Marco Ercolani recensisce sul Suo blog “Scritture” l’ultima silloge di liriche di
Gabriele Gabbia — L’arresto (L’arcolaio, 2020).
La lezione di Ernst Meister («…Si serra / a me e a te la fine…») innerva la poesia di Gabriele Gabbia, in questo libro petroso ed ellittico incorniciato dalla prefazione di Giancarlo Pontiggia e dalla postfazione di Flavio Ermini. Il lettore può usare, come guida alla lettura, il verso di Mario Benedetti, una delle tre epigrafi al libro: «…che tutto sia per la fine». Ma questa realtà “per la fine” è articolata da Gabriele Gabbia attraverso poesie filosofiche fissate in soprassalti psichici che evocano i sursauts beckettiani. Il poeta si ausculta al limite di un tacere assoluto, di un naufragio senza ritorno. «Dal suo tentativo, l’equilibrio / non perde l’abisso / cui è attratto; rattratto / eccede — aggetta, si muove / alla luce dell’ombra, ove / precipuamente si centra: librato». Come l’equilibrio non perde l’abisso, è vero anche il contrario: che l’abisso esige la sua misura, la vertigine del maelström — il suo naturale punto di quiete. «La parola che scardina / e rimuove redime» è un “segreto” manifesto di poetica.
Scrive Pontiggia: «Un canto segnato fin dalla poesia liminare come scoperta della “tragicità del vero”». Gli fa eco Ermini: «La legge della grande esistenza – propria degli antichi viventi – è tragica, arreca l’arresto, ma un arresto in cui finalmente si compie il senso della vita». Gabbia si esprime trattenendo la voce, togliendo enfasi a ogni logica poetica, realizzando un libro laconico e prismatico che irradia un’angoscia spoglia di echi biografici ma vibrante di vacillamenti cioraniani. Tutto si è già compiuto e ai superstiti non resta che fare arpeggi fra le rovine. Questi “arpeggi” sono “l’arresto” dal quale, nel buio, con voce fioca, il poeta riprincipia a parlare.
Una considerazione di Matteo Fantuzzi su Sonetti Bianchi, il libro di Gabriel Del Sarto inserito anche in una temperie politica. Blog UNIVERSOPOESIA-STRISCIAROSSA
La campagna elettorale, si sa, è qualcosa di meraviglioso: mentre dovremmo usare il modo di portare le nostre menti più illuminate all’interno del Parlamento per discutere (ad esempio) della crisi economica, dei conflitti bellici a pochi passi da casa nostre, delle bollette di luce e gas sempre più alte che portano i nostri esercizi di prossimità a chiudere, del conseguente aumento delle materie prime che sta portando in ginocchio buona parte delle famiglie italiane… in tutto questo qualcuno trova il tempo per concentrarsi, bontà sua, su un cartone animato.
Peppa Pig, Lincoln Loud e Fratelli d’Italia
Peppa Pig è il responsabile cultura di Fratelli d’Italia che si accorge solo adesso della presenza del personaggio di Penny Polar Bear all’interno del celeberrimo Peppa Pig. Penny Polar Bear è a scuola con la maialina e un giorno in classe disegna la propria famiglia seduta nella propria cucina intenta a mangiare spaghetti. Penny Polar Bear, dice, vive con la sua mamma e l’altra sua mamma (così si presenta alla classe): una è un dottore e l’altra cucina spaghetti. Apriti cielo. Viene intimato alla Rai di non trasmettere l’episodio, ad oggi non ancora andato in onda sul canale tematico Rai Yoyo, destinato a un pubblico all’incirca tra i 4 e i 7 anni.
Richiesta folle, nessun elemento disturbante, nessun punto di vista deviato: una famiglia mangia spaghetti. Ma se questa e le altre persone trascorressero un poco di tempo con i loro piccoli cari probabilmente non si sarebbero sorpresi così tanto, perché da molti anni un cartone racconta una famiglia simile. Sono Howard e Harold McBride che compaiono nella serie di Nickelodeon The Loud House, in Italia tradotta come “A casa dei Loud”. Sono i genitori (gentili, sorridenti, amorevoli) di Clyde, il migliore amico di Lincoln Loud, protagonista del cartone: sono due papà e uno dei due è “addirittura” di colore. Apriti cielo.
“Sonetti bianchi”: tra inclusione ed esclusione
In questa memorabile campagna elettorale dovremmo forse lanciare un segnale e decidere se vogliamo sostenere chi vuole includere o chi vuole escludere. Perché se decidiamo che solo un tipo di identità e una sorta di perfezione ideale è valida, allora chiunque si distacca da questa narrazione e da questa identità deve essere perseguito. E non è semplice andare contro una società ipocrita e perbenista fatta di virtù pubblica (e magari altro nel privato), ma è possibile se si decide di includere ancora una volta lo “straniero” inteso come estraneo, cioè lateralmente qualcosa di differente da quello che si è, per identità, colore della pelle, orientamento, religione, fino alle condizioni fisiche e di salute.
