non è andato via» (Non è poco).
Infine lo spettacolo della marina, persino l’illusione e il desiderio di felicità, di pienezza configurano un oggetto che non sta lì dove lo si potrebbe trovare a prima vista, nello spazio irrelato della natura, ma in ciò che in essa potrebbe evocare l’eidos, il nucleo di essenza che vive all’interno delle cose. Co- sì che l’occhio, la mente si ritrovano confusi in uno spazio emotivo e poetico, che trascende ogni linea convenzionale e ogni cliché.
Nondimeno il “mare” e i policromi, lirici crayons di Luciano Benini Sforza non disegnano un movimento a partire dal quale calarsi in profondità oscure e insondabili (come vuole la nostra tradizione occidentale a partire quantomeno da Baudelaire). La tendenza predominante è invece quella di u- na distesa in orizzontale – si rammenti il titolo di una raccolta antecedente, Nel fondo aperto degli occhi – sulla quale la scrittura traduce una propria gamma di sentimenti e di colorazioni esistenziali. E in questo risiede la peculiarità e insieme la viva spontaneità di questi versi.
Gualtiero De Santi
***
Notturno adriatico
Le stelle, vedi, sono luci
sull’orlo delle ciminiere,
faretti scesi lungo le fiancate
delle banchine, il lavoro notturno
degli operai. Mani,
occhi, rumori incessanti.
Ma quando fra le onde del canale
una nave punta lo spazio aperto
o una ventata di ali e grida piccole
imbianca l’acqua,
a volte sotto la cenere o la corrente
si accende un altro mare.
E prendi a una a una le parole,
le tue idee,
le metti in fila come semi nella terra,
come biglie una volta sulla spiaggia.
Sono le vele, le tue rive lunghe
lanciate, strappate ancora a questi giorni.
***
Zero
Ti ho incontrato che salivi
l’autobus piangendo,
alto quanto lo zaino.
Non so fare gli zeri, ripetevi
alla mano che dolce e stretta ti portava.
Un fuoco rosso di lacrime,
un fiume sulle tue guance.
Non preoccuparti, piccolo amico
di cui nemmeno so il nome.
Non preoccuparti, imparerai meglio di tanti.
Come e meglio dei grandi.
Sarai un amico prezioso, un fratello.
Un viaggiatore del mondo,
con o senza valigie.
E amerai senza ma o se.
Sarai così, te lo prometto. Curioso della vita,
del suo suono, a cui non potrai mai dire no.
Sono le otto e dieci, scendi,
la bora sta già calando,
va’ a spendere il tuo tempo, i tuoi pochi anni.
Non sarai uno zero,
ma solamente un uomo.
Nota
Le parole di Anna, Albero, Zero sono testi apparsi nel catalogo di M. Pipani, Arborea, Guaraldi, Rimini 2015.