Siamo lieti di presentarvi un nuovo, bravo autore, entrata fresca di zecca nel nostro catalogo.
Qui di seguito, la nota bio-bibliografica dice in modo analitico il percorso letterario e professionale di MARIO CAMPANINO. Siamo felici di averlo con noi, nella collana I CODICI DEL ‘900!
Subito sotto, dopo la biografia, potrete gustare la preziosa nota di Flavio Ermini, anche editore della !à edizione di questo progetto.
L’ANGELO MORTO – PREFAZIONE DI FLAVIO ERMINI -COLLANA I CODICI DEL ‘900
Mario Campanino è nato a Milano nel 1967 e si è trasferito a Napoli all’età di dodici anni, pochi mesi prima del terribile terremoto del 1980. È perito capotecnico aeronautico, musicologo, direttore di coro e dottore di ricerca in scienze della comunicazione. Suo ambito di studio sono le scienze dell’educazione e della comunicazione con particolare riferimento ai linguaggi delle avanguardie musicali della metà del XX secolo. Ha pubblicato numerosi lavori di natura musicologica, ha svolto attività giornalistica ed è giornalista pubblicista. Suoi scritti in versi e prosa sono stati pubblicati e recensiti su riviste di poesia e critica letteraria. Al Premio Lorenzo Montano (Anterem) ha ottenuto segnalazioni per la poesia Il nuovo giorno (2013) e per la raccolta Vendesi uomo (2015), entrambe inedite. Con la moglie, due figli e vari animali vive attualmente a Santa Maria a Vico, nella provincia di Caserta, dove scrive, legge e insegna alla scuola primaria.
Prefazione
Il disvelamento dell’essere è determinato unicamente dall’ini ziativa dell’essere. Il vivente linguistico ha una sola possibilità: porre la parola nelle condizioni di accogliere questa iniziativa.
Mario Campanino ne è cosciente e con L’angelo morto dispone il proprio testo ad aprirsi all’essere e lo rende disponibile a esso. Lo fa spogliando il linguaggio da ogni invadenza del soggetto. Questo perché una poesia che si proponga di rivelare il mistero della vita dell’essere non può costituirsi come l’espressione angusta di un io particolare, così come non può essere considerata un riflesso del mondo sulla nostra mente.
All’io Campanino affida l’apertura e la chiusura dell’opera. Nella prima poesia l’io scrive: «Ho visto un angelo sul marciapiede / in mezzo a tante irrilevanti cose». Nell’ultima poesia l’io scrive: «Ho visto l’angelo e non avevo tempo / solo poco più di un istante». All’io Campanino affida il ruolo del tecnico che alza e cala il sipario. Non è un ruolo secondario, beninteso. È il consentire un’apertura; il predisporre il testo a un dono, a una rivelazione. In quell’apertura, che durerà «poco più di un istante», c’è il dovere di dire la verità del- l’essere, l’indivisibile che ci accomuna al di là delle differenze – uomini e donne, viventi dotati di linguaggio e angeli morti, realtà visibile e realtà invisibile – dalle quali siamo identificati e con le quali ci riconosciamo e chiediamo di essere riconosciuti.
Fino al momento in cui l’io riappare e sullo svelamento calerà il sipario.
Con L’angelo morto Campanino ci indica che il pensiero interrogante porta la parola poetica – interrogandola – alla sua dimensione essenziale, dimensione che fa esperienza della prossimità e della lontananza che si succedono nel rapporto con la verità delle cose. Ciò avviene nell’emergenza della verità dell’essere, quando ogni nozione implica l’altra, e nessuna può essere pensata da sola.
Campanino evidenzia questo concetto legando tra loro le singole poesie attraverso agganci semantici o lessicali. Per esempio, la poesia XIII chiude con «non aveva neanche la linea della vita», mentre la poesia successiva apre con: «Era un corpo senza storia». Allo stesso modo, gli ultimi due versi della poesia XX, «se fosse stato un uomo sarebbe apparso / uno che non si era mai comunicato», vengono ripresi dalla successiva: «Chiaramente non era un uomo / anche se poteva trarre in inganno».
Ma un altro dato emerge dall’opera di Campanino: la rivelazione dell’essere non è diretta, perché avviene attraverso le cose. A differenza dell’essere, le cose si avvicinano e si annunciano. Per colui che ne è toccato si tratta di saperle nominare. Come per quell’«angelo sul marciapiede / […] / apparso lì semplicemente / come in un’epifania / non di cosa violata / ma di cosa che si svela».
Insomma, ciò che noi vediamo è la cosa che si manifesta in se stessa, ma non ciò che fa sì che essa si manifesti – l’essere – il quale resta perlopiù nascosto. Il movimento di manifestazione della cosa è duplice e, in qualche modo, ambiguo, in quanto innesca una differenza che è difficile da cogliere.
A questo proposito va sottolineato un dato importante nella ricerca di Campanino: il suo procedere per negazione nel dare parola all’essere. Scrive: «e non come un ricordo / o una dimenticanza», «non era affatto distinguibile», «certo non come un velo / e neanche come un sudario», «e non era neanche una metafora dell’uomo / e men che meno della vita». Questo avviene per assecondare l’essere nel suo sottrarsi alla nominazione e giungere a coglierlo, appunto, per negazione.
Questi movimenti verso la cosa e verso l’essere ci segnalano che il linguaggio poetico ha due proprietà: cogliere il ritrarsi della presenza e l’emergere di un’assenza. Questi movimenti rinviano alla profondità dell’essere esperita poeticamente. Non sono la garanzia dell’essere, né tanto meno possono dire cosa significhi “essere”, ma permettono di intendere e di porre la domanda intorno all’essere, questo sì.
Campanino richiede, con L’angelo morto, di partecipare a una poesia che abbandoni la soggettività e sperimenti la facoltà di contemplare il prodursi storico dell’essere nella prospettiva del poetico.
Flavio Ermini