E in questo senso credo che sia splendido concludere con questa prosa poetica contenuta nell’ultimo libro di Gabriel Del Sarto, Sonetti bianchi. In questo libro l’autore accoglie (nel senso lato del termine) un figlio, Giona, che aveva due possibili destini, non nascere o essere considerato speciale. Essere considerato. Da una società orientata verso la “normalità” e che non considera tutta una serie di persone che per mille motivi vivono in maniera differente e che non per questo hanno meno bisogno di quella serenità di fondo che dovrebbe essere alla base di ogni nostra convivenza.
[[[Una prospettiva di vita con te. Ci ho pensato la prima volta quando avevi due mesi. Un tramonto di settembre, la vista dalla porta-finestra del terrazzo sulla vallata arrossata. Ti fissavo tenendoti stretto a me, una specie di fascia-marsupio. C’era una musica e roteavo nella stanza. Anche tu, ne sono ancora convinto, mentre mi fissavi ti sei commosso, forse a causa di quei neuroni che si attivano per imitazione. Pensai: ho sempre molte cose da fare, due o tre lavori per riuscire a tirar su gli altri e adesso anche te, le mie vicissitudini e qualche altro progetto effimero. Ci stavo girando attorno. Sapevo e so che tutto nasce quando provi a immaginare il futuro, il mondo fra pochi anni, un decennio o poco più. Il 2030 appare lontano e buio. Tu, Giona, ci sarai? Sarebbe importante saperlo mentre immagino allevamenti di cellule bioniche, l’industria delle nanotecnologie, gli innesti che potenzieranno i più ricchi di noi senza dolore. Sì, sarebbe importante mentre osservo con sgomento il presente di una guerra carsica, che ogni tanto appare in superficie nella forma di guerriglie regionali improvvise, causate da un dio o da giacimenti di litio, dai mercati o da rivendicazioni piccolo-nazionalistiche. Episodi di un conflitto su vasta scala.
Ti lancio qualcosa, sembra un grido senza voce, sembra un’onda senza ragione.
Ti lancio qualcosa, non è di metallo e ha un sapore sconosciuto, una natura cosmica.]]]
Ecco oggi come sempre il problema non è la definizione di normalità, ma quello che anche politicamente si decide di portare avanti, inclusione o esclusione. Anche su questo saremo portati a decidere in questi giorni.
Gabriel Del Sarto, Sonetti bianchi, L’arcolaio 2022.
Un nuovo autore viene a far parte della “scuderia” de L’arcolaio. Si tratta di Oddo Mantovani, un autore marchigiano, dal passato molto ricco di esperienze culturali. Ricco innanzitutto di vasta e ineccepibile cultura umanistica: studente a Roma, dove ha conosciuto importanti letterati e poeti dell’epoca. Primo fra tutti, Pier Paolo Pasolini, che volle pubblicare alcune delle sue prime poesie nella prestigiosa rivista “Nuovi Argomenti”. Docente di greco e latino, successivamente, nella sua amata regione. E’ apprezzato da diversi poeti delle ultime generazioni, tra i quali Michele Bordoni ed Emanuele Franceschetti. Il dettato di Oddo è classico novecentesco, pulito e teso come una corda di violino. Un dettato elegante che sarà di esempio a chi vorrà mantenere il verso italiano nel suo giusto valore.
Ma dirà meglio di noi Mirella Vercelli, l’autrice della bella prefazione al libro.
Seguiranno poi alcuni testi.
Buona lettura.
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Oddo Mantovani: certo uno sconosciuto ai più, nella magmatica attualità letteraria del nostro paese, ma non per chi ha avuto la ventura di leggere qualcuno dei suoi precedenti lavori:
Lettera di classe, La morte di Amleto, Dopo cena, I Sette, Personae, e per i pochi amici che hanno condiviso negli anni la frequentazione dei suoi versi. Indifferente alle dinamiche editoriali, scevro da ammiccamenti o esplicite adesioni alle varie mode letterarie, raccolto anzi in una difesa attenta della propria unicità, intimo di pochi. Figlio della provincia sa però maturare frutti di universale dolcezza e consistenza.
