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PAOLA DEPLANO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI FABIO MICHIELI: “DIRE”.

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PAOLA DEPLANO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI FABIO MICHIELI: “DIRE”.

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Recensione di Paola Deplano

Tratta dal blog LA LUCE DI TAGLIO, di Elisabetta Pigliapoco

Dire. Basterebbe il titolo.

Essenziale. Immediato. Puro.

«Volevo un libro puro per noi due». Un libro che comincia così.

Non è un semplice dire, è piuttosto un ridire.

Michieli aveva pubblicato il primo Dire nel 2008. Ora ritorna, assassino sul luogo del delitto. Il titolo è lo stesso, il libro è cambiato – non potrebbe essere altrimenti, è cambiato il suo autore.

Più che dire, parlare (se ne può parlare?) dell’assenza. Al centro di questa poesia c’è l’assenza: quella dell’amore finito, del padre defunto, dell’Euridice persa per sempre. E non solo perché, come dice Gianfranco Fabbri nella prefazione, «dalla ‘carenza’ […] nasce e si cristallizza il ‘disequilibrio’, la sofferenza e il dolore: si instaura, insomma, il seme che genera la poesia», ma anche perché la vita stessa è assenza, fino al giorno in cui la morte ci renderà assenti finanche a noi stessi. Michieli lo sa, lo sappiamo tutti. Lui ha il coraggio di dire.

La sua Euridice ha il coraggio di essere assente fino in fondo, di accettare la propria morte e liberare sé stessa e Orfeo dalla decadenza dell’amore. O forse – chissà – l’ha sfidato a voltarsi sperando che lui non si voltasse, che non fosse preda della sconsiderata impazienza. Era una prova d’amore, più profonda dello sfidare l’Ade per riportare in vita un antico amore. Era questa la vera prova. Orfeo non l’ha superata.

La verità è questa: non esiste resurrezione.

Nella realtà, infatti, non si può riportare alla vita chi abbiamo amato, se non nel ricordo. E Michieli attraverso il ricordo riporta suo padre fra noi, ce lo fa conoscere. Il momento cristallizzato in cui disse «sono stanco», prima di andare a letto e non alzarsi più. I settant’anni per sempre. Il compleanno infinito, proprio perché finito, contrapposto a quello del figlio, che pian piano salirà il leopardiano «limitar di gioventù» e arriverà a lui, attraverso la propria vita, generata dal padre, ma diversa dalla sua.

Dell’amore finito non vale neanche la pena di parlare. Lo ha fatto Euridice per noi.

Altra suprema assenza, Venezia. La città di nascita di Michieli. Non una città come le altre, ma la città agonizzante per principio. Riflessa nelle acque, come un miraggio. Parcellizzata nei coriandoli del Carnevale, viva e morta da sempre. Aveva ragione Mann, la morte è a Venezia, in qualsiasi altro luogo non sarebbe stato uguale.

Michieli dice spesso, nella raccolta, per endecasillabi. Il libro ce ne presenta molti – molto belli. «Avidamente attendono uno schianto» è il mio prediletto. O forse no: «Tingerò d’amaranto questi versi» lo è. Ma in fin dei conti, perché scegliere?

Siamo soli nelle scelte, neanche i Tarocchi ci vengono in aiuto, anch’essi increduli e bui:

Tarocchi

si sciolgono i colori come i modi

incerti che non sanno più predire –

incredulo mi rimira l’Appeso

mentre le nubi abbuiano la Notte

La verità è che non si può scegliere, la vita è solo istanti che passano e che non possiamo cambiare né rivivere, se non nelle fotografie:

Istantanea dall’est

lenti sfocati passi di ombre scisse

barlumi transitanti in trasognate

piazze d’oriente verso giorni nuovi

(un telefono strilla al suo riflesso

Infinita l’attesa di responsi)

È strano prendere un libro vecchio e cambiarlo e ripubblicarlo con lo stesso titolo. Ma Michieli lo fa capire dall’inizio, che farà così, anche in alcune singole liriche, cambiando appena il distico di apertura, creando così la circolare chiusura che riporta ossessivamente il poeta e il lettore al punto di partenza. Del resto, nella finzione lirica, sono le Muse stesse a preconizzarlo al suo io-poeta:

