via GIUSI DRAGO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI VITTORIANO MASCIULLO: “DICEMBRE DALL’ALTO”.
GIUSI DRAGO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI VITTORIANO MASCIULLO: “DICEMBRE DALL’ALTO”.
aprile 29, 2020
GIUSI DRAGO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI VITTORIANO MASCIULLO: “DICEMBRE DALL’ALTO”.
aprile 29, 2020
Poesia e Prosa Lascia un commento
Giusi Drago RECENSISCE Dicembre dall’alto di Vittoriano Masciullo
articolo tratto da Perigeion
Dicembre dall’alto di Vittoriano Masciullo è un libro difficile e non fa sconti: chi legge deve conquistarsi una possibile comprensione lottando innanzitutto contro quel tracollo della lingua che l’autore vuole in prima istanza testimoniare. Masciullo infatti sceglie di sottoporre il linguaggio a una severa erosione, che si configura non solo come cedimento del comune terreno linguistico, ma anche come sana diffidenza nei confronti della singolarità della propria voce, tanto che le poesie sono continue “introiezioni” di parole altrui, riprese e montate in diverse sequenze. L’autore stesso chiama “campionamenti” questi prelievi, anzi queste assimilazioni, di materiali letterari o storici che si depositano nei versi manifestando una vitalità ben maggiore di quella di semplici citazioni.
La lingua si spezza, le reticenze dominano e l’ammutolimento interferisce agendo dall’interno, con un’opera di distruzione di ciò che è rassicurante o banalmente logico; in tal modo il movimento con il quale procede la scrittura subisce modificazioni ritmiche e sintattiche: ecco perché le poesie di Dicembre dall’alto si rivelano drammaticamente significative proprio nei loro smottamenti. Perciò il percorso all’interno del libro è labirintico e trasmette vertigini di diversa intensità; se ci si illude di aver trovato un itinerario comodamente percorribile, ben presto si viene smentiti, e non solo a causa del balenare e dell’accavallarsi di altri possibili percorsi e di altre voci, ma proprio per il franare del terreno tout-court. A volte – ci mette in guardia l’autore – a depistare sono “solo” i lapsus: non a caso il libro è cadenzato da catene associative e ricorsive, e sono proprio tali ritorni a rivelare l’impossibilità della fuga o i rischi del percorso.
meno romantica
di sempre l’inizio
della parte sbagliata
della vita che
smottamento che
imprevedibile cedimento
senza più cittadinanza
e diritto di ereditare
un’idea perfetta
una stanza che fa acqua
chiave e rifugio da trovare
filtri rappresentazioni
che sia freddo o sia vita
il catalogo è questo
buon viaggio
attento ai lapsus
Sembra tuttavia che l’autore stesso non voglia rassegnarsi a tracciare una sorta di “geroglifico dello smottamento” (che qui ha anche connotazioni politico-giuridiche “senza più cittadinanza / e diritto di ereditare”): chi è rinchiuso “in una stanza che fa acqua” è invitato a trovare qualcosa che sia “chiave e rifugio”; questi ultimi, tuttavia, si rivelano subito “filtri e rappresentazioni”. E’ proprio quest’acuto grado di consapevolezza dei meccanismi difensivi della mente e delle sue rimozioni – così come l’icasticità di certi sibilanti aut aut (“che sia freddo o sia vita”) – a rendere così persuasiva la poesia di Masciullo. Per inciso: il libro ne ha molti, di questi bivi a cui sembra impossibile fuggire e che spesso sfociano in una sorta di sentenza, sia pure provvisoria. La provvisorietà del sentenzioso sottolinea l’instabilità di ciò che si presume lapidario ed essenziale, anzi mette in discussione i presupposti di ogni lapidarietà, grazie ai quali la sentenza è solita condensare il pensiero. Nei versi di Masciullo la sentenza può infatti presentarsi – come nota nella sua acuta postfazione Cecilia Bello Minciacchi – «nella forma del rovesciamento, come “vincere la guerra perdere / la ritirata”, cui risponde, a distanza di qualche poesia, “perdere la guerra vincendo la ritirata”, inversione emblematica di un intero orizzonte morale».
Seleziono in modo un po’ rapsodico alcuni esempi in tal senso – a mia volta procedendo per “campionamenti”, cioè estraendo dalle poesie “campioni” che hanno il suggello della necessità. Li ho scelti non in base al semplice criterio della loro evidente forza, né perché – leggendo – ho sentito questi versi fischiarmi intorno come proiettili. Non si tratta di questo: la necessità di cui parlo è la stessa che ha spinto l’autore a compiere i suoi “furti”, laddove “necessario” è l’introiettamento, un ripetere, riprendere e trasformare parole d’altri, perché quelle parole – dopo averle udite – aleggiano nell’aria come fantasmi a cui dobbiamo in qualche modo rispondere.
