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GIAN RUGGERO MANZONI RECENSISCE “SONETTI TEOLOGICI” DI AGUSTIN CALVO. UN VOLUME A CURA DI LORENZO MARI.

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SONETTI TEOLOGICI di Agustín García Calvo, Edizioni L’arcolaio.

Nota critica di Gian Ruggero Manzoni

 Agustín García Calvo (Zamora, 1926 – 2012) è stato un filologo, poeta e filosofo spagnolo. Ha pubblicato alcuni importanti studi di linguistica generale, ad esempio “Hablando de lo que habla”, del 1990, che ha ricevuto il Premio Nacional de Ensayo, e numerose opere in versi e teatrali, come “La baraja del rey Don Pedro”, del 2006, che ha ricevuto il Premio Nacional de Literatura Dramática. È anche autore di varie traduzioni di autori classici e moderni, da Lucrezio e Catullo a William Shakespeare nonché a Giuseppe Gioacchino Belli. Fondatore della casa editrice “Lucina” e animatore di un longevo circolo culturale a Madrid, è stato protagonista di una lunga attività poetica e politica insieme alla compagna, la poeta Isabel Escudero (1944 – 2017). Questa è la sua seconda traduzione in italiano, dopo “Della felicità”. Uno dei testi: “Inorgoglisciti della sconfitta, / che limpida l’impresa sottintende: / luce che di notte prospera, rende / più spessa l’ombra, e forse più invitta. // Dio non volle al tuo passo fretta, / già solo aver provato lo molesta; / che tu inciampassi e cadessi, codesta / di Dio è giustizia: non darle retta. // O cieco, per quel che trionfo e ottengo / mi nomini e ami? Io mi trattengo, / e in quello specchio non mi riconosco. // Sono l’atto di rompere l’essenza: / sono quel che non sono. Non conosco / via alla virtù se non l’impotenza”. Ha scritto il sempre bravo Lorenzo Mari, traduttore e curatore della raccolta: “Pur omogeneo e ordinato, il pensiero raziocinante e sillogistico di cui parla Augustin García Calvo sembra in realtà procedere attraverso due estremi opposti: da un lato il riferimento della teologia nel titolo (Sonetti teologici) e, dall’altro, alcuni versi che possono apparire superficialmente come blasfemi (Se ti dicono che Dio è infinito / di’ allora che non è; e se è finito, / che lo mostri dunque e chiuda le porte). I Sonetti teologici, tuttavia, non costituiscono né l’espressione di una qualche scienza religiosa né il suo capovolgimento beffardo […]”. Senza ombra di dubbio i “Sonetti teologici” si collocano tra gli esiti più rilevanti della ricerca del nostro linguista, filosofo e poeta, figura oltremodo complessa all’interno del panorama culturale e artistico della Spagna post franchista. Il libretto si presenta diviso in tre parti, che soddisfano ampiamente i tre requisisti necessari a una comprensione tridimensionale della poliedrica figura del pensatore spagnolo: 1) collocazione etico-estetica all’interno del panorama culturale iberico ed europeo; 2) concretizzazione del fare poetico; 3) approfondimento del suo pensiero poetante. Giustamente Stefano Pradel ha scritto: “L’impresa di Mari merita un doppio plauso, quello dovuto alla figura del traduttore, che anzitutto qui si cimenta con i limiti imposti da una forma chiusa e ne supera con agilità i trabocchetti; e quello dovuto all’operazione di recupero e divulgazione di un pensatore poco conosciuto in Italia e che, dalla frontiera della lingua, ha molto da indicarci”.

Gian Ruggero Manzoni

GIAN RUGGERO MANZONI RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI GABRIELE GABBIA, “L’ARRESTO”.

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L’arresto, di Gabriele Gabbia, Edizioni L’arcolaio.