Questa è la prima raccolta poetica che l’autore si e ci con-cede, dopo che assaggi di giovanili composizioni erano stati ospitati in riviste prestigiose, come La Fiera Letteraria, nel 1965 e, per interessamento di Pier Paolo Pasolini in Nuovi Argomenti, nel 1968. Si tratta quindi di un amore coltivato in tutte le stagioni della vita. Ne sarebbe potuto derivare un volume ben più corposo, ecco invece una raccolta sobria, forse eccessivamente esigua, pulita nel dettato, sincera nel dire. In questi versi la vita si è venuta dipanando all’interno di una esperienza personale e umana acquisita con estrema consapevolezza, narrata senza enfasi o compiacimenti. L’ordine dei componimenti non è strettamente cronologico, pur compresi in un arco dai primissimi anni Sessanta sino al 1986, ma asseconda il volgere del processo esistenziale. I temi affrontati sono quelli su cui si interroga l’uomo, e con maggiore puntiglio il poeta, dall’alba della Storia: la solitudine: “Ogni nuovo mattino/mi risveglio so-lo”; l’amore, in versi di luce abbaglianti : “Presto affonderò nel mare del tuo corpo”, “Abito giorni di luce e sono cieco”, “Sempre mi sei sospiro nelle sere”; il trascorrere inesorabile del tempo, che consuma stagioni; “il disperso andare” del ragazzo che non sa “nulla del cielo” e pure lungo il “sentiero celeste” che forse è la terra riesce a vivere istanti di pienezza di “grazia”, “di tranquillo vigore”. Ma quando si arriva al punto che “anche la primavera sa di autunno”, ecco affacciarsi il pensiero della morte, nascosta dietro ad “ogni incantamento”; la parola, forse rivolta male, al Dio cui si chiede perché “non scese, non scende/senza darsi la croce, né darla”. Il compito del poeta è tutto nel porre le domande essenziali, non nel fornire risposte: l’autore si arrende al dubbio che la parola non sappia procedere oltre “il guscio delle cose”, la vita rimane in definitiva “inesplorata” e benché ne insegua una definizione nei libri “tutto resta ignoto”.
I libri: i libri sono stati il sostegno intorno a cui si è avviluppato il giovane stelo del poeta, studente nella capitale, e l’elemento da cui hanno tratto linfa in seguito il professore di ginnasio e liceo, e l’uomo: “Per definirmi fuggo coi libri”. Spesso si tratta di classici: Marco Aurelio, o l’amata Iliade, più e più volte visitati, negli snodi cruciali dello smarrimento del vivere, e ripresi nel tempo in cui ci si scopre orfani di parole, di fronte alla “vita che scorre e tutto passa: “ho sempre saputo, ma altrove volgevo…”. Un atto di dolore al cospetto del tempo, che come naturale chiede i suoi conti, così duri da spingere il poeta ad esclamare: “Ci sarebbe da morire prima ancora/di scoprire che si nasce per morire”. E forse è naturale che in questo frangente dell’esistenza, il lettore appassionato e colto, lo studioso, l’uomo di lettere, si rivolga alla poesia per definire i suoi pensieri, come all’arte che, sfrondata la vicenda umana di ogni inutile orpello, la restituisce nella sua scarna, essenziale ossatura. Il verso è misurato, esatto, “classico” nel solco della tradizione che nella nostra letteratura si usa far risalire al Petrarca; procede “per rivelazioni”, per successive acquisizioni, con una perentorietà, a volte, quasi epigrammatica. Si ravvisano echi montaliani: “Tu non sai che sovente t’immergi”, e leopardiani, in slarghi dove pur nell’amarezza di una rivelazione si apre il cuore: “senza paura guardi la fanciulla/che alla campagna lieve danza accenna/con la chioma che scende che la culla”. E con emozione si affaccia alla mente un altro grande marchigiano, Francesco Scarabicchi: entrambi accomunati dagli endecasillabi perfetti, dalla malinconica vaghezza, da un essere accorati senza disperazione: “come dire che tutto è trasparenze/si va per l’aria e non si ha figura”.
Anche nei versi del Mantovani si esprime lirismo mai ammiccante al sentimentalismo, ricerca estrema di purezza, trasparenza non solo dello stile ma dell’umano esistere; cri-stallina consapevolezza dell’essere, delle sue forme e dei limiti, percorsi con humanitas da una mano che non teme la ruvidezza dei labbri della ferita sotto le dita. In queste note va riconosciuta la “classicità” dello stile, le “buone cose” che nella loro lunga, alta tradizione sembrano nei versi dell’autore vestire abiti nuovi: accantonate come desuete da certe tendenze al modernismo esasperato le parole riacquistano la freschezza di un vocabolario al quale non si era più abituati. Questa è anche la ragione di esistere e proporsi di questi versi, nel mare magnum della produzione attuale, timbro di una voce che non senza titubanze si è finalmente accordata al coro della Poesia universale. Noi, che ne ascoltiamo la vibrazione da sempre, ringraziamo l’Editore per averla accolta, randagia, e la scrivente, in particolare, rin-grazia senza fine l’autore che l’ha voluta, senza che ne avesse alcun titolo, madrina di questo battesimo.