Ecco un florilegio di campionamenti numerati da Dicembre dall’alto:
1)
succede che è andata e ne
rimane un diario di guerra
e a ciò che è dopo
il confine si portano fiori
Quando gli sviluppi dell’accadere sono tragici, la loro descrizione non può che essere un “diario di guerra”. Eppure dal laconico Masciullo non sapremo affatto di che conflitto si tratta, né quali siano le cause, tutto quel che la voce reticente del poeta ci lascia intendere è che c’è un “dopo”. Data l’abile spezzatura della versificazione, quel “dopo” è innanzitutto temporale: alla guerra succede un dopoguerra, ed è questo il tempo diaristico dei sopravvissuti, e forse della scrittura come pratica del “portare fiori”. Quel “dopo” tuttavia, al verso successivo, si rivela anche spaziale: dopo / il confine. Il confine come discrimine spazio-temporale, come separazione fra mondi, nazioni, interessi in conflitto.
Queste poesie che si presentano come un diario – in origine il titolo del libro era Annuario – sono in realtà estranee a ogni resoconto, perché Masciullo osserva la contemporaneità dall’alto, dal punto in cui culmina in inattualità, dal suo evolvere da nota in ignota: come rivela il titolo definitivo, l’anno è osservato da dicembre ed è soppesato a partire dal suo ultimo mese, laddove inizierà un nuovo anno, quando ormai è tempo di bilanci. Ebbene, pure nei suoi bilanci questa poesia si manifesta saggiamente elusiva e scettica, perché inaspettate saranno le conseguenze della guerra e anche le forze di resistenza suscitate. L’autore lo fa dire (in una poesia della prima sezione) a una voce altra, quella di un analista che si rivolge al suo paziente: “ma lasci che sia /un viaggio si fidi della / lei ha una grande / capacità di affrontare/ inaspettata dice /inaspettata”.
Sul tempo (sia esso il momento del crollo, dei bilanci o del dopoguerra) si proietta un’eclissi di terrore di fronte all’inatteso, ma sono evocate anche le forze per resistere, e non potrebbe essere altrimenti, dato che Masciullo tende a dissolvere le catene della causalità come a tratti dissolve, distorce e interrompe l’ordine sintattico della frase. Tutto ciò rivela anche una posizione filosofica – oltre che un atteggiamento di consapevolezza maturato all’interno di un percorso analitico – secondo la quale non può stabilirsi con certezza un ordine logico o cronologico fra parola e pensiero:
se vuoi succede
se non vuoi succede pure
la parola non succede al pensiero
e al pensiero non succede
il pensiero suo e viceversa
e comunque succede
2)
un coro parla di sintomi
invita a tralasciare
i sintomi di questa affezione
ad affondare nel futuro
E’ un libro intessuto di dualismi: qui passato e futuro sembrano scissi da uno iato quasi incolmabile, quello di un presente che produce “sintomi”. Un coro (come non pensare alla voce dolente dei cori tragici) ne parla, ma solo per invitare a tralasciarli e il dualismo fra passato e futuro si traduce in quello fra memoria e rimozione. Se ci liberassimo dei sintomi (quindi dell’anteriorità) affonderemmo finalmente nel futuro? Ecco che il futuro si configura come qualcosa di estraneo a noi (ai nostri sintomi ma anche alle nostre speranze), pur essendo una forza che sempre ci riguarda perché sempre precipita su di noi. E tutto questo lo testimonia al meglio l’allitterazione delle ff di “affezione” e “affondare”. In un’altra poesia Masciullo parla di “intraducibile futuro”, a sottolinearne l’estraneità e la paradossale non progettualità.
3)
alle parole ai dolori non serve un libro
che difenda e sbaragli la morte sbagliando
Anche qui sembra mancare una mite o zelante complementarità fra azione (quella del parlare, dello scrivere o del difendere) e passione (il soffrire, fino a quell’estremo del patire stesso che è il morire) oppure fra vita e scrittura. Per prima cosa occorre cercare di comprendere in che senso sbaragliare la morte sia un errore. Si potrebbe forse rovesciare la questione e chiedersi se al libro servano le parole e i dolori, o domandare di che cosa viva la scrittura e che rapporto abbia con la morte… La risposta cambierebbe? Senza parole e dolori niente libro, niente di niente? L’atteggiamento di Masciullo ricorda qui Duchamp e il regalo di nozze che l’artista fece a sua sorella Suzanne nel 1919: il dono consisteva nelle indicazioni per appendere sul balcone un libro di geometria in modo da esporlo alla pioggia, al sole e al vento. Il libro ruotando avrebbe creato uno spazio tridimensionale e prodotto suoni. Così scrive Duchamp: “Adesso la pioggia, il sole, la notte e le sue diverse lune potranno giocare con la geometria. E mentre il vento legge, il libro rimane vivo. Le pagine, assorbendo umidità, calore e tempo modificano i loro grafici e quello che era piano ora non lo è più. E, esattamente come gli altri ready-made, si espandono nelle tre dimensioni. In questa maniera, questo semplice artefatto si trasforma in un generatore di simboli e speculazioni, anche se alcuni personaggi non potranno che vederci null’altro che un libro appeso o un orinatoio” (in Calvin Tomkins, Duchamp: a biography, New York, 1996). Del resto, anche i campionamenti di Masciullo hanno in comune con gli oggetti di Duchamp la decontestualizzazione che conferisce loro nuovi significati e nuovi statuti d’esistenza.