Epigramma (risposta delle Muse)

     ma la musica

sempre più si allontana

Eugenio Montale

domandi versi? Te ne mando autentici:

cadenza esatta, ritmo attento e sempre

misurato, quasi fosse un tango –

te ne mando, certo, ma sempre identici:

un balzo breve, un verso canticchiato

di bocca in bocca come usava un tempo –

attento però a non dimenticare

che la rima chiude il tema iniziale

L’Alfa e l’Omega ritornano ciclicamente, il tempo non scorre, tutto è contemporaneo, nell’infinito della poesia:

ritrovo il tempo andato tra la cenere

se si consuma il fuoco –

costringe a camminare su roventi

in equilibrio lamine

la luna non vedo alta se le nuvole

me ne celano il corpo –

ma l’argento si spande

e chiarisce il pensiero

mentre il volto si accende

di ardente rossa fiamma –

(ritrovo il tempo andato tra la cenere

se mi consuma il fuoco)

In questa lirica il fuoco e la cenere coesistono (morte e resurrezione). È un messaggio che ritroviamo altrove, nel libro, in tutti i luoghi «dove anche la morte è un segno di vita».

La stessa cenere che torna, nella silloge, più di una volta, ma nella poesia sulla Quaresima con un senso di laica spiritualità. Quella Quaresima che porterà per chi ci crede – credo non Fabio – alla Resurrezione per eccellenza.

È strano – dicevamo – prendere un libro vecchio e cambiarlo e ripubblicarlo con lo stesso titolo. Non si fa così. Si va avanti. Si scrivono poesie nuove. Si pubblicano, con un titolo nuovo. Si parla d’altro, forse, se è possibile, per un poeta, parlare d’altro che non siano le sue eterne ossessioni.

(Perché hai preso un libro vecchio, lo hai cambiato, lo hai ripubblicato con lo stesso titolo? Cosa stavi cercando di resuscitare, Michieli?)

Paola Deplano

LUDOVICO PARENTI RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI ILDO CIGARINI: “IL MIDOLLO DELLA VITA”

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Torna in Casa Arcolaio l’amico Ildo Cigarini con l’opera sua più recente. La illustra compiutamente il critico letterario Ludovico Parenti, tramite le parole usate nella prefazione del libro di Ildo.

Procediamo così: porremo in evidenza la prima parte dello scritto critico e poi inseriremo alcuni testi tratti dal volume in questione, dopodiché concluderemo l’analisi con l’ultima parte del pensiero di Briganti.

Amici miei, vi auguro una buona lettura!

(G. F.)

***

Prima parte

Tutto è poetante per Ildo Cigarini.

Per tastare semplicemente il polso di questo poeta, basta riandare solo a qualche titolo delle non poche precedenti raccolte, Del tempo il vuoto è duro, Rumori di passi sull’erba, Racconta l’acqua di storie sommerse, per registrarvi, ben ferma, una volontà poetica: non sono, questi titoli, rispettivamente un settenario, un novenario, un endecasillabo? Si possono inoltre comprendere facilità di emissione e abbandono ad una versificazione espansiva sapendo del suo rapinoso amore per la letteratura (senza limiti temporali e geografici).

Amore quale perenne seduzione e imperioso invito a cercare di far luce nella misteriosa avventura della vita: quella in atto e quella passata, personale e altrui.

Alberto Bertoni riscontra nella poesia di Cigarini “l’abilità nel legare insieme – sul piano della profondità percettiva – piccola e grande storia”.

Se questa osservazione è valida per Racconta l’acqua di terre sommerse (donde è tratta), essa lo è anche per Il midollo della vita, dotata anzi, questa, di uno scatto in più, considerando fin dal titolo la ‘volontà’ di Cigarini di arrivare proprio al midollo della vita.