Articolo di Gian Ruggero Manzoni, tratto dal proprio account Facebook

Gabriele Gabbia è nato il 14 luglio dell’anno 1981 a Brescia e ivi vive. Nel 2011 ha editata – nella collana «I germogli»diretta da Stelvio Di Spigno per le edizioni L’arcolaio di Gian Franco Fabbri – la silloge di liriche La terra franata dei nomi, con prefazione di Mauro Germani (vincitrice – in ex aequo con Clery Celeste – della seconda edizione del Premio di Poesia per Opera Prima «Solstizio» 2015 e premiata con “Segnalazione” alla XXVI edizione del Premio Nazionale di Poesia «Lorenzo Montano»; premio, quest’ultimo, che s’è aggiudicato nel 2013 vincendo la XXVII edizione nella sezione “Una poesia inedita”). Sue poesie e interventi critici sono apparsi all’interno di riviste cartacee, antologie di premî, blogs, websites. Intorno al suo lavoro in versi hanno scritto: Sebastiano Aglieco, Amedeo Anelli, Gianluca Bocchinfuso, Giorgio Bonacini, Roberto Carifi, Giacomo Cerrai, Diego Conticello, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Francesco Filia, Marco Furia, Mauro Germani, Stefano Guglielmin, Giuliano Ladolfi, Giorgio Linguaglossa, Piera Maculotti, Mario Marchisio, Lorenzo Mari, Fabio Michieli, Luca Minola, Elisabetta Nicoli, Giancarlo Pontiggia, Jonata Sabbioni, Maria Zanolli. L’arresto – blog «in-certi confini», Milano, 2019 (qui: http://maurogermani.blogspot.com/2019/03/gabriele-gabbia-larresto.html; e L’arcolaio, Forlimpopoli, 2020) è il suo secondo libro di liriche.

Dalla prefazione di Giancarlo Pontiggia: “Un canto segnato fin dalla poesia liminare come scoperta della «tragicità del vero», entro un orizzonte di emblemi cristologici («l’immensa corona di spine» e il «calvario» delle due poesie successive) che varranno come segni culturali, anziché religiosi. E di questi emblemi è sparso l’intero libro, non solo in termini liturgici, ma anche concettuali, se ben leggiamo, con l’attenzione che giustamente pretendono, versi come il quarto tempo de ‘La condanna’: nel contrasto fra ciò che è compiuto e ciò che è adempíto, nell’idea di una parola «che scardina / e rimuove redime» è presente in tutta la sua ampiezza, vertiginosa e verticale, la grande riflessione cristiana sul mistero del Figlio e della morte”. Innegabilmente Gabriele Gabbia, per bravura e intensa capacità nel poetare, si è già fatto notare dalla critica e dai vari addetti fin dalla sua prima raccolta di versi. Era dal 2011 che attendevamo un’altra sua silloge, ed ora, finalmente, l’abbiamo fra le mani. Dalla postfazione di Flavio Ermini: “La legge della grande esistenza – propria degli antichi viventi – è tragica, arreca l’arresto, ma un arresto in cui finalmente si compie il senso della vita: lo spirito che fiorisce eterno nello sguardo muto dei morti, mentre nei vivi si consuma effimero e quasi senza lasciare traccia. Quello spirito che fa scrivere a Gabbia: «Solo, soffierò / lo sguardo, / da ciascuno / di voi tutti / su ognuno / di me»”. “L’arresto” nasce come raccolta elaborante un lutto. Come anche altri hanno notato risulta silloge “non della fine, ma per la fine” di uno stato, quello di essere avvolto, in un qualche modo, da un mondo che, per il nostro poeta, è privo di senso, così che l’urlo del vuoto, il grido del furore, l’invettiva del nulla, assurto a “metodo esistenziale”, con calma, con millimetrica precisione, con lucidità, con freddezza, quindi senza alcun affanno, vengono lanciati verso di noi. Gabbia è chirurgico in questo: “Tu cerchi il tuo sguardo per crederti / – per figgerti –, / per trovarti e pure appendice / nel moto del vero / e finisci, solo / per lambirti, / dacché è dove non sei / che stai”. Questo è un libro potente che, tramite un linguaggio spezzato, sintetico e incisivo, scava dentro, accusando l’incapacità che, nell’oggi, l’uomo ha di raccontarsi.

(G.R. Manzoni)

L’ARCOLAIO PUBBLICA UNA NUOVA EDIZIONE DE “I PANTALONI DEL PO” DI GIANFRANCO FABBRI.

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La vecchia raccolta de “I pantaloni del Po” viene pubblicata oggi da L’arcolaio. Potrà apparire, quest’opera, vecchia e sorpassata, ma l’autore voleva vederla nel formato “libro”, perché la prima apparizione fu confezionata semplicemente in una veste molto modesta -una sorta di opuscolo -. Hanno fornito la loro competenza nella nuova veste gli amici Gian Ruggero Manzoni e Roberto Dall’Olio, che hanno generosamente scritto le due presentazioni critiche. Un grazie a loro e uno ad Alessandro Gabbia, pittore e fotografo notevole, che mi ha donato la sua fotografia per la copertina. Infine, ultimo ma non ultimo, un grazie ad Andrea Mandolesi che ha voluto curare questa edizione, a livello redazionale.

G.F.

***

Alcuni testi:

L’acqua porta amore, fradicia

del suo essere, tronfia di sapere

che il mare maschio è là,

oltre la furia dei martiri

che hanno potuto amare una sola notte.

**

Sono colpi

di quando il bordello dello spirito

decideva se prendere o lasciare

nella foschia della verginità

tutta la materia dell’orrore

in quanto piacere.