In sintesi: persino il libro (oggetto inanimato) prende dalla terra, dal sole, dalla luna (cioè dal movimento di ciò che è vivo) le leggi che lo regolano. Lo scrittore argentino Bolaño descrive così il senso del lavoro di Duchamp: “Non è un esperimento, nel senso stretto del termine… è un’idea di Duchamp, lasciare un libro di geometria appeso alle intemperie, per vedere se impara quattro cose della vita reale”. Naturalmente è in gioco la possibilità di imparare dalla vita, cercando di stabilire se l’arte o la geometria imparino prima di insegnare. In Dicembre dall’alto questo tema emerge a più riprese ed è spesso accompagnato da una formula che Masciullo scandisce con molteplici ripetizioni: “a che serve”. Dato che spesso tale espressione è corredata da un verbo all’imperativo ripetuto due volte, il ritmo si fa ipnotico, simile a una litania dettata da urgenza: “salva però salva o a che serve” – “perdona perdona o a che serve” – “ma almeno proteggi proteggi /o a che serve se questa è la notte”.
E ancora:
e ridi
ridi altrimenti a che serve
a che è servito venire qui in
alto prendere la mira
far morire e poi
4)
fughe significati non voluti
tutto lanciato assieme nel duro inverno
Si tratta probabilmente di una dichiarazione di poetica: fuga dal fusionale, impossibilità di tale fuga che genera significati non voluti, proprio in quanto cerca di rimuovere ciò che è simbiotico, eppure il poeta non può liberarsi dalla consapevolezza che tutto è “lanciato insieme”, cioè gettato alla rinfusa, a casaccio, nell’indistinzione, e questa confusione – che è anche quella della polifonia di voci – è talmente grande da coinvolgere l’intera realtà: Borges parlava della prolissità del reale. A far da controcanto riesce forse la durezza dell’inverno, capace di sforbiciare spietatamente con i suoi rigori la suddetta prolissità e il caos che ne deriva.
5)
la pelle non è non ha
bisogno di chiodi parole
che suturino si è rivelato l’impensabile
Qui sembra esprimersi la rivolta di ciò che è fragile e più esposto contro le suture delle razionalizzazioni, cioè le risposte razionali date a questioni forse insolubili: “si è rivelato l’impensabile”: il linguaggio come tessuto connettivo e suturante composto di chiodi-parole non è necessario alla pelle o non può molto contro la violenza disgregatrice. Il topos della ferita e della possibile cicatrizzazione lo si trova anche nei versi che aprono la poesia, dominati da una logica disgiuntiva e ipotetica e da una tendenza del significante a procedere in autonomia (macchia – mare – male- malamacchia):
ma la ferita è nella benda
sulla carne non c’è piega
la macchia rossa è solo nella garza
il mare trapassa ma non sulla pelle
il male è nella benda
la malamacchia nel tessuto nell’ordito
6)
spegni la luce tutto trova la sua lingua
anche al buio parla trova tempo
cambia il tempo delle
cose cambia infinite cose
imparare la pace dai senza pace
tornare dai viaggi dai libri
Questi sono i versi iniziali di una poesia tratta dalla terza sezione del libro intitolata Nessuno spiega Chirone. Che cosa significa trovare la propria lingua anche al buio? Nei versi successivi la poesia suggerisce che memoria sia ricordare la sopravvivenza (legata alla nostra parte istintuale, quella più intima e segreta, laddove la lingua invece si pretende diurna, cioè capace di cogliere e dire il vero che risplende alla luce): “Ricorda la sopravvivenza dei cani”, o ancora: “o cosa è memoria / ovunque siate”.
Tornando al rapporto fra linguaggio e buio non si tratta qui del celaniano “dirsi l’oscuro” di due amanti, il quale a propria volta riprendeva il rapporto fra eros parola e buio istituito già da Platone nel Simposio. Nel discorso che Platone attribuisce a una delle maschere del dialogo, quella del poeta comico, Aristofane afferma che gli amanti ricercano la più stretta prossimità e non tollerano di separarsi non per semplice desiderio di contatto carnale, ma per amore di interezza, per ricostituire l’unità originaria perduta. Essendo inconsapevoli di questo loro profondo bisogno, non sanno esprimerlo a parole e parlano per enigmi: mai saprebbero spiegare che cosa vogliono l’uno dall’altro.
La strategia di Masciullo è diversa: egli invita a spegnere la luce e con questo gesto istituisce una sorta di collasso dell’appartenenza all’orizzonte di ciò che è visibile, incita ad abdicare a ciò che sta alla luce in favore di ciò che può essere udito anche al buio. Il principio che ogni cosa trova un suo linguaggio anche al buio è d’ordine temporale e non spaziale, è un principio di cambiamento, di metamorfosi, ma non da intendersi nel senso di un borghese e rassicurante adattamento: abbiamo visto, al contrario, che non predominano nell’universo linguistico del poeta ragionevolezza e adattamento, ci sono fughe, frantumazioni, significati non voluti e il tutto è lanciato e lasciato cadere nella stagione più dura, la meno espansiva. Inoltre l’autore sceglie di dire erodendo l’orizzonte del dicibile: non è un soggetto “razionale”, completo, diurno e padrone a casa propria quello che qui prende la parola, ma un essere ferito da esperienze luttuose: a questo io si adatta la formula di Bachmann “padrone di sé solo nelle tenebre”. Nel libro In cerca di frasi vere scrive Ingeborg Bachmann – autrice amata e “campionata” da Masciullo: “Ma la notte e da soli nascono i monologhi erratici che rimangono, perché l’uomo è un essere oscuro, è padrone di sé solo nelle tenebre e di giorno ritorna alla schiavitù”.