Mirella Vercelli
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Io so che sotterra il poeta sarà un bruco che ritrova i suoi sogni, l’avvertita chimera che divise il sole dalle croci, ed anche il privato natale, allora sfuggente con le stelle filanti di tutti quei lumi senza eternità.
so pure la scintilla che riporta al teschio il mirabile occhio che un tempo posava sui greti del cuore i sogni di velluto.
e so che le ossa arse e discese accanto a radici frementi avranno gemiti amati dal dio.
Oddo Mantovani è nato nel 1942 a Montegranaro, una cittadina delle Marche non lontana dal mare e non lontana dai monti; abita lì da sempre. Ha insegnato italiano, latino e greco nei licei. Ha scritto versi sin dagli anni del collegio, abitudine mai del tutto abbandonata. Ha osato anche la prosa: I sette, Lettera di classe, La morte di Amleto, Dopo cena, Personae. Affronta la vecchiaia con la lettura, sempre nella speranza che serva.
Esce per i tipi de L’arcolaio una nuova traduzione di “Quattro quartetti” del grandissimo Thomas Stearns Eliot. L’impresa è opera di Michele Montorfano che, con impegno e ineccepibile cura, si è posto a confronto con le grandi traduzioni di questa raccolta. Invitiamo i nostri lettori a porre attenzione a questa uscita editoriale che permette di verificare come le nuove generazioni pongono il loro punto di vista nel riprodurre la novità di lettura di opere così straordinarie.
Pubblichiamo qui sotto la corposa introduzione del traduttore seguita da alcuni testi.
1936. Con la pubblicazione di Burnt Norton, il tema del tempo prende avvio e si mura, fatale e irrevocabile, nei mordenti del destino. L’avvenire e la speranza, le stagioni con la loro aridità e fecondità, la vita, la tenebra minacciosa, sono il mistero thanatologico che lo pervade. La sofferenza senza nome frantuma la scrittura, buca l’angoscia e il pensiero insegue la memoria. Il presente, come scrisse Aristotele, è implicato nel paradosso della presenza dell’assente.
Quattro anni dopo, Eliot pubblica East Coker. La ciclicità e il proprio sequestro ineguagliabile è la casa. Casa che sopravvive ai suoi padroni. Casa che crolla, risorge in un moto che è l’oceano delle negazioni indeterminate e la durata è un’affermazione dalla punta sottile. Non esiste tocco abbastanza delicato, impondera-bile, per coglierla senza distruggerla. Se ci rifiutiamo di scegliere, il tempo sceglie per noi. I possibili si logorano. La durata restringe i margini della speranza.
Poi la guerra e le stagioni si confondono, le costellazioni sono visione e previdenza. La coscienza si incrina, l’orrore tinge con le proprie dita il volto impassibile della morte. La scrittura cambia.
Un morso aspro ricomincia a tormentare l’oceano. Come se l’uomo temesse l’uggiosa felicità alla quale aspira, e ambisse al pericoloso ostacolo del quale ha timore; senza continuità passa con orrore e voglia da un equivoco all’altro. Occorre osservare, meditare, mettere in guardia da chi sembra possedere tutte le conoscenze e le cure, pur mantenendo il gioco del pericolo dove il sapere si rende da se stesso inutile. Ma il sapere divenuto dotta ignoranza non cessa di essere sapere. Come scrisse Pascal, il falso è plurale, la menzogna è più diversificata della verità e il male è molto più avvolgente della virtù. Ricominciare. L’armonia ci insegnerà le cadenze e le risoluzioni che pacificheranno le dissonanze. La casa ritorna. Questo ingresso è ancora il principio della speranza che ci spinge ad avanzare.
Poi il 1941 e il Mississippi è il fiume, è l’infanzia. Il dio bruno, nel corso del tempo, misura uomini e cose attraversando la terra e la storia, scendendo verso il grande oceano. Oceano di relitti, di rottami, di lavoro. Acqua che vibra dolcemente tra i lunghi destini. Acqua che si distende, si allunga nei contrari. Se tutto è perduto, tutto è salvato solo quando la coscienza, tentata dal terrificante precipizio, si decide all’immersione. Qui il passato e il futuro/ vinti, si riconciliano e non saremo sconfitti perché abbiamo continuato a tentare, perché non è possibile “fare storia”, senza anche “fare la storia” – scrisse Ricoeur.
