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FRANCESCO SASSO RIFLETTE SU “SANTUARIO DEL TRANSITORIO” DI ALESSANDRO SALVI

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RETROGUARDIA 2.0– Il testo letterario
quaderno elettronico di critica letteraria a cura di Francesco Sasso e Giuseppe Panella

Alessandro Salvi, Santuario del transitorio, L’arcolaio, 2014, pp. 61, € 11,00
di Francesco Sasso
.
Santuario del Transitorio di Alessandro Salvi (1976, Pola- Croazia) è una raccolta poetica articolata in tre sezioni, la prima della quale dà il titolo alla raccolta, la seconda si intitola Madrigali eroici, la terza sezione è Ladro di Tamerici. È una raccolta di sonetti, madrigali, sestine in cui Salvi illustra il transitorio: «Io vi parlo da questa / inospitale zona del sentire»
Questi componimenti hanno, qua e là, spunti di felice intuizione paesaggistica, scatti di ebbrezza panica e squisite modulazioni di ritmo.

«La bianca quiete della neve innerva
nuova linfa all’inverno. Come pagine
– densi si formano ai nostri occhi – spazi
lisci e lividi contorni di fredda
impassibilità di sguardi. Gelido
il crepitare ovunque del silenzio.
Aspetto e osservo
la geometria impeccabile del gelo,
lo zelo del sidereo suo corteo:
algidi fiocchi di stupore nevicano.
Naufragò in alto mare e poi s’annegò il cielo.
Non una macchina, non un passante:
solo orme, immobili e precarie.
Bianchi gli istanti dove i passi luccicano
e le parole tacciono o raggelano» (pag.29).

L’insieme della raccolta dà al lettore la sensazione di un magma incandescente, sfuggito al controllo dell’artista. La poesia di Salvi è concepita come scavo psicologico che rifiuta le morbidezze e punta al vigore drammatico della rappresentazione, caricando le tinte esistenziali, poiché «Non cerco nulla se non un momento./ Non chiedo nulla a nessuno (silenzio)» (pag.36)
f.s.

Un nuovo autore entra in catalogo: è Andrea Labate con il suo “La resa del margine”, collana “Quaderni & Immagini”

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Sorgente: Un nuovo autore entra in catalogo: è Andrea Labate con il suo “La resa del margine”, collana “Quaderni & Immagini”

Un nuovo autore entra in catalogo: è Andrea Labate con il suo “La resa del margine”, collana “Quaderni & Immagini”

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Andrea Labate è nato a Sondrio, ma studia Lettere Moderne, ma vive e lavora a Milano.

Esordisce in Arcolaio nella bella collana diretta da Maurizio Bacchilega, “Quaderni & Immagini“.

Pubblichiamo, qui sotto, l’efficace prefazione di Davide Castiglione.

Un autore e un prefatore coetanei (classe 1987), molto giovani entrambi. Incoraggiamo questo luminoso avvenire della Letteratura italiana. Arcolaio si è sempre proposta questo compito: la mappatura della scrittura in formazione oggi, per le certezze di domani.

Come editore, auguro al nostro Andrea e al suo devoto critico un percorso felicissimo nel campo della poesia in Italia!

Auguri, ragazzi!!!

***

“Ci sono autori in cui il talento – per quanto non sempre affrancato dai modelli di cui si è nutrito – non può fare a meno di offrirsi alla lettura con naturalezza, quasi con grazia. Andrea Labate mi sembra essere tra questi. Me ne resi conto, e glielo scrissi, valutando un paio di anni fa per un concorso un mannello di suoi testi, e in seguito in una nota privata dove ne approfondivo tre che sarebbero confluiti in questa opera prima e già matura, La resa del margine.
Qual è il margine che si arrende o che viene reso, consegnato? È una zona periferica e simbolica dove avviene di continuo la transazione io-mondo, declinata talora come disponibilità all’altro (“c’è un vento leggero che ci avvicina”, Giù) talaltra come ferita e sconfitta. C’è certamente una faglia, una lacerazione dalle molte incarnazioni testuali – è lì che si situa il margine. Leggiamo infatti, fra altri esempi possibili, di un “muro di stagnola che separa i passi soffocati dalle metropolitane” (Vorrei fare un tentativo ma ho trovato un posto di lavoro), di un “confine” in Parallelismi e di “ferri a bisettrice nella pancia” in Preparazione: il margine si sta colmando; fino allo “sbrego” dell’ultima poesia (Sdì è un nome che non riesco a immaginare) che va “premuto con le dita, fino a satura-zione”.
Scrivere, del resto, è tessere (testo = textus, tessuto), cucire, curare: non è forse un caso che il testo d’apertura alluda a una malattia e a un malessere difficili da articolare:

La terra è sparsa sulle diagonali
racimola un contagio familiare.
L’aquila in cielo non spaventa le nuvole.