Che la padronanza di sé sia possibile solo nelle tenebre – chiarisce Giannina Longobardi in Chi cade ha ali. Una lettura di Ingeborg Bachmann in “Rivista on line della Comunità filosofica Diotima”) – è “affermazione paradossale da parte di un io assalito e tormentato da immagini orrorifiche, che accoglie la verità che in esse gradualmente si svela, dove la storia personale, di chi ha sperimentato la violenza su di sé, inerme, affidato, s’intreccia con la densità della storia collettiva, con il rinnovarsi, in un tempo senza fine, della guerra e della violenza. Padroni di sé nelle tenebre non perché in esse ci venga dato il potere di controllare la nostra esistenza o di salvaguardare la vita, ma padroni dell’unica padronanza possibile che è la vicinanza al vero. Schiavi nel giorno, perché nella luce ritorniamo nel mondo ordinario e ordinato, che pretende di essere l’unico mondo reale e possibile.” Per Masciullo, infatti, il sole è “vulnerabile”, sia perché appartiene a tutti e quindi “piace a tanti”, sia perché sta in rapporto dialettico con il cupio dissolvi:
il sole è vulnerabile piace a tanti ma pensa
muore ogni giorno e tu invece salva salva
credi al dissolversi
Se in Dicembre dall’alto l’orizzonte di senso si frantuma per erosione, se di fronte all’urto dell’emotività spesso l’autore sceglie l’interruzione e il silenzio, comprendiamo tuttavia che c’è un metodo nel suo mostrar rovine. Fa parte del “metodo” e della lucidità poetica, come abbiamo già visto, anche un ricorrere a procedure musicali di ripetizione, a sfasature nel ritmo, a interruzioni del motivo ripreso da un altro motivo concorrente. Proprio per questo il discorso è elusivo, e la figura retorica delle reticenza si mostra nel pieno del suo operare: spesso il non voler dire, il non poter finire mi sembrano testimoniare l’incoercibile bisogno di andare oltre, di superare come per incanto – a occhi chiusi, appunto – l’empasse, confidando che le parole trovino da sole la propria lingua anche al buio.
Un’ultima notazione per cercare di capire il temperamento o forse la temperie di questa poesia: essa è all’insegna del non possumus, di un rifiuto a collaborare allo scempio.
dice che il più grande pericolo corso è
che accettasse che rispondesse
sì lo voglio e dice ringrazi il no
il non possumus ringrazi la pioggia
Sulle profondità a cui si radica il non posso, Marina Cvetaeva nel 1919 scriveva in Indizi terrestri. Diario moscovita 1917-1919: “Il non posso è più sacro del non voglio […] Il mio “non posso” è meno di tutto impotenza. Non solo: è la mia principale potenza. Vuol dire che c’è in me qualcosa che malgrado tutto il mio volere (violenza su me stessa!) non vuole, ad onta di tutta la mia volente volontà, diretta contro me stessa. […] Che il mio non voglio sia un non posso: l’alto ed estremo non voglio di tutto l’essere. Vorremmo le cose più mostruose. Gambe, camminate! Mani, afferrate! – finché, all’ultimo minuto: le gambe impalate, l’accetta – giù dalle mani: non posso!”.