Ambizioso, l’autore? Certo, come ogni poeta; ma onesto. Onesto nel suo desiderio di ricercare – “in ginocchio”, cosciente di poter fallire – “il respiro del mondo e profondo/ il silenzio di tutte le sue voci” (da “Umano gesto”).

Immergendoci nelle sue pagine sentiamo, nel loro ricco fluttuare, che l’estro e il sentimento del poeta mirano ad abbracciare ogni cosa: dagli amori passati (“In un altro tempo”) e

presenti (“Ancora un’altra volta”) alle figure della madre e del padre (“La vita che torna” e “A due passi dal mare”, poesie tra le più felici dell’opera, toccanti nella loro dimessa ‘cronaca’), dal mondo naturale (“L’albero”) alla storia passata (“Sunt lacrimae rerum”) e a quella di oggi (“Sono arrivati”). Con attenta tessitura Cigarini rende i proprî versi trasparenti. Nessuna civetteria o torsione linguistica, nessuna traccia di modi postermetici, sperimentalistici, neobarocchi e via dicendo (liberatosi dei capoversi maiuscoli delle passate opere, unico legittimissimo ‘vezzo’: una punteggiatura ‘libertaria’: del resto, si sa, la punteggiatura è un sentimento…), semplice- mente una versificazione così chiara da sfiorare spesso l’ingenuità; ma, si badi, un’ingenuità consapevole, equivalente a un voler mettere a nudo il proprio animo proprio perché con sincerità il verso ‘dica’ (e non semplicemente ‘suoni’) ciò che lo costituisce.

Senso e forma procedono con fluida armonia, paradossalmente ancor più espressivi, i versi, quando Cigarini apre a qualche immagine surrealistica (“Pare ubriaca/ la luna capo- volta nel bicchiere” da “Quarto frammento”), a qualche suggestione classica (“I capelli un tempo luminosi e folti/ ora gli cadevano sulle spalle” da “L’ombra di Ettore”), a qualche apertura leopardiana (“Aerea e chiara/ su scuro e rotondo cielo/ tu luna rischiari la parola” da “Tu luna”), a qualche attenzione vibrante a una realtà animale o naturale che sprofonda in improvviso agro ricordo (“La gatta”) o in premonizione di morte (“L’albero”) (…)

***

Alcuni testi

Da una stanza all’altra

Le loro voci da una stanza all’altra,

rumore di oggetti spostati,

brevi silenzi,

qualche parola persa dietro le pareti.

Era stato così sempre

il loro amore irrisolto?

Una pausa lenta

dentro una parentesi lunga una vita?

E se non ci fossero state pareti

ma solo uno spazio libero

aperto all’incontro delle loro voci

e parole chiare senza ombre

sarebbe stato diverso?

O forse le parole non mascherate

non trattenute dalle pareti

li avrebbero feriti prima

lasciandoli più soli e più lontani?

Si parlavano da una stanza all’altra,

del resto era solo mattina

e c’era ancora tempo prima di uscire.

Fuori il giorno si apriva alla luce

e loro, mano nella mano,

avrebbero attraversato quella luce

camminando in silenzio

ciò che restava della loro vita.

**

La lingua dell’eternità

Ciò che oggi ci serve

è ciò che sarà con noi domani.

La lingua del silenzio

è la sola lingua dell’eternità.

È dentro di noi sempre

gioca a nascondersi agli altri

e si muove tra oscuri

meandri di parole senza senso.

Lotta per sopravvivere

si scompone in sospiri spenti

riemerge alla luce

tra tempeste dialettiche e verbali.

Sa attendere il suo tempo

nascosta tra le pieghe dell’anima

si prepara a vincere

contro il rumore delle lingue morte.

Sentirà il nostro respiro

e i nostri passi farsi leggeri

vedrà all’orizzonte un fuoco

accendere di luce il cielo

e uscirà finalmente salvata

la lingua dell’eternità

**

La pagina bianca

Dammi tempo

e tutta la mia vita sarà tua.

La pagina bianca e muta di parole attende

dalla mia mano il segno di un risveglio.

