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E’ USCITO IL NUOVO LIBRO DI SIMONE CONSORTI, “NELL’ANTRO DEL MISANTROPO”, NEL FUORICOLLANA DI FABIO MICHIELI.

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 La poetica di Simone Consorti (postfazione di Andrea Mariotti)

 

 

Già il titolo di questa silloge poetica di Simone Consorti, Nell’antro del misantropo, funge da indiscutibile segnale per il lettore: risultando tale titolo egemonizzato sul piano fonematico dalla consonante erre (liquida vibrante); e, dunque, con evidente suggestione a livello fonosimbolico. Ora, considerando non secondariamente la rima racchiusa in questo stesso titolo (àntro-misàntropo), di valenza quasi minacciosa, ecco che le “anime belle” della poesia sono debitamente avvertite, sfogliando il libro; in quanto sussistono fondati rischi di antropofagia, alla lettura dei versi della raccolta. Antropofagia (scherziamo seriamente) tuttavia salutare, a nostro avviso; in quanto a detrimento, essa, di quel lirico cinguettio non disgiunto dall’enfasi e sempre più insopportabile in tanta, troppa “poesia” d’oggigiorno. Certo, i puristi della lingua poetica potrebbero talvolta lamentare la mancata applicazione, nei versi dell’Antro, della tecnica della attenuazione classica a fronte di un lessico particolarmente crudo (nel fotografare una quotidianità non sublimata). Prendere o lasciare, ci dice però in sostanza il nostro autore; e noi volentieri accettiamo, anzi, criticamente abbracciamo questa sua poetica ricca d’ironia e più ancora d’autoironia: una poetica da riportare a pieno titolo nell’ambito della buona poesia contemporanea (salata più che dolce; semanticamente pregnante e non estetizzante a fondo perduto). Ma l’orizzonte non verticale, improntato a schietto realismo della poesia di Simone Consorti, non può e non deve ingenerare fraintendimenti, nel lettore intellettualmente onesto; nel senso che andranno qui ribaditi i punti di forza (notevoli) della raccolta in oggetto. E quali sono tali punti di forza, in sintesi? innanzitutto una corrosiva autoriduzione dell’ego poetico (e quindi, in ultima analisi, umano) dell’autore; di poesia in poesia, con effetto positivo per il lettore; per non dire, poi, dell’acutezza dello sguardo del poeta nel demistificare fenomeni non di rado grotteschi nei quali egli si imbatte (si legga al riguardo la poesia intitolata Sempre più spesso mi reco, sulla odierna commestibilità recanatese della poesia leopardiana). Disincanto e amarezza risultano costanti, di pagina in pagina, nella silloge di Consorti: poeta mordace e ostinatamente contrario all’italico melodramma (soprattutto quando osserva da vicino la sua stessa persona). Dunque un poeta, Simone Consorti, che consapevolmente non vuole cantare (non mancandogli le risorse per farlo, se pensiamo a certa sottile ipertestualità sottesa a diverse liriche della raccolta). Ma leggiamo in conclusione la seguente poesia (per noi la più bella e toccante del libro):

*

Come in un cimitero di guerra

Sarà pure un paradosso
ma proprio in nessun altro posto
sulla Terra
giace tanta pace
come in un cimitero di guerra

*

… ecco, una volta di più risulta evidente che al di là del sentimentalismo (sempre per suo conto segnale stilistico di una ingenua, nonché rozza poesia) si possono, ascoltando in più profondo silenzio la Musa, raggiungere livelli di vera purezza come nei versi appena citati. Non rimane che ringraziare Simone Consorti per questo suo stimolante lavoro poetico, nei termini complessivi di una ironica e amara osservazione del reale; tale da renderlo, il nostro poeta, acuto testimone dei tempi che viviamo.

Andrea Mariotti

Alcune poesie

L’inverno a Rio de Janeiro

L’inverno a Rio de Janeiro
è sempre almeno trenta sotto zero
e fare un passo costa mille euro
Non si compra niente
soltanto l’amore con il cruzeiro
l’inverno a Rio de Janeiro

L’inverno a Rio de Janeiro
la gente canta per scaldarsi l’ugola
e piange per dissolvere ogni nuvola
I bambini giocano ai bambini
e il mare bianco come il carnevale
guarda Jeni
coi suoi occhi così pieni di vuoto
rimpiangendo di non saperle
scattare foto

L’inverno a Rio de Janeiro
conto i granelli e mi fermo a un miliardo
sennò mi perdo

***

Beatrice è morta prima

Beatrice è morta prima
Laura di Petrarca
non ha mai letto una rima
Silvia aspettiamo ancora che si esprima
Le opere a loro dirette
nemmeno per sbaglio le han lette
Dai paradisi delle loro bare
non hanno mai potuto commentare
Carne trasformata in arte
sono state angeli al contrario
messaggeri umani verso l’iperuranio
O forse solo donne schiave
poste a forza su un altare
Oggetti perfetti
senza voce e senza tare

***

Promessa all’alba

I giapponesi si sposano a Praga
e il marito può baciare la sposa
tutte le volte che vuole il fotografo
E’ lui che dà il primo bacio
per mostrare la posa
è sempre lui che decide
qual è la volta buona

Le labbra vanno inumidite
quel ricciolo allungato
Bisogna cambiare il tacco
e raddrizzare Ponte Carlo

L’appuntamento deve essere all’alba
con la città vuota
e la luna che galleggia senza meta.
Nessuno è autorizzato a starnutire
massimo puoi sospirare

