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FEDERICO MIGLIORATI RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI GABRIELE GABBIA: “L’ARRESTO”.

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LA TRAGICITÀ DEL VERO” NELLA RACCOLTA DI LIRICHE DI GABRIELE GABBIA

Articolo di Federico Migliorati pubblicato ne Il GAZZETTINO NUOVO

L’arresto è il titolo della seconda raccolta di liriche del bresciano Gabriele Gabbia, edita da L’arcolaio (55 pagine, euro 10 con prefazione di Giancarlo Pontiggia e postfazione di Flavio Ermini a cui pure il volume è dedicato) nella quale abbondano significati reconditi e pregnanti che si palesano tra le righe al lettore: arresto come fermata, come sigillo di una cesura tra un prima e un dopo che non conosciamo, percorso di vita che accidentalmente trova una sua pausa forzata. Arresto, tuttavia, anche come momento di riflessione, di spazio ricreato per meditare sulla “tragicità del vero”, per riprendere un’espressione, forse la più riuscita tra quelle che l’autore lascia in dono in questo suo nuovo “sforzo” o “tentativo”. C’è, come evidenzia puntuale il prefatore, un richiamo evidente all’escatologia, alla cristologia, in certi passaggi o titoli che accennano al supplizio, al calvario d’ogni persona, alla sofferenza che pervade e permea il passaggio tra un dire e l’altro nel verso cristallino. È una scrittura, quella di Gabbia, densissima, in cui le parole meticolosamente utilizzate vengono scarnificate per rimanere essenza pura, quasi con rimandi ungarettiani, sigillo brillante e icastico anche laddove si ricorre all’ossimoro, figura retorica che si rinviene a più riprese, per non tacere delle illuminanti descrizioni di sentimenti, pensiamo solo all’amore concepito come “un boia che ciascuno reca in sé”, bruciante desiderio che ha agio a trasformarsi in alienante, solitario dolore. Ecco allora che l’arresto può diventare anche un’estrema forma di libertà, come nell’excipit della poesia eponima, una libertà di esserci senza più dimensione spazio-temporale. Talvolta il verso di Gabbia si fa sonoro, schiocca acuto, ed è fitto il richiamo agli elementi della natura, ai percorsi delle stagioni che vengono còlti nel loro richiamo a una bellezza imprendibile, sfuggente, mentre il tempo scandisce azioni, svelle volontà, stinge emozioni. Al tempo dobbiamo inevitabilmente soggiacere quale dura legge naturale e però l’atto della scrittura, ci sembra, diviene in fondo una sorta di cammino lungo un filo sottile, uno “star dentro alle cose”, conoscerle e concepirle e compatirne la loro presenza per “starvi poggiato tra valichi e case” a metà strada tra una vita che si ‘produce’ e l’oltre che si profila al di là, ma sempre con “l’immensa corona di spine ogni giorno più a fondo infissa”. Anche la morte, se non vinta, sarà certamente esorcizzata nel “soffio dello sguardo”, nell’arresto voluto e cercato come somma di “parole portate lì” a sedimentarsi, semi di nuove epifanie di sé nel rinnovato riprincipiare.

Federico Migliorati

(Recensione edita all’interno del settimanale “Il Gazzettino Nuovo” il 25 marzo 2021.)

ROSA PIERNO RECENSISCE “IL PREZZO DELLA SPOSA” DI ANTONIO PIBIRI.

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Antonio Pibiri, audiolettura da “Il prezzo della sposa”, L’Arcolaio 2018, nota di Rosa Pierno.

Nessuna cosa resta intonsa sotto lo sguardo di Antonio Pibiri: “una cancellata s’infoglia”, e nemmeno il suo corpo è esente da trattamenti depistanti “Il mio corpo accelerato.”. La denuncia dell’illusione letteraria è a suo modo un’ulteriore illusione, poiché dal linguaggio non è possibile uscire. E i rivolgimenti a cui Pibiri lo sottopone hanno come obiettivo di saggiarne i limiti semantici e sintattici. Ma straniante è la percezione stessa: “Chi trovi ogni volta al tuo posto?”. Quello che si costruisce con la lingua è uno specchio di quello che si percepisce, forse solo meno mobile, per questo vi è ogni volta la necessità di ricominciare daccapo. Gli inserti visivi, immaginari con i quali Pibiri costruisce le sue poesie appaiono a tratti forzati, come lo è il senso sottoposto a una virata surrealista. La realtà in tal modo appare pregiudicata due volte, una dalla sua traduzione linguistica, una perché la percezione stravolge e frattura. Il risultato non è mai ricomposizione. Non esclusa da questa verifica anche l’insufficienza linguistica: come dire i colori dei quadri di Van Gogh? Come parlare dei quartetti di Bartok? “Se sapessi scrivere io non scriverei”: ecco la palestra inesauribile di Pibiri.