1942. La caduta avviene per crollo immediato. Le parole si sciolgono. In un tempo minuscolo la magia dell’anno sboccia e tutto è flessibile incurvatura e voluttuosa ricaduta sotto il cielo nostalgico di Maggio. Poi ancora la guerra, la furia. Il disastro raccoglie il mistero delle consonanze. Le stagioni sono tutte spezzate. Ma il mondo non può chiudersi su se stesso, non riesce a impedire alla cenere di riapparire come ritmo del fuoco.
Il ricordo ritorna come immagini e il passato porta a una situazione indicibile: il voto di infedeltà della memoria e l’inaffidabilità della stessa. Qualcosa avvolge il tempo verso quel limite estremo dal quale sorge e dal quale sembra essere negato. Questa legge del silenzio che lampeggia tra i margini del nodo incoronato del fuoco è la polvere grigia delle parole quando termina l’accusa della terribile aridità speculativa. Ora tutto è fragile, tutto si confonde e sparisce. Il contrasto, la contraddizione, l’antagonismo, la mescolanza tra l’eterno e l’insondabile si sfibrano nel limite estremo dove gli opposti coincidono. E un pensiero acrobatico si solleva sulla punta dell’anima, “balbetta” come dice Giovanni Della Croce, cerca le parole più opportune, fallisce.
Nascere è mancare di tutto. Morire è mancare di tutto. Riemergere dai lampi non è più lo spettro fugace della crisi o una corsa scalpitante e senza meta. La fine e l’inizio sono un tempo soltanto: l’ineffabile, semplice, tragica interruzione del perdono che espande sul fondo della durata la propria melodia orizzontale.
Ma questo delicato gioco delle entrature che si configura come un viaggio non sarebbe tale se chiedessimo al lettore innamorato di tratteggiarlo. Se questo è un viaggio, è un viaggio che non può insegnarci nulla, ci direbbe gridando senza parole, senza silenzio. Grido che è il mormorio del grido. Silenzio di parole rigettate sopra il cielo che le copre. Silenzio del proprio infinito sguardo amoroso che vede ciò che nessuna storia potrà raccontare.
Se il lettore affascinato segue con attenzione lo svolgersi di un poema o di una storia, stupendosi per i suoi punti di incendio, le ombre che si allungano diventando il nero della terra arsa o luoghi che siano la controprova della propria fascinazione, il lettore innamorato oltrepassa il balbettio del volume del linguaggio e si getta nel sequestro del proprio cuore.
Il lettore affascinato è il lettore che si trova di fronte al sintomo dell’atto misterioso della lettura, ossia la cosa che svela e maschera il carattere irrazionale della passione. Per il lettore innamorato invece la trama dei fili è il puro gioco dell’abrasione, il gioco del possesso che si torce e si angoscia, l’irrequietezza che si scontra tra le profondità della propria attenzione dissipandolo totalmente e gettandolo nella sfinita immobilità che è l’alba del proprio godimento: un’apertura sull’inatteso.
Questo bordeggio e questo ritratto tra il grido e la sospensione svelano il perimetro rosa che avvolge il lettore ogniqualvolta abbraccia il proprio libro amato lasciando la poca cosa (lui nella propria pensata datità) nella tramatura dell’opera (una datità superata dalla propria sostanzialità). Questo incontro che muove gli affari del cuore apre una crepa mettendo di fronte due differenze che giocoforza si uniscono: da un lato la parte sorvegliata attraversata dall’ossessione amorosa, un atto parodico dove il leggere è immaginare di sedurre chi ci ha sedotto e nella cecità di questo incedere, sorvegliarlo fino ad annegarlo nell’ossessione amorosa; dall’altra il piacere dell’effrazione nel chiaroscuro dei sentimenti che permette di sottrarli da ogni forma di umiliazione. Questo atto della lettura si confonde con l’erotismo delle parole, il loro tumulto, l’effervescenza del significato, fino ad annaspare all’apertura dell’intimità dove, sedotto e seduttore, si mettono in guardia, al limite dell’effusione, smantellando le proprie frontiere. In questo momento non c’è più niente da riferire perché è solo questo niente dell’intimità a contare. L’intimità è priva di finalità perché può avvenire solo attraverso l’abbandono di ogni finalità. “Non perché ci si debba superare, ma perché occorre, al contrario, sbarazzarsi di ciò che il “sé” ostacola: senza rendersene conto, un uomo veramente commosso parla una lingua che ignora.” [1] Ciò che accade allora e che apre sull’inatteso è l’esperienza di questo evento dove la perdita è la scommessa di un’esultanza continua.