Fuori è un impatto d’afa, chiodano
il bronzo scaduto agli edifici fatiscenti
nel pomeriggio stanco che svapora.

Se ne va, l’alone tarantola le garze
il letto è scomodo, la morfina
fa il suo giro.

A conferma della riuscita del testo, è utile soffermarsi sul-l’ambivalenza di “contagio familiare” (contagio usuale, o relativo a un membro della famiglia?), sui correlativi oggettivi di un probabile malato (“edifici fatiscenti”, “pomeriggio stanco che svapora”), sull’anonimità del referente (chi è che “se ne va”?) o sulla violenza agentiva dell’alone che “tarantola le garze”, con scelta di verbo dinamico, espressionista. O ancora sul ritmo petroso e preciso dei versi, sul contrasto tra la solidità della struttura e l’opacità inquietante della scena allusa.
Tale procedere netto, dichiarativo, cui si accompagna un gusto per lo straniamento dell’immagine, è una costante del libro. L’istanza deformante, di matrice surrealista, è fortissima in questi versi, tratti da Una parete bianca:

Il cielo scalcinato smorza i miei disordini
mi mormora che la notte ghigliottina un’ombra spastica
tra il gozzo e lo stomaco
a brancolare fra noi due.

Qualcuno potrebbe forse tacciare questo passo (e altri nel libro) di barocchismo, di ricerca esasperata dell’effetto; pochi potrebbero però negarne l’energia disorientante. Nume tute-lare è qui il García Lorca di Poeta a New York, “assassinato dal cielo / fra le forme che vanno verso la serpe” o nella sua “allegria di ruote dentate e di fruste” (da Tutte le poesie, Garzanti, trad. di Carlo Bo). Al tempo stesso, Labate qua e là inietta dosi di registro informale e intimo (“a farsi fottere l’educazione”, “per oggi è okay”, “addio ma’”, “Mi scusi, mi scusi”), a controbilanciare la letterarietà, lo scarto del dettato in alto.
La resa del margine è perciò un’opera in cui convergono, fe-condamente, spinte opposte: titoli frasali che scherzosamente minano la serietà gnomica del dettato; sprezzature ciniche (“firma, hai le ferie pagate”) che trovano posto accanto a momenti di indifesa apertura confessionale, come nei versi qui sotto:

Qualcuno ama seguire le costellazioni
io quel pomeriggio ebbi paura
a non vedere intorno nessuna casa per chilometri.

Mi sembra utile avvicinarsi a La resa del margine come a un diario trasfigurato da una irriducibilità soggettiva e tenuto insieme dallo sforzo di uno sguardo oggettivo; una fusione di autobiografia e mediazione letteraria, un romanzo di formazione dal percorso accidentato in cui l’ottusità (del mondo, della realtà offesa dal “ristagno dell’industria”) viene assunta su di sé e al tempo stesso combattuta. Così la difficoltà della visione accennata in merito al primo testo si fa paradigma di una temperie generazionale ben nota: quella della precarietà (lavorativa, esistenziale) che pesa soprattutto sugli autori della generazione di Labate (e mia). Infatti, se leggiamo “un potere distruttivo ci fa chinare il volto” (Lei è stata più o meno un osso seppellito), restiamo impotenti di fronte all’impossibilità di caratterizzare tale potere distruttivo in alcun modo, dovendoci limitare a registrarne gli effetti (perversi) su di noi; non diversamente accade in quel “qualcosa non funziona” (Impressioni), dove il pronome indefinito non ha alcuna specificazione; e si potrebbe continuare.
Contro lo sfruttamento furbo e sottile della metropoli, non deve allora stupire la fiducia affidata agli elementi ancestrali, a un “anniversario della terra” (Frastuoni), alle pietre che “hanno karma” (Linee guida), al bellissimo finale – risonante di saggezza orientale – della poesia Ed essi si armonizzeranno se lasciati soli e non forzati nelle conformità. Oppure – poiché molte sono le vie della difesa – fidandosi del vitalismo inarticolato e potente di quella “forza oscura / che ti fa fare certe cose” (Tre movimenti e solitudini) scagliato contro le forze impersonali che la vita offendono. Istinto di vita che scatena la piena di versi di cui si è dato conto qui, e che – ci auguriamo – Labate continuerà ad assecondare, per sé e per i suoi lettori, in futuro.

Alcune poesie:

Lei è stata più o meno un osso seppellito
La pineta scarna indovina il suo mistero –
è preghiera che si continua a salmodiare.
Il campo militare ha le sembianze
di una cattiveria che spaventa i cancelli degli asili.
Non mi piace il filo spinato
spalmato sul mattino – lo sento in bocca mentre mastico.
Tu eri mastodontica sui tetti di Livorno
mi spiegavi la pulizia del vento –
la sera che andammo a prender freddo
addosso ai muri che portavano il tuo nome.