GIUSI DRAGO
***
Poesie
Succede che spazio si elimini
e sia tanto eppure
succede senza
avvisi alla gioia e
a qualunque cosa sia succede
alla tempesta e al bicchiere d’acqua
negli altri in quello che rimane
se rimane a tratti incerti succede
su pianerottoli anni dopo anni
così tanti anni che sembra
e succede agli sfinimenti
dove nessuno torna succede
al racconto alla ripetizione
del racconto e alla sua ripetizione
al sale rovesciato
succede che è andata e ne
rimane un diario di guerra
e a ciò che è dopo
il confine si portano fiori
se vuoi succede
se non vuoi succede pure
la parola non succede al pensiero
e al pensiero non succede
il pensiero suo e viceversa
e comunque
succede
***
e risponde a un richiamo non a
definisce sopravvivenza amore
parole tradotte da quali altri
capisco ora risponde non sapevo
anche a tuo padre anche a tua madre
non posso aiutarti risponde non
sto dritta affianco e
posture ortogonali devo
raggiungere prima di
e risponde non girarti cammina
che seguo fidati risponde
ma io sono senza e lontano
e accetto un patto
con una sola mia postilla
ogni tanto durante
manda un fischio una delicatezza
aggiunge caro a una dedica
stentata risponde poca
luce resta
per correre oggi
fidati
***
e suggerisce un percorso in un deserto
cosa gioca dietro questo
cristo invisibile
e non dica non dica mai non
racconti alla vittima
non scenda da questo sudario senza
dice che il più grande pericolo corso è
che accettasse che rispondesse
sì lo voglio e dice ringrazi il no
il non possumus ringrazi la pioggia
di san michele non l’eroina di san vitale non
è padrone a casa sua
ma lasci che sia
un viaggio si fidi della
lei ha una grande
capacità di affrontare
inaspettata dice
inaspettata
***
un coro parla di sintomi
invita a tralasciare
i sintomi di questa affezione
ad affondare nel futuro
spostare la testa rivolta
continua mente rivolta
ai passati prossimi alle
chiese in macerie
e parla
di suore orsoline
bandiere francesi in piazza
estati lunghissime baci senza lingua caldo
nel pomeriggio che acceca
torrette e trifore della cerchia
inferiore di bologna
salva però salva o a che serve
***
conta il tempo
anche nel ritardo
conta guardare lo stesso
alle briciole lasciate sul labbro
conta ogni resurrezione
senza bagagli arreso
a tutto l’improvviso
benessere di un sole venerdino
tra centinaia di guerrieri
splendidi soli e articolate difese
aperto il sacchetto di gioie
le gemme di questa tempesta
mi piacerebbe averti qui ogni tanto
a confonderti stremato da me ricorda
ricorda altrimenti
a che è servito aver scritto
prima di
***
bella è la parola
roma ad esempio
il giochino delle letture
al contrario gli anagrammi
oppure levigare una cicatrice una
anche molto bella la parola sposa
bella se la chiami amore scompare
quasi subito fosse una veronica
sposa la parola amore e l’odore delle rose
e valga il vero c’era un esclamativo finale
ma non c’è anima è noto la natura è indifferente
alle parole ai dolori non serve un libro
che difenda e sbaragli la morte sbagliando
***
spegni la luce tutto trova la sua lingua
anche al buio parla trova tempo
cambia il tempo delle
cose cambia infinite cose
imparare la pace dai senza pace
tornare dai viaggi dai libri
bisogna imparare altrimenti
dalle macerie di piazza dal
perdere la guerra vincendo la ritirata
anni e che parole ora dopo venti
(venti come niente) asettici
nel bere nel celare
opportune distanze ma
ricorda la sopravvivenza dei cani
il pericolo dall’alto (erano le parole di
francesca woodman o i superotto in sala
da pranzo le capriole sul prato
dicembre dall’alto) ricorda o
cosa infinisce ricordate come io
ricordo nel rizoma delle nostre
o cosa è memoria
ovunque siate
***
ma la ferita è nella benda
sulla carne non c’è piega
la macchia rossa è solo nella garza
il mare trapassa ma non sulla pelle
il male è nella benda
la malamacchia nel tessuto nell’ordito
la pelle non è non ha
bisogno di chiodi parole
che suturino si è rivelato l’impensabile
la bellezza non riconoscibile non esiste
e ora che l’abbiamo io e lei cosa ci
ricominciamo dal terzo sesso vuole
tra me e il sé c’è un abisso di coraggio
***
stia attento dice quella macchia
è garza sugli occhi per parole a salve
testimonianza di una ferita che fu
false fucilazioni di quando
(solo il rumore) ammonimento
incompreso nell’indaco della pena
non madre vendicativa che combusta saluta
il destino di padre ora mai all’altezza
di 40°51’22N14°14’47E appena
più a sud della perdita
e dice guardi noi parliamo poco
aspetti tutti i suoi sé nel silenzio
senza motivi apparenti o inseguimenti
ascoltiamo la vostra schiena piegata
se ora sia o non sia danno calcolabile una precocità
ma ascolti il santo dell’assenza amore
uccide ciò che siamo stati perché si
possa essere ciò che e non creda
non creda a tutto quello che
ci si racconta anche l’indecenza
la furia la ricognizione
***
il sole è
vulnerabile intossica
inseguimenti lingue morte
ci sono che non credono
al dissolversi che il tempo
sia un finito incendiano
assenze con ritorni minacciati
è sempre
tempo per e invece
che la cura sia la cura degli altri
non cadere da caduti
sparire al bello sul confine
sulla polvere sull’abbraccio
agli adulti non al brutto
solo indecenze che la cura
sia la cura di chi merita il vuoto
che da sempre sta nel
il sole è vulnerabile piace a tanti ma pensa
muore ogni giorno e tu invece salva salva
credi al dissolversi
da Vittoriano Masciullo, Dicembre dall’alto, L’Arcolaio 2018
“I MIEI LIBRI”, UNA RIFLESSIONE DI MAURO GERMANI.
aprile 25, 2020
“I MIEI LIBRI”, UNA RIFLESSIONE DI MAURO GERMANI.
aprile 25, 2020
Mauro Germani
I miei libri
I miei libri sono lì, nei loro sepolcri: negli scaffali di alcune biblioteche, nei magazzini editoriali, nei depositi dei distributori on-line, nelle librerie di qualche acquirente e degli amici a cui sono stati regalati. Sono lì, aspettano la resurrezione, quella delle loro parole.