Cosa vedremmo allora se affidassimo i nostri occhi e il nostro cuore a questo lettore? Forse vedremmo l’opera monumentale dei Quattro Quartetti stesa su un tavolo come una mappa, ridotta a giocattolo per giovani geografi. Una carta attraversata da intervalli, strade e contro-strade, crateri nei quali perdersi o buchi attraverso i quali sognare di guardare. Una topografia relegata a semplici colori o altezze dove il mare è orizzontale e non un luogo di avventura o di scoperte, le increspature non sono i pezzi di un corpo in continuo mutamento, ma il proseguimento irrefrenabile attraverso una pratica votata a svuotare, sconcertare, di fronte a un oblio che è la solitudine. L’abbandono nella sua scialbezza non è visto nella piena luce del palcoscenico ma come qualcosa di esaurito davanti alle parole che lentamente si spengono.
Scoprire, a un punto cardinale della lettura, che l’orizzonte è quello dei banchi di Terranova non permette di colorare i nostri occhi con la nitidezza o l’asprezza del luogo. Le stesse stanze attraversate o vissute non è chiaro se siano permeate di memoria privata o collettiva e all’effetto straniante di trovarsi in una sorta di labirinto si aggiunge il disagio di aver invaso uno spazio privo di un’identità definita. Inoltre lo sconfinio vasto dell’eco che fa risuonare la profondità delle parole appare ermeticamente isolato dal mondo mediante ostacoli fisici: la siepe di rose, il cancello, la strada infossata, muri, giardini protetti, il fogliame che nasconde le risa e i pontili che nella luce accecante del sole mimano la linea equatoriale che sfianca i marinai.
In questa geografia chiromantica notiamo allora che lo spazio è caratterizzato da uno strano riassorbimento: all’inizio è vasto, abbraccia l’universo delle differenze raccogliendo intorno a sé città e oceani, paesi e strade abitati solo dalla notte, treni e navi che lasciano nella traccia di sé il verbo del proprio passaggio; successivamente, incedendo lungo le coste e gli interstizi del poema, iniziamo a riconoscere le strade già percorse, scopriamo che in realtà i luoghi si desertificano e tutto ciò che abbiamo intorno è uno spazio ristretto, misero. Uno spazio utile per muovere le parole. Sostanziarle e abbatterle qualora diventi necessario. Uno spazio che ostinatamente cede il passo alla caparbietà e alla protervia. Come se in quell’aprirsi e in quel ritrarsi mostrasse l’anticipazione e la confutazione dell’esperienza. Un luogo insistente che attraversa il gioco dell’orgoglio dove la volontà sconfitta chiede una vendetta per raggiungere il colmo dell’orrore, per diventare qualcosa che non suscita né orrore né interesse, qualcosa di insignificante.
Il cuore dei Quattro Quartetti, la propria muscolatura, è l’affiliazione semantica al buco, alla cripta, un sotterraneo che oppone alla massima estensione della propria entrata la prassi dell’immobilità coercitiva della prigionia. Quando tentiamo di fuggire dalla morsa delle sue fondamenta, dalle sue sistole e diastole, quando rocambolescamente saltiamo blocchi di versi per trovare riparo lontano da ciò che ci ingoia, ci ritroviamo identici e nello stesso posto, costretti, attraverso la regola della ripetizione, a subire questa strana precauzione. È un gioco miserabile che entra nella forma della gioia isolando la morte dalla vita, impedendo che ognuna faccia intrusione nel cuore dell’altra. È un precipizio vertiginoso, non solo perché tenta di far sparire ciò che per sua essenza è la sparizione ma anche perché vuole riempire il baratro del precipizio differendo la morte, differendo quel vuoto e quella sparizione, così da farla scintillare, da esibirla.
Siamo così circondati da una chiusura accanita che mostra una triplice funzione. La prima è il mettere al riparo, isolare, proteggere la solitudine che si sparge. La seconda è assoggettare la solitudine alla misura attribuendo un senso alla sorpresa e simulando una profondità. Ma il luogo che dalla vastità si riassorbe e ci imprigiona, che si apre su un altro scorcio, un’altra luce deliziosa per poi rigettarci nel baratro ci infligge una pura mortificazione, la quale implica, alla lettera, il raccoglimento, “vale a dire la chiamata a raccolta o raduno delle facoltà pensanti e la concentrazione dell’energia spirituale: l’anima superficiale, sparpagliata alla periferia del suo corpo, si rifugia e si rannicchia nel torrione della fortezza interiore.” [2]
La terza è l’interruzione. La ripetizione ambiziosa che si sottrae ad ogni presa. L’interruzione negli accordi della lingua che apre un vuoto nella distesa dei sensi, un frammento, un crittogramma, una luce, un omicidio, una libertà senza nessuna imputabilità. L’interruzione apre nel cuore del linguaggio un paradosso raro: quello di un atto muto; un atto che si fonde interamente con la neve della pagina e interrompe l’avanzare delle parole, le loro impronte e il loro sforzo nella coltre che tutto rende omogeneo.