***

Un ventaglio di esitazioni.

I viali mandorlati, il portico.

Sangue rinvenuto tra le carte

o s’intuisce un fiore

di breve erudizione.

Giacometti spiegato da mio figlio.

L’Eternità a una data ora del giorno.

Febbre in viso. Il cigno colpito a morte

sulla spalliera di glicini.

Un negozio di ferramenta salpa

si allontana tra foglie d’acqua.

La luce con discrezione nel tempio calvinista.

Il cervellotico decapitarsi appena.

Torre di cavalli blu, sette palazzi celesti.

Le mansarde degli scrittori

sui giardini di Lussemburgo.

Ceneri: il bardo nel cimitero del Vermont.

Malgrado non sia teca il mondo fanne inventario,

per nenia, fumaio, poema…,

***

Il ponte di legno è crollato

per mutarsi in barca,

un raggio d’acqua

in fiume.

È crollata anche la casa,

voleva scendere

più rapida delle scale

giù a piano terra,

ai cancelli – uscire

dalla promessa di piccole crudeltà.

Per questo è crollata.

Nato a Sassari nel 1968, dopo la Maturità Classica Antonio Pibiri sviluppa attenzione verso la scrittura creativa e la Musicologia, formandosi da autodidatta. Nel 2010 con Lampi di stampa (Milano) pubblica “Il mondo che rimane” ( Premio della critica, Ottobre in Poesia, Sassari, e Menzione d’Onore – Premio Lorenzo Montano, 2011). Nel 2014 “Le matite di Henze” con lo stesso editore. Nel 2016 la sua terza pubblicazione: “Chiaro di terra” con l’editore Gianfranco Fabbri, L’arcolaio, di Forlimpopoli (Segnalato dalla giuria al Premio Lorenzo Montano, edizione 2017; Primo posto per Opera edita al Plics di Sassari, ed. 2017). Gli viene assegnato sempre nel 2017 il Premio Vp-Sardinia, arti contemporanee e ricerca, coordinatamente alle istituzioni letterarie di Austria/Salisburgo. Nel 2018 pubblica “Il prezzo della sposa” con l’editore L’arcolaio, segnalato all’ultima edizione del premio Lorenzo Montano (2019). Nel 2019 il libro trova spazio critico nell’Antologia di Marco Ercolani: I fuochi complici. Ha scritto sulla sua opera: Cesare Viviani, Antonio Devicienti, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Daniela Bisagno e altri.

NEVIO SPADONI RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI GABRIELE GABBIA: “L’ARRESTO”.

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Riflessioni su L’arresto

La lettura accattivante di questo tragico intenso canto mi ha riproposto riflessioni sul trascorrere e trasformarsi inevitabile della realtà, quel “panta rei” (tutto scorre) di memoria eraclitea e “l’essere-per-la-morte” di Heidegger, con l’angoscia che scaturisce dal prendere coscienza della finitudine di ogni cosa, anche dell’amore – “[…] quel boia / che ciascuno reca in sé […]” –, e di quella bellezza che “[…] non si stringe non si possiede: / si contempla si contiene si lascia […]”. L’approdo e il naufragio nel nulla stride tuttavia con quell’anelito e quel continuo tendere che bene i romantici seppero indicare col termine “streben”, tanto che parafrasando Goethe: “Solo colui che perennemente si affatica in un continuo tendere all’assoluto, potrà essere redento.” Ma qui, non c’è alcun assoluto, nessuna redenzione, e la nientificazione pare avere il sopravvento sull’illusione dell’essere o “esserci”. Più precisamente si dovrebbe dire che tutto diventa altro, nel fluire del tempo e nell’inarrestabile imponenza crudele della vita che ci scaglia tra le cose e sembra farsi beffa della nostra hybris e del linguaggio: “[…] e nessuna parola piú / da pronunziare; solo / un rintocco languido, /lento, fino all’arresto: «Tu sei libera».” Se tutto è destinato al naufragio, perché ancora scrivere, quando anche la parola è destituita del suo significato? Se si vuole che il mondo riprincipi nuovamente, occorreranno sempre parole nuove in ossequio a quella natura (physis) che ci abbraccia e sovrasta, qui e ora, nell’attesa che l’io diventi noi nella parola: “Io sarò voi / i morti, tutti, / noi, voi / dopo di me, / quando / solo, soffierò / lo sguardo, / da ciascuno / di voi tutti / su ognuno / di me.”

Nevio Spadoni