A volte sentono dei passi avvicinarsi, allora cercano di prepararsi all’accoglienza, vorrebbero scrollarsi di dosso la polvere, ritrovare il profumo della carta di un tempo e riprendere vita, ma spesso rimangono delusi. I passi si allontanano e ritorna il silenzio, ritorna la morte. Nessun profumo, ma solo quella loro vergogna che trasuda dalla copertina e dalle pagine. Nessuna mano ad accarezzarli, ad avvolgerli, a proteggerli. Nessuno sguardo ad illuminarli. Nessuna mente ad interrogarli o a comprenderli. Niente.
Ed io? Oh, so bene come sono nati, da quale solitudine hanno preso vita!
Di ognuno di loro conosco i balbettii, i sussurri, le visioni, i singhiozzi, le angosce. E soprattutto le modulazioni della voce, il battito del loro cuore di carta. Sempre così fragili e per me così forti nella loro impotenza, così lontani e così vicini. Così diversi da tutti gli altri, che pure leggo e rileggo, perché anch’io – come scriveva Giovanni Boine – «vado intorno cercando nei libri le anime».
Eppure li ho lasciati morire a poco a poco. Li ho visti deperire giorno dopo giorno, isolarsi, ammutolirsi, ammuffirsi, sprofondare nel buio, nell’oblio. Un lento esaurirsi. Un lento spegnersi.
Che altro avrei potuto fare? Non avevo scelta. Il cosiddetto ambiente letterario – a dir la verità – mi ha sempre fatto orrore, anche quando l’ho frequentato per un certo periodo, spinto forse dalle illusioni della giovinezza. Pensavo fosse diverso. Ho partecipato a presentazioni e a letture pubbliche, fondato una rivista, scritto prefazioni, ma sentendomi sempre un po’ lontano e via via oppresso da un profondo senso di estraneità. Che fatica mantenere le relazioni, quando in realtà mi interessavano solo le parole che mi assalivano in solitudine, quelle voci che mi chiamavano dal buio o da bagliori improvvisi, quelle visioni e quei tormenti, quelle preghiere o quegli spaventi che chiedevano carta e scrittura, quell’esistenza segreta ch’era dentro di me. Come conciliare tutto questo con i terribili e nefasti giochi di potere radicati nel suddetto ambiente letterario, con i favori da ricambiare, con le subdole manovre per ottenere un po’ di visibilità? Non ne sono stato capace.
Così non c’è stato nessun rimedio per i miei libri, nessun miracolo per salvarli. Specialmente quelli di poesia, nati disgraziati, già feriti, già malati. Indifesi dentro una guerra invisibile, colpiti dall’indifferenza di chi non ha voluto o saputo accoglierli. Segnàti dall’impossibilità.
La loro è stata (ed è) un’agonia solitaria, come un morire infinito.
Dentro di me, certo, ci sono ancora, per me palpitano ancora un poco, mi chiamano, mi chiedono del loro destino. Ed io li sento, poveri fantasmi miei, li sento scuotermi l’anima, ma non so che dire, che rispondere…
Quando ho il coraggio di riprenderli in mano e li sfoglio, li riconosco, mi ritrovo nelle loro parole, nella loro sconfitta. Sono parte di me, sono me, sono più di trent’anni della mia vita, anche se qualcuno se ne dimentica, o preferisce ignorarlo.
Non so se sentirmi colpevole o vittima. Avrei forse dovuto spendere diversamente le mie energie? Dedicarmi ad altro? Ammettere che ho dato di più in ambito scolastico?
Intanto loro mi guardano ed io vedo tutto il mio passato.
– È andata così. È finita così – mi dico.
Mauro Germani
LUCIANO MAZZIOTTA RECENSISCE “DICEMBRE DALL’ALTO” DI VITTORIANO MASCIULLO
aprile 17, 2020
Poesia e Prosa Lascia un commento
Vittoriano Masciullo: Dicembre dall’alto o del desiderio del crollo
by renata morresi • 20 Febbraio 2020 • 0 Comments
di Luciano Mazziotta
Post tratto dal blog NAZIONE INDIANA
È dicembre, forse, il mese più crudele dell’anno, non Aprile, se è vero che Petrarca colloca la morte della sua Laura il giorno di natale, ed è sempre il 25 dicembre, il giorno in cui uno degli eroi fondatori della modernità, Werther, decide di spararsi con la rivoltella presa in prestito dalla mano della sua Lotte. Si aggiunga che, se hanno ragione le statistiche, il periodo natalizio è quello in cui si conta il maggior numero di suicidi. Dicembre, dunque, che per il giovane Werther è stato un mese vissuto (o morto) in pieno, quello che ha avvolto e soffocato il protagonista nella sua miseria di lutto e declino, in Dicembre dall’alto di Vittoriano Masciullo è il mese in cui il bilancio, la retorica della fine è contemplata dall’alto, a distanza, ma non senza coinvolgimento emotivo. “Tutto è presente, è qui”, chiosa non a torto Cecilia Bello Minciacchi nella postfazione.