Allora una notte senza stelle si spalanca sopra di noi. L’innocenza mostra i propri cumuli di luce, le proprie zone piovose e gli strati più luminosi, laggiù dove tutto viene meno e brama il naufragio. L’istante apre la totalità degli eventi. Il vento che fa tintinnare i vetri e abbatte la siepe di rose schiaccia il luogo dove le immagini si incagliano nella totalità della loro incessante contemporaneità.
Questo è il luogo del segreto, dice il nostro lettore innamorato. Il luogo che non ha né chiusura né superamento né vittoria ma solo un’affermazione innocente: un’immensa felicità senza no-me.
Michele Montorfano
[1] F. Jullien, Sull’intimità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014, p.135
[2] V. Jankélévitch, Il puro e l’impuro, Einaudi, Torino, 2014, p. 64
La primavera nel cuore dell’inverno è la sua stagione
eterna per quanto fradicia d’acqua al tramonto,
sospesa nel tempo, tra Polo e Tropico.
Quando il giorno breve è più luminoso, con gelo e fuoco,
il sole debole incendia il ghiaccio, su pozze e fossi,
nel freddo senza vento che è il caldo del cuore,
riflettendo in uno specchio d’acqua
un bagliore accecante nel primo pomeriggio.
E divampa più intensamente di un ramo in fiamme, o di un
[braciere,
mescola lo spirito ottuso: non il vento ma fuoco pentecostale
nel tempo cupo dell’anno. Tra gelo e disgelo
trema la vena dell’anima. Non c’è odore di terra
o odore di cose vive. Questo è il tempo della primavera
ma non nel tempo convenuto. Adesso la siepe
è sbiancata per un’ora da una labile fioritura
di neve, una fioritura più improvvisa
di quella estiva, non gemme né appassimento
lontano dallo schema della generazione.
Dov’è l’estate, l’inimmaginabile
Estate Zero?
Se venissi da queste parti
prendendo la strada che probabilmente prenderesti
dal posto dal quale probabilmente verresti,
se tu facessi questa strada in Maggio, troveresti le siepi
ancora bianche, in Maggio, di una dolcezza sensuale.
Sarebbe lo stesso alla fine del viaggio
se tu venissi di notte come un re spezzato,
o di giorno senza sapere perché vieni,
sarebbe lo stesso, quando lasci la cruda strada
e svolti dietro il porcile verso la facciata insulsa
e la pietra tombale. E quello per cui pensavi di essere venuto
è solo un involucro, un guscio di significati
il cui scopo erompe solo quando è compiuto,
se mai lo sarà. O tu non avevi intenzione
o l’intenzione è al di là della fine che ti eri immaginato
e si trasforma attuandosi. Ci sono altri posti
anch’essi alla fine del mondo, qualcuno nelle ganasce del mare,
o sopra un lago buio, in un deserto o in una città –
ma questo è il più vicino, nello spazio e nel tempo,
adesso e in Inghilterra.
Se tu venissi da queste parti,
prendendo una strada qualsiasi, partendo da un qualunque
[posto
a qualunque ora o in qualunque stagione,
sarebbe sempre lo stesso: dovresti sospendere
senso e nozione. Non sei qui per verificare,
istruirti o soddisfare curiosità
o stendere un rapporto. Sei qui per inginocchiarti
dove la preghiera fu validante. E la preghiera è di più
di una sequenza di parole, il timido lavoro
di una mente che prega o il suono orante di una voce.
E ciò che i morti non seppero dire, quando erano vivi,
te lo possono dire, restando morti: il linguaggio
dei morti si incastra con il fuoco al di là del linguaggio dei vivi.
Qui, l’intersezione del momento atemporale.
È l’Inghilterra e nessun posto. Mai e sempre.
***
Michele Montorfano ha studiato cinema, pedagogia e filosofia. Ha lavorato nel mondo della pubblicità e in quello dell’educazione. Ha pubblicato Mnemosyne (Lietocolle, 2013) e Tutto il cinema è Addio (Graphe.it, 2022). Scrive per il magazine Monolith.
UNA RECENSIONE DI MASSIMO BARBARO APPARSA SUL BLOG AFOPATIE SUL LIBRO DI CARLOTTA CICCI, “SUL BANCO DEI PESCI”. COLLANA I CODICI DEL ‘900.