Il ritmo qui è la dilatazione del tempo
nella pupilla che ti bevve nuda.
Tu ti facevi solitaria
svanivi come lo specchio che tradisce lo specchiato.

Là a sinistra ci sono i conigli che urlano nel plexiglas
ora mi racconti al compleanno cosa c’è di nuovo.
La beatitudine ha il peso della rabbia
una va qualificata.
Ma siamo abbastanza gentili con tutti?

Il tracciato delle nostre scelte
deborda dai polsi impediti, un potere distruttivo
ci fa chinare il volto.

**

Preparazione: il margine si sta colmando
Il conto alla rovescia
si riempiva in bocca – con i ferri
a bisettrice nella pancia
con il bisogno di essere scaldato.

L’aggredito sparisce gocciolando
l’istantanea gravità del globo.

Mostrati dolcemente nel silenzio.

Cerchi di assemblarti –
non violare le ombre della casa.

**

Tra un carro funebre e un carro bestiame
Tra la cima e il cielo
preferisco il sentiero delle mani
dove l’acqua divarica il silenzio

tra la cima e il cielo
preferisco dove risuona il luminoso
dove scommettere un ciao sconosciuto
fa riempire i crateri del tempo
– ma non si celebrò nessuna aggiunta piuttosto
un aggrovigliarsi di copertoni e fiato corti
nel modulare le cose incontrollabili.

Di come ti scrissi della vastità attorno
il remoto rimbomba dentro e crea legame.
Quest’anno il risveglio era previsto liscio
– la vestizione sacra
e insegnare al piccolo a riciclare la carta.

**

Una pietra ornamentale appartenente ai silicati
Il sole dura l’attimo di dirlo
rannicchiato dietro il rauco sporco delle sponde
l’argine è violato.
Nel fondo stazionano le occhiate
lei corrode per le vene smilze
come l’acqua leviga ogni resistenza
è immersa nei dipinti e volteggia su una balconata.

Con questa devo essere felice e attento.

– Fa freddissimo comunque
– Sì

Gabriele Gabbia, con l’opera prima “La terra franata dei nomi” è vincitore, ex aequo con Clery Celeste, del Premio Solstizio

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Il 4 Ottobre si è svolta, a Fondi (Lt), la premiazione del premio “Solstizio“, per quanto riguarda l’opera prima. La cerimonia si è svolta nel chiostro di San Domenico di Fondi, in provincia di Latina.

Il nostro Gabriele Gabbia, ex aequo con la poetessa forlivese Clery Celeste, è risultato vincitore di questa edizione 2015. L’opera presentata è “La terra franata dei nomi” pubblicata da L’arcolaio nella bella collana “I germogli“, diretta da Stelvio Di Spigno. Clery Celeste, invece, si è aggiudicata il bel risultato con il libro “La traccia delle vene“.

La giuria era composta da: Milo De Angelis (presidente), Davide Rondoni, Claudio Damiani e Francesco Iannone.

Ricordiamo che nella cinquina dei finalisti si era classificata anche la nostra Carmen Gallo con la sua opera prima “Paura degli occhi“, pubblicata da Arcolaio nella stessa collana ove è comparso il libro di Gabriele, I germogli.

pauradegliocchi

Tanti evviva per Gabriele Gabbia!!!

Ma assensi anche a Carmen Gallo!!!

Il vs editore Gianfranco Fabbri.

 

Leggiamo adesso la motivazione del premio destinato a Gabriele. La scheda critica è stata composta dal presidente del premio. Eccola:

La terra franata dei nomi è il libro del trauma, della frattura, del franamento in un luogo oscuro e minaccioso, dove ogni cosa è messa di fronte alla sua mortalità, alla fissintà inquieta di un nulla”. Ma è anche un libro tagliente ed esattissimo, capace di scrutare con una poderosa lente d’ingrandimento ogni dettaglio di questo canto: un canto, scrive Gabriele Gabbia “cui nessuno appartiene”. C’è un verso che definisce molto bene questo doppio tempo della poesia di Gabbia: “nel sangue delle sillabe”. Da un lato il sangue che sgorga letale e violento. Dall’altro la precisione di qualche lettera, lo scomporsi del linguaggio e della vita nella sua entità minima e solitaria: la sillaba. Il senso della morte e dei morti percorre tragicamente questo canto, questo nulla attraversato dalla parola: intreccio tra ciò che è vivo e ciò che è scomparso, simbiosi potente e inseparabile, identità di pieno e vuoto, solitudine abitata dalle presenze.

 

Io sarò voi –

i morti, tutti

noi, voi

dopo di me, quando

solo, soffierò

lo sguardo, da ciascuno

di voi tutti

su ognuno

di me.

 

Milo De Angelis, Premio Solstizio, Fondi, ottobre 2015