Strutturato in tre sezioni – Inaspettata, Ueno, Nessuno spiega Chirone, già dal titolo della prima il libro ci mette in guardia su ciò che vi troveremo all’interno. Si tratta di un continuo movimento di inatteso e sorpresa, come quell’atteggiamento speculativo di chi, guardando dall’alto, in realtà non fa che aspettare il crollo. Ma come scrive Winnicot, nel momento in cui nel soggetto si verifica la paura del crollo, il crollo è già avvenuto. E qui, in Dicembre dall’alto, l’altezza sembra desiderio di caduta a capofitto nei luoghi amati e nella storia, forse per scomparire.
L’inaspettato è, insomma, inscritto nella dialettica tra desiderio e paura di caduta, come, del resto, reso in modo magistrale nella versificazione. Si possono leggere, infatti, versi singhiozzanti, troncati, dove le ellissi assumono una molteplicità di significati, non ultimo quello di rappresentare sintatticamente il salto dal pieno al vuoto. Ogni verso è una conquista, ma anche un ulteriore tentativo di suicidio o di morte che non si realizza mai completamente, come la parabola degli eroi senecani.
Però si nasconde dell’altro dietro queste cadute: talvolta il procedere dei versi, la sottrazione delle parole, la sospensione subito dopo le preposizioni, sembrano non tanto “togliere”, quanto riprodurre poeticamente il fatto che, nel percorso a ritroso della propria memoria, alcune parole siano andate perse o, più precisamente, non si vogliano pronunciare. E non si vogliono dire sia per evitare semplificazioni del verso (in almeno un caso l’autore ci fa immaginare soltanto la rima, senza dichiararla), sia perché “rimosse” e “dolorose”, come quei non detti nel corso di una seduta analitica.
E di percorso analitico, di tanto in tanto, possiamo parlare per Dicembre dall’alto, specie quando nella silloge sembra che qualcuno dia del lei al soggetto: cosa inusuale per un libro di poesia, serio ma non serioso, tragico, e molto più tipico di diverse forme apparentemente autoironiche come quelle di Giovanni Giudici. Qui il lei sembra proprio quello pronunciato da un analista al paziente, mentre, per esempio, lo spinge a riconoscere che tutti i morti sognati non sono nient’altro che le varie frammentazioni dell’io disperse nell’universo («ma non è lei che piangeva/non è lei che muore dice/ma tutti suoi sé/che l’aspettano nell’universo»).
Tra analisi e racconto, così, tra analisi della realtà e racconto di sé, si susseguono le pagine, come in un “diario di guerra”, della guerra storica e privata che l’autore cerca invano di possedere.
La diaristica, tuttavia, è cosa ben differente da un libro di poesie: altrimenti a che sarebbe servito pubblicare la silloge, se fosse stata soltanto un diario privato?
Masciullo si pone continuamente il dubbio dell’utilità della scrittura, di tutto ciò che esiste e consiste, della analisi stessa che porta avanti, mettendo in crisi o abbassando sia la sua voce autoriale, sia la veridicità stessa della ricostruzione. «A che serve?», «Altrimenti a che serve?», «Salva, salva, altrimenti a che serve», ripete spesso il poeta come una sorta di refrain in testi dispiegati omogeneamente in tutte le tre sezioni della silloge.
Seppure apparentemente il discorso possa sembrare sfumato nell’ideale e nell’irreale, è bene specificare che in questa raccolta esistono continui appigli alla realtà circostante; e il non detto, sebbene resti non detto, viene comunque temporalmente e spazialmente collocato. Una conferma è offerta dal continuo rimando alla toponomastica, a vie e quartieri vicini e lontani. Se poche città vengono citate esplicitamente, il libro è tuttavia cosparso di nomi ben definiti, di date, di riferimenti a mesi precisi, oltre a dicembre, che ne collocano chiaramente il lasso temporale e il rapporto tra soggetto e storia.
Il movimento, così, è quello di una “visione” che da distante si fa sempre più vicina: dalla visione allegorica di un quartiere lontano, alle vie della città in cui l’autore vive, Bologna.
Se, del resto, la seconda sezione prende il nome da un quartiere di Tokyo, Ueno, il libro è ricco di nomi di vie riconoscibili a chiunque viva o attraversi Bologna anche per una sola volta: in sequenza troviamo via Rialto, via san Vitale, via san Michele, via Barontini, piazza Aldrovandi. Un esempio tra tutti valga il verso in cui incontriamo l’io lirico piangere da «via rialto sino alla fine della fine», un procedimento versuale che da una parte colloca precisamente l’autore in uno spazio ben determinato e dall’altro, invece, lo sfuma fino a disperdere ogni tipo di coordinata, in una schizofrenia che non lascia scampo alla risoluzione dei conflitti (storici e individuali). Ma le vie non sono vie il cui significato è soltanto privato, ovvero: non si tratta di vie in cui possiamo tracciare soltanto i confini dell’esperienza dell’io-lirico. Da una parte, infatti, c’è Ueno, la sezione in cui il quartiere giapponese è osservato dall’alto e in cui sembra non si atterri mai, dove si passa senza “disfare le valigie” e non si scatta nemmeno una foto, come se non si potesse né si dovesse fermare l’immagine nella memoria. Dall’altra parte, però, quando ci si avvicina ai luoghi familiari, nell’esperienza immanente e non passeggera, subentra con forza e distruzione anche la storia della Bologna che ha visto sia il tracollo delle esperienze degli anni Settanta, sia il barbaro omicidio di Aldrovandi.