Le stagioni hanno corso molti spazi

lasciando solo poche tracce di memoria.

Mi interroga questo imbrunire lento e mesto.

I pensieri che cadono come foglie stanche

da un altro mondo, senza colore e senza vita.

Solo un cumulo di rovine senza storia.

Eppure c’è ancora un’aria pura che ritorna.

Un lamento che si fa suono e dolce affanno,

un urto contro l’estremo vuoto che ci attende

e arma la mano di parole mai prima osate.

La pagina bianca ora respira e si espande

oltre il limite della prudenza di un ricordo.

Raccoglie le confidenze da molti silenzi

e ci sorprende con le verità più nascoste.

Dammi tempo

e tutta la mia vita sarà tua.

Seconda parte

(…) In sintonia con la varietà di momenti e situazioni, il tono è ora tensivo (qua e là le ombre degli emigranti in fuga da guerre e miserie: “Sono arrivati come sono partiti/ senza sapere, ad occhi chiusi,/ il soffio della vita fermo in gola” da “Sono arrivati”), ora contemplativo (“La pagina bianca e muta di parole attende/ dalla mia mano il segno di un risveglio” da “La pagina bianca”), ora rievocativo (“La casa è sempre lì/ dietro la siepe di corbezzolo” da “Il maestro dei mestieri”), ora sentenzioso (“La vita arriva/ senza averla cercata” da “Ci rivedremo”), ora lirico (“C’è quiete in questa mattina di primavera/ (…)/ Le mie mani conoscono il suo corpo/ e il suo respiro si ferma nel cercarmi” ( da 4^ composizione di “Tra le infinite porte del tempo”), ora civile più che politico (“In ginocchio dentro la vita”), ora di compressa tragicità dinanzi a un presente minaccioso, che coinvolge storia degli uomini e storia personale, nell’attesa – temuta ma forse anche inconsciamente desiderata al fine di una purificazione totale e di un rinnovamento positivo dell’uomo – della “lava della storia” che “Riempie il vuoto e tutto brucia” (da “Sull’orlo del vulcano”), ora introspettivo (“Troppo grande il suo mondo”), ora di trepida commozione grazie a un tassello da aggiungere alla piccola epopea di Borgovecchio compresa in Racconta

l’acqua di terre sommerse (“In un solo istante”), ora di un pungente erotismo con la complicità di una celeberrima pittura (“Al tocco e al bacio”), ora ‘confessionale’ (“Umano sono e umano sento/ il respiro del mondo e profondo/ il silenzio di tutte le sue voci” da “Umano gesto”), ora perfino ‘teatrale’ (“Tu, notte senza cuore/ mi hai tradito” da “Tu notte senza cuore”); e si potrebbe ‘continuar citando’ se si volesse insistere nel sottolineare la colorita ed elegante strumentazione poetica di Cigarini.

E tuttavia, se il poeta stesso, onestamente e intelligentemente, si dichiara in una poesia “Naufrago di una luce/ che ancora cerco e bramo” (guai, per i poeti, a trovarla, quella luce!), non c’è da stupirsi se l’ultima sezione dell’opera (Da un’anima in fiamme), che pare voler coagulare i molteplici nodi tematici, si apra a ventaglio nell’impossibilità di una sintesi, come traspare dai versi “Seguiremo insieme i nostri respiri/ e ci ritroveremo cercandoci ancora”, nei quali leggiamo, più che quella dei

corpi, la cerca della propria identità-verità (da “Portami delle rose rosse”).

In detta ramificazione fluviale Cigarini sembra proprio desiderare che il lettore si perda perché sappia quanto innumerevoli sono le sfaccettature della vita e tocchi con mano le altrettante innumerevoli difficoltà che il poeta affronta per cercare di dare ordine al caos.