**

E adesso qui, nel turbine dell’adige;

presto ricorreranno al grido

d’acque tracciate da menti di leoni nudi,

da carotidi e topi, ancora, per disseccare l’aria

e farne fiumi.

Dopo, i timbri del maligno

prenderanno l’intonazione

e le cassepanche a pomposa

verranno e sapranno

del coro episcopale a galleggiare,

dove l’han visto in molti.

Mobili e foschie di carne,

e gabbiani ciechi in direzione del nord,

sul mento dell’acqua, sul pizzo di Dio,

sull’amaca a dondolare la slovenia,

sui passi infine di un cataclisma della paura di amare,

fosse anche la coscia della mota,

tra coltivazioni di bottiglie,

alla periferia di me

inteso e vivo.

**

L’ecclesiastico fuma la groppa della noia

ai margini dell’unghia,

nella casa del rancido e del sospetto.

In riva alla gola del fiume-figlio di ladro

/conciato con la mota, lavorato dal buio/

Ligabue tinge gli occhi di giulio secondo

per la celebrazione sull’acqua,

assieme a ratti scelti per pettinare l’erba

nata di primavera,

come le zampe della pioggia.

**

È stato cristo a camminare nel buio,

a lasciare tracce

nel mondo dell’acqua incupita

da un’emicrania lunga a finire.

I topi l’hanno visto

cucirsi la croce

e sorridere dal gonfiore della piana.

Ora le cose potrebbero uscire fuori,

come la tisi, tutte tra gli argini

a sottolineare il fiato del gorgo.

I miracoli si lavano i piedi soltanto una volta,

poi spiccano il volo sulla mitra della nebbia.

Era soltanto per morire di nuovo;

tagliarsi le vene per fare arrossire venezia

sugli occhi già pronti

ai liquori del senso.

**

Le mie dita uscite dal pantano

di certo non hanno che le loro dita

a vivere con l’acqua,

sempre temendo che nascano falangi

di gnomi.

Sarebbero gnomi di arti e di alchimie

venuti fuori dal terriccio,

insieme ai mobili sull’argine di me

per tingere gli occhi delle arpe.

L’acqua insiste nel suo corso,

come l’idea di un pazzo cocciuto:

«Vado via per andare

anche se non so

e come poterlo dire non riesco,

ma vado e so di non sapere,

per cui tengo

ad essere lento, e con curve

ancheggio la mia vita»

                                    Testamento del Po

***

Un frammento dell’intervento di Gian Ruggero Manzoni:

(…) A seguito di quel che ho detto, in Gianfranco e in me domina l’idea che oltre alla realtà percepita con i sensi, ne esista un’altra più profonda a cui solo il poeta può dare luce, grazie al potere evocativo della voce che risulta dotata della virtù prodigiosa di evocare quello che si nasconde dietro le apparenze, gli indizi, il sembiante. 

I pantaloni del Po hanno quindi dato l’avvio a questo percorso di ricerca in cui le parole risultano acquistare un significato simbolico capace di fare intuire, se non comprendere, verità sconosciute, consegnando, a un secondo piano, il valore dei termini usati, in modo da lasciare emergere, via via, i vari elementi che compongono quella realtà celata la quale, nella sua totalità, senza alcun azzardo, definirei: assoluta, e questo tramite figure retoriche e allusive quali la metafora, l’analogia, la sinestesia, l’allegoria, o accostamenti imprevisti, a volte ambigui o quel tanto ermetici, in modo che, come la musica (che gli umanisti volevano vicina, non a caso, alla matematica e alla geometria), la composizione giunga al lettore, o fruitore che sia, come fosse un effluvio, una fragranza, un aroma, a momenti anche forte, carnale, persuasivo.

Fu Baudelaire che per primo parlò della «poetica delle corrispondenze» secondo la quale la natura è un arcano che l’uomo comune può solo avvertire, mentre è compito del poeta fare emergere le attinenze, le affinità, le equivalenze che esistono tra tutte le componenti, formanti la dimensione in cui viviamo e di cui facciamo parte, che legano tra loro i fenomeni sensibili, dando infine un volto all’unità. E sono l’intuizione e l’immaginazione quelle chiavi che aprono il pentagramma della struttura poetica, creando un canone in cui originalità, atipicità, arditezza, ingegnosità sintattica risultano portanti l’edificio… quell’edificio elevato in cui dimora, ancora, l’espressività di Gianfranco.