Dopo il viaggio in aereo sulle luci del quartiere di Tokyo, ci immettiamo subito nel ritorno dettato dall’ultima sezione, Nessuno spiega Chirone, lungo la quale il conflitto è portato all’ennesima potenza, quando tutte le certezze e i dati sembrano esplodere. Chiamarlo “ritorno”, tuttavia, sarebbe consolatorio. Il termine ha necessità di essere più marcato: chiamiamo ritorno qualcosa che ricompone, che ricongiunge, nel bene e nel male. A ogni modo, si tratterebbe di un percorso a ritroso che implica un livello di maturazione e consapevolezza. Al contrario Masciullo non vuole suggerire né maturazione né consapevolezza. Questo suo libro non è un romanzo di formazione in versi al termine del quale si giunge a un qualche barlume di verità. Qui, per indicare il senso del viaggio, ci viene in soccorso il poeta stesso, suggerendo la parola adatta: ritirata.
È una ritirata quella tematizzata in Nessuno spiega Chirone, termine posto a suggerire non solo che il viaggio non è servito a niente, ma persino che il tentativo di presa di coscienza di sé non è andato a buon fine. Così come non sono andati a buon fine i tentativi di spiegare e razionalizzare la storia degli ultimi quarant’anni da Aldrovandi a Cucchi.
In questa epica al contrario, in questo semi nostos, l’autore teme soltanto i lapsus, le cadute, anche se talvolta pare che la memoria storica possa essere un piccolo conforto persino per la sfera personale. Se niente è servito a niente, almeno ci resta la possibilità di ricordare, «altrimenti a che serve aver scritto prima di». Ma il buio cosmico è sempre vicino, sempre a un passo, perché «morire […] è quando gli occhi diventano palpebre/e niente» e, nonostante tutti gli sforzi, conclude lapidariamente l’autore: «nessuno//rimane//comunque».
POETI NEL MONDO – USA: FRANK O’HARA
aprile 15, 2020
E’ una iniziativa
Frank O’hara
(Baltimora – 27 marzo 1926 // Fire Island – 25 luglio 1966)
Perché non sono un pittore
Non sono pittore, sono poeta.
Perché? Forse preferirei essere
pittore, ma non lo sono.
Ad esempio, Mike Goldberg
sta iniziando un quadro. Vado a trovarlo
«Siediti e bevi qualcosa» dice
Bevo beviamo. Guardo
in alto. «Ci hai scritto SARDINE».
«Sì, lì ci mancava qualcosa».
«Ah». Me ne vado, passano i giorni
e ritorno. Il quadro
va avanti; me ne vado, passano
i giorni. Ritorno. Il quadro è
finito. «Dov’è SARDINE?»
Resta solo qualche
lettera , «era troppo pieno», dice Mike
E io? Un giorno penso a
un colore: l’arancio. Scrivo un verso
sull’arancio. Ben presto diventa
una pagina di parole, non di versi.
Poi un’altra pagina. Ci dovrebbe
essere molto di più, non d’arancio, di
parole, su quanto sia terribile l’arancio
e la vita. Passano i giorni. È perfino in
prosa, sono un vero poeta. La poesia
è finita e non ho ancora nominato
l’arancio. Sono dodici poesie, le chiamo
ARANCE. E un giorno in una galleria
vedo il quadro di Mike intitolato SARDINE.
POETI NEL MONDO – Aleksandr Trifonovič Tvardoskij
aprile 7, 2020
POETI NEL MONDO – Aleksandr Trifonovič Tvardoskij
aprile 7, 2020
Una iniziativa de
(1910-1971)
DALLA RUSSIA, ECCO PER NOI ANDREJ BELYJ (PSEUDONIMO DI BORIS NIKOLAEVIČ BUGUGAEV)
aprile 2, 2020
Poesia e Prosa Lascia un commento
E’ UNA INIZIATIVA DE L’ARCOLAIO
Andrej Belyj (1880 – 1934)
Andrej Belyj
(1880 – 1934)
Io sono nelle parole
Io
sono nelle parole
così languidamente
muto.
Sono maschere le mie sentenze.
E –
racconto
a voi
tutti :
racconto
favole, –
poiché
così mi è destinato,
ma non comprendo
per qual motivo; –
poiché
da tempo ogni cosa è fuggita nel buio;
poiché
poco importa
ch’io lo sappia o lo ignori; –
poiché
mi attedio dovunque :
poiché
la favola
– smeraldina –
in cui
ogni cosa è diversa…
poiché
si ha voglia di svaghi
a dismisura;
poiché
la penosa
esistenza
ha per tutti
la stessa conclusione…
poiché
infine,
a che scopo
questo inferno?
E
in
me
si leva una risata
sopra
il destino
di tutti –
– e –
– su –
– me stesso!…
(Traduzione di A. M. Ripellino)
Testo tratto dall’antologia “Poeti stranieri” sezione: Poesia inglese, 2004.