L’impressione che se ne ricava è che “il midollo della vita” risulti inafferrabile come la vita stessa: mutevole nelle sue forme, nelle sue realtà percepite e sognate, nello sprofondamento dei pensieri e nell’affioramento dei ricordi, nell’invocazione del silenzio e nella necessità della parola, nella vibrazione degli sdegni e nello spineto dei rimorsi, e così via. E tale slittamento-mutamento, o moltiplicazione di elementi,

non può generare che un elevato numero di poesie, le quali, a loro volta, per sentimenti, paesaggi e storie diversi, assumono nel loro complesso la forma di un autentico campo minato in cui le mine sono le stesse composizioni: corpus generoso e ‘liquido’ il cui ‘centro’, spostandosi di continuo, sembra dappertutto.

Ecco perché, allo stadio attuale della sua ricerca poetica, tutto è poetante per Ildo Cigarini.

Ludovico Parenti

ANGELO MANITTA RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI MAURO GERMANI: “LA PAROLA E L’ABBANDONO”

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Articolo di Angelo Manitta pubblicato su «Il Convivio», anno XX, numero 4, ottobre-dicembre 2019, p. 29.

L’esistenzialismo negli aforismi di Mauro Germani:

La parola e l’abbandono

Qualunque libro di aforismi si presenta quale assembramento di pensieri sparsi, che hanno però un filo conduttore. Basti pensare al Notturno di Gabriele d’Annunzio, e alla sua particolare origine di pensieri scritti su striscioline di carta, che hanno come oggetto la scoperta del sé e della propria fisicità. Il libro di Mauro Germani che mi accingo a leggere, La parola e l’abbandono (L’arcolaio, Forlimpopoli (FC), 2019, pp. 88), è un libro di aforismi, ma nella brevità della scrittura affronta una tematica abbastanza vasta, pur attraverso il filo conduttore dell’esistenzialismo.

«Bisognerebbe rileggere spesso Thomas Bernhard per capire, una volta per tutte, che cosa significa una scrittura che non è semplice esercizio di stile, ma espressione drammatica dell’esistenza». Da questo pensiero, tratto da un aforisma di Germani, se ne intuisce già la tematica. Infatti in questo volume si possono trarre alcuni nuclei di riflessione: l’essenza e il significato della vita, il senso della morte, il dramma dell’esistenza di Dio, lo smarrimento dell’uomo nel mondo, la solitudine e il deserto, l’enigma dell’amore e dell’odio, la coscienza della propria corporeità, la sconfitta esistenziale. La scrittura diventa quindi elemento fondante di conoscenza e di trasmissione di conoscenze, oltre che di emozioni. La parola scandaglia l’esistenza dell’uomo, come viene anche evidenziato dai titoli delle due parti in cui è divisa l’opera: La solitudine della parola e La parola e l’abbandono, quest’ultimo oltretutto titolo dell’intero volume.

L’uomo è frammento d’universo e lui stesso è frammentato, in quanto è costituito da «schegge d’amore o di pietà, di idee o di rimpianti, di poesia o di sogno», perciò i quesiti che si pone sono sostanzialmente riconducibili a questo: qual è il significato dell’esistenza umana nel mondo e nell’universo? Infatti, «sapremo mai perché siamo nati, perché abbiamo incontrato certe persone e non altre, perché abbiamo fatto quello che abbiamo fatto, perché moriremo proprio dove moriremo e in quel preciso momento? Sapremo mai perché certi amori sono stati impossibili o non ricambiati, perché abbiamo avuto sventura oppure no, perché tutto ci è capitato in un modo e non in un altro?» (p. 17). Da queste domande, spesso irrisolte, scaturisce la solitudine dell’uomo e la sua disintegrazione. È come se vivesse in un deserto, che rappresenta il nulla, ma è proprio la memoria di questo nulla che egli deve recuperare. Il pensiero attraverso la scrittura può esserne un mezzo, in quanto lo scrittore è l’unico a poter essere «preso da una forza oscura e da una vertigine più grande di lui» (p. 19). Il nulla esiste in funzione di una nascita e di una coscienza della vita, il nulla è conquista del deserto, terra di silenzio, d’attesa e di riflessione, che da una parte precede, ma dall’altra annulla la parola. Questa non ha una funzione assoluta, essa spesso si confonde e si svuota del suo senso, provocando uno stordimento interiore, che lascia trapelare il dubbio della conoscenza e della certezza. La parola non è la soluzione definitiva del pensiero, ma la coscienza del «compimento di ciò che non si può compiere» (p. 28). Se la scrittura quindi da una parte appare come mezzo salvifico, dall’altra diventa mezzo di condanna perché chi scrive conosce bene il suo abbandono e la sua tristezza. A questo non esiste alcun rimedio: l’uomo sa di essere condannato alla solitudine e alla morte.