Fuori dall’inquadratura
il cielo sorride del fotografo
e per qualche secondo
si sente giovane

***

Il tuo corpo è la tua anima

Il tuo corpo è un campo di battaglia
un scatola nera dentro una scatola cranica
una bomba che scoppia tra un attimo
o tra due anni
Il tuo corpo è una bilancia
che pesa come il sonno e come l’aria
Dentro al petto hai cento cavalli
impazziti che gracchiano
e due mendicanti
affamati di battiti
Nella pancia custodisci miniere d’ansia
la tua pelle invece è madida
di opachi ricordi luccicanti
coperti da nei giganti
pelosi che sembrano rampicanti
Mangi e mastichi
con una bocca che biascica
a orologeria verità insignificanti
Davanti agli occhi hai una macchia
immaginaria
e un cesareo che taglia
in diagonale la tua faccia
soddisfa il tuo bisogno di vergognarti
una cicatrice che non si rimargina
Il tuo corpo è la tua anima

ARCOLAIO PRESENTA IL NUOVO AUTORE MICHELE MICCIA CON IL SUO NUOVO LIBRO “IL CICLO DELL’ACQUA – PARTE DI DENTRO”

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Postfazione

La “Parte di dentro” del cielo micciano “Dell’acqua” è un categorico invito al pensiero nelle sue varie fasi di invenzione e riflessione. Non contagiata da nessun morbo estraneo, questa poesia, infatti, fluisce lungo il perimetro di un discorso che non si volta mai indietro, come una concatenazione filosofica aspra e determinata, Miccia “regola le fluttuazioni” del proprio dire, dà “peso alla gioia” e “presagisce il moto paziente / dei mammiferi, allineati / alla ricerca dell’acqua, / e un sentiero”: poesia che scaturisce quindi serena e severa dalla continua invocazione di se stessa. Solenne è il progetto: “l’innesto a cielo aperto / di sangue da domare / in una sola carne”: un progetto quanto mai ambizioso e del tutto estraneo ai vizi (talvolta molto compiaciuti e compiacenti) del lirismo e del simbolismo. Ma Miccia si aggrappa spasmodicamente alla sua “roccia madre”, è come un soldato da trincea. Non avevamo mai letto prima di “Parte di dentro” una tale consapevolezza che diventa estrema persuasione dell’uomo che scrive nei confronti della propria opera, al modo – dicevamo – di un soldato, ma anche al modo di un filosofo che interroga se stesso: “la sua carne rilancia se / stessa avanti, sottrae potenza / a tutti per ornarsene / e fiaccarla in dimora, / sangue e corpo come cognome e nome.” In realtà, dobbiamo avvertire come sia oscura, a tratti, e a tratti addirittura minacciosa questa poesia. Essa non è mai una “voce rassicurante”, ma semmai è un corpo che occupa uno spazio o “l’avvolge per soffocarlo / dolcemente in uno stampo” di pelle, di fiati, di voci, di palpiti subito repressi e come intimiditi dal sospetto che il futuro non giunga, non possa giungere.
Accadeva nella raccolta precedente, primo volume del “Ciclo” che Miccia pronunciasse spesso le proprie immagini come organismi corporei di vita e di morte, di rifiuto e di faticosa resistenza al male. In questo secondo volume, invece, “C’è una voglia personale / da cui si ricomincia / più leggeri “come” in un baleno, la facilità / dell’acqua di rinsavire in un solco.” Magnifica metafora, questa, che include finalmente il retto e il verso della poesia, il suo essere storia, ma anche mistero, anche direzione probabile verso un futuro che qui viene indagato tal quale un poema umano, umanissimo di esitazioni e contraddizioni.

Giuseppe Marchetti

Poesie

Escono i suoi occhi dal
velo di pelle che
li accudiva, si formano
le palpebre e la libertà
di scegliere, il buio ha bisogno
di dita per guardare,
la luce di un respiro di ritorno
che misuri gli ostacoli, non è
sempre notte, viene forzata
l’angustia del fondale
per un altro elemento più
brulicante di ossigeno
che mette il capogiro.

***

Il sangue che gli è stato trasmesso
nella lunga opera di limatura,
il corredo di lenzuola coperte
merletti da parenti e amici,
il lavoro di sabotaggio
della lista di nozze, la sequenza
delle portate, tra
gli invitati c’è un ospite speciale
che dipana dalle riserve il gene
disgiunto per il salto
di qualità, il gene di Dio?

***

Parole di conforto
mette da parte per l’inverno,
una pezza che tamponi la febbre
di vita premente da dislessie
di fusi orari, parole per non
farsi sporcare dal corpo e travolgere,
sempre trattiene il fiato,
solo in un giorno invecchia
ora che si è lasciato andare,
come una serratura
di raccordi volubili si schiude
all’unica fedele
che gli si adatta senza reticenze
in questo meccanismo
che scorre per amore decifrato

***

La sua pelle è un vuoto
che si prepara a accogliere,
insinuanti le pause di voce
da interpretare se la sua
pelle per combustione
d’inchiostro incomincia a brillare
dopo una strenua resistenza all’acqua,
parole trafugate emergono
che sono il tacere degli alberi
caduti spalancanti
un pezzo di cielo al bosco, cerchietti
intorno ai nomi per
riempirsi di altre facce
o di bersagli da colpire,
le soste tra le città per unire
le lettere agli spazi ancora sordi.