Inoltre non si pensi che il suo scrivere, comunque votato allo straniamento, manchi di intenti anche civili e morali, e I pantaloni del Po ne sono una prova, infatti, il taglio, l’unghiata, lo schiaffo a una società che sta distruggendo il pianeta nonché certi valori portanti il nostro essere, qui e là giungono, e quel tanto rancorosi, decisi, impegnati, non facendo sconti. Del resto è pur anco di una ricerca di dignità che stiamo parlando, di un bisogno di sicurezza, di una dilatazione nel bello, di un cullarsi nei ritmi armoniosi del paesaggio e in ciò che di avvincente e sacro, come uomini, siamo riusciti a costruire, dando libertà alle percezioni più ancestrali, così da raggiungere il nocciolo… il fulcro… del senso.

La parola apre a Gianfranco Fabbri, in questo caso poeta-veggente, poeta visionario, tutte le sue euristiche potenzialità, alla scoperta di «quell’anima per l’anima» che Rimbaud voleva quale «deragliamento della coscienza» in favore dell’allusivo, dell’ammiccante, del sensuale, componenti che, se miscelate, portano alla rivelazione e, quindi, al meritato piacere, dopo così estenuante lotta tra progetto accertato e fantasma del nulla.

***

Frammento dell’intervento di Roberto Dall’Olio:

Il fiume è un golgota

siero di veleni per il sonno

            del faraone.

La fede di satana è scivolata

nei pensieri di talete

oltre le coltri

dei respiri degli dei.

 Il demoniaco ha preso possesso dei puri pensieri di Talete. È avvenuta la contaminazione tra il male e il pensiero logico-matematico, ne siamo discendenti: da questo punto in avanti il pensiero scientifico, motore del progresso, è anche portatore di disastri, uno su tutti quello ecologico, di squilibri tra mente e corpo, tra uomo e natura, tra pensiero e realtà, tra sesso e amore…

… il bordello dello spirito

decideva se prendere o lasciare

nella foschia della verginità

tutta la materia dell’orrore

in quanto piacere.

Il bordello dello spirito, ancora una sottolineatura della decadenza, del marcio che opera dentro al guscio della civiltà, delle sue “magnifiche sorti progressive”. Apparenza e realtà non possono ignorarsi, si intrecciano e si scambiano i ruoli dentro e lungo quella corsa che il Po pure con i pantaloni che Fabbri gli ha fatto infilare rappresenta. Quella storia altra, nascosta, segreta, scandalosa come è la poesia di Fabbri, tenuta insieme da una pulizia e da una nettezza del verso che fa apparire il tutto più digeribile, ma le metafore sono davvero portentose e “maledette”, nel loro angelico rivelarsi:

Nella coda l’anguilla vede la Bibbia

scritta dal macero del vento garbino,

che viene sopra gli occhi

a chiudersi nell’habitat-lamento

del canneto.

L’anguilla vale il serpente e vede la Bibbia con la coda, l’anguilla che vive il fiume e vive il mare e dunque è soggetto ermafrodito e bisessuale per antonomasia dentro l’ambiente incerto del canneto, non una foresta oscura, ma certamente un luogo di perdizione, di lamento, tra terra e acqua, gorghi e terreni labili, senza vento, non c’è vento nel vento dirà poi il Nostro con un fantastico verso.

(…)

La lingua del Fabbri poeta, siamo nel 1980, non assomiglia a nessuno, si spappola e si raggruma in un testo che sembra solo sfiorato dalla storia che aveva frantumato gli argini del vecchio dopoguerra attraverso la contestazione degli anni Sessanta e Settanta. Eppure I pantaloni del Po sembra non risentire di questo clima, ma neppure anticipare il riflusso degli anni Ottanta che stanno incominciando. Appare come un unicum stagliato in un anno decisivo per l’Italia e per una delle regioni bagnate dal Po, l’Emilia-Romagna insanguinata dalla strage della stazione di Bologna e di Ustica: un testo che si regge su un impianto metaforico estremo e “scandaloso”, portatore di una carica erotica irreale e per nulla sfumata, tuttavia dentro una forma levigata, sorretta da una solida prova di ingegneria metrica e sostanziale.

Un libro che vale davvero la sua ristampa dato che se ne erano perdute le tracce in volume e che fa parlare un “covo”, uno dei tanti covi letterari delle tante Italie frutto di quel «Manifesto del Visceralismo», Manifesto e movimento di cui Fabbri e Manzoni, il poeta prefatore di questo libro, furono due dei fondatori ed estensori. In ogni caso non deve tradire una certa decadenza e fatiscenza che aleggia nei versi del poeta: trovo che invece nel loro insieme essi siano carichi di speranza, per dirla con Stevenson, non sono giunti a una meta, a un fine a una fine, ma si posano piumati sull’anima delle cose ed esprimono antimelodie che fruttiferano fuori stagione.