L’altro tema esistenziale infatti, trattato dal Germani, è il rapporto vita-morte, il riflettere sul significato dell’una e dell’altra. E per assurdo, essendo, questi, atti essenziali dell’esistenza, sono «entrambi destinati a non essere ricordati», e quindi a rimanere «incoscienti», trovandosi tra le forme dell’abbandono proprio la morte. Nasce quindi, per evitare l’annullamento, la questione della presenza di Dio, quesito che l’uomo si è posto ab origine e, pur essendo giunto spesso alla conclusione che Dio è morto, la Sua ricerca si fa costante. Se la sua conoscenza si muove tra certezza e negazione, all’uomo non resta che il dubbio, ma è proprio quest’ultimo a renderne viva l’esistenza, in quanto per vie diverse risulterebbe che «Dio è morto, l’uomo è in agonia e il Diavolo gode ottima salute» (p. 46); allora sarebbe più «onesto affermare il dubbio ed il mistero, l’ignoto abissale che è in noi ed oltre noi».

Ancora una volta, quindi, che cosa può salvare l’uomo? Forse la parola, la poesia e il pensiero? Ma non sempre è così, perché anche la parola ha i suoi limiti e le sue incertezze. Infatti dire che «la poesia possa salvare la vita» a volte è «vergognosa ed imperdonabile menzogna», in quanto non si avrebbe «il minimo rispetto nei confronti di tutti i poeti morti suicidi» (p. 59). La poesia mostra sempre quella «tensione di dire l’indicibile che è l’esistenza» e «si situa in questo margine mobile, sfuggente e misterioso».  Ma permette di raggiungere la sublimazione dell’animo? Forse sì, se può fare prendere coscienza dell’inquietante verità: l’assolutezza del nulla, che è «come se la vita vissuta non avesse avuto alcuna importanza» (p. 72). In questo gioco universale di vita e di morte, di creazione e di distruzione, infatti, i morti «continuano a morire nel nulla: è la morte invisibile del nostro tempo, la morte impronunciabile, bandita da ogni pensiero» (p. 75).

Numerose sono le annotazioni esistenziali che Mauro Germani ci offre in questo prezioso volume, un libro di massime ed aforismi da leggere, da rileggere, da meditare, da ripensare. Il suo pensiero non corre però solitario, si serve spesso e riprende l’atavica tradizione della cultura occidentale a partire dall’antichità per giungere ai nostri giorni, filtrando anche il suo pensiero attraverso quello di Aristotele, Euripide, Heidegger, Leopardi, Kafka, Sartre, Pavese, per giungere a Savinio, Sbarbaro e numerosi altri. Qui la parola fa da tramite tra il nulla e la conoscenza, e diventa espressione dell’esistenza dell’uomo. Attraverso di essa l’uomo-poeta annota caratteri sociali ed esistenziali, ma nello stesso tempo comprende l’amarezza profonda del proprio essere, dei rapporti umani, del mondo che va alla rovescia. La parola, che appare sospesa tra la vita e la morte, non può che testimoniare drammaticamente quindi la solitudine dell’uomo contemporaneo, pur lasciando un lieve barlume di speranza, come si può leggere nell’ultimo aforisma, posto non a caso alla fine:« Chi raccoglierà le parole abbandonate della poesia, questi strani doni tra la vita e la morte, questi singhiozzi solitari? Le parole aspettano nell’ombra, escono dalle loro tombe di carta, vogliono risorgere per un po’, sconfinare, prima di sparire per sempre nell’oblio».

ANGELO MANITTA