Prima o poi, si arriva a un punto in cui non solo ci si rende conto dei pericoli delle parole, ma ci si trova proprio in vista dei loro crepacci, del loro slittamento, della loro mancanza di aderenza al pensiero e a quello che c’è dietro. Appare, nitida, la difficoltà di costruire e mantenere in piedi con le parole una struttura di relazione. Fondami, precipitati di senso si sedimentano in fondo, residuali, consentendo l’ordinaria amministrazione del linguaggio sociale; tuttavia, anche con un minimo di applicazione, si capisce che una vera pratica del silenzio, la sola soluzione possibile, è difficile, quasi impossibile senza accettarne fino in fondo le estreme conseguenze, ultima la solitudine, al tempo stesso destino finale e origine del mondo, sfondo su cui mettiamo in scena povere pantomime. Ma come dare valore al silenzio degli altri? E che valore? E come non riconoscere, ancora, dopo tutto, dopo tutto questo tempo, la parola di troppo? Come è possibile non riuscire ancora a confinarla in un flusso di coscienza qualsiasi, interno e sigillato? L’aporia della struttura di relazione operata dalla parola è attenuata dall’intenzionalità, chiave che regge l’arco, umana ma forse anche ontologica, dall’attenzione, dalla cura (anche affettuosa). Silenzio. Eliminare, sopprimere ogni retorica, se proprio il dialogo non può essere muto. A dialogare dovrebbero essere i gesti, i corpi. Gli animali come alternativa all’uomo: una forma di comunicazione che fa a meno della parola, una «solitudine pura e una pace profonda» (Murakami, 1Q84, 2011-12). Solitudine e silenzio si stagliano, unico orizzonte di senso, come quando, dopo aver attraversato una pianura, si inizia a scorgere una catena di montagne, le cime candide, in una giornata di sole, e poche gloriose nuvole.
Tutto questo è molto poco praticabile, e vivere in società richiede un doppio standard, come non bastassero le complicazioni. Decifrare, decodificare, capire oltre, e il surplus leopardiano di sofferenza che ogni conoscenza spinta agli estremi comporta. In un mondo senza senso, ci sono cose con gradi diversi di realtà. E tutto, per noi, ha smesso di essere soltanto reale. Non si è mai parlato così tanto. Scritto. Superinflazione delle parole. A volte il silenzio si apre. Radura. E se ne vede l’origine. Interiore. Il più delle volte non è uno stupore, ma uno sguardo lievemente attonito a dircelo, senza obiettivo, senza ormai messa a fuoco e privo di ogni profondità di campo, muto, verso l’esterno, senza limiti, in cui l’interiorità, vuota, tende a invertire la corrente, come quei fiumi che d’estate per poca portata lasciano indietreggiare l’acqua del mare.
Ci si aspetterebbero grandi rivelazioni, intuizioni, invece niente. Il niente trasale come un fondo, estremamente dilatato, in cui gravitano le cose. E si percepisce il contrasto tra lo scollamento delle cose su questo pianeta e il grande, incommensurato vuoto che è lo spazio tra le cose conosciute.
Ci sembra di riempirlo, con le nostre soggettività e i loro sussulti, e proprio nel momento in cui ci illudiamo di avere un nostro posto, uno spazio nel mondo, invece è come se fosse lo spazio a entrare, a volte, in noi, a riprendersi il suo, di posto. Il più delle volte. A corto di parole e a corto di silenzi. Ai ferri corti con la poesia, perché troppo intima (interiore), troppo trasparente. Ogni tanto, voglia di scrivere per il puro desiderio di essere incomprensibile, al massimo grado. Ma non si può fondare una poetica sulla cattiveria.
I poeti sanno come far fronte alla carenza di parole e di silenzio. Sanno trovare un punto – non necessariamente di equilibrio, ma di stasi – tra gli estremi. Solo quelli di valore riescono a tenere gli estremi in quel punto. Singolarità in cui infinito e finitesimo si toccano come una cosa sola. È necessaria, per questo, una perizia estrema, un estremo senso della misura, la capacità di tenere la smisuratezza delle cose che si maneggiano nello spazio della pagina. E fa una certa impressione notare tutto questo in un lavoro d’esordio di una poetessa molto giovane. Sul banco dei pesci (2022), di Carlotta Cicci, colpisce per maturità e cifra. Da sempre incoraggiamo poetiche della misura e del frammento, e se questa posizione è pacifica dal punto di vista di chi ha trasferito questa poetica nella prosa (accettandone, va da sé, il declassamento a stile), il lavoro della Cicci colpisce perché restituisce una praticabilità inattesa alla scrittura poetica perché capace di andare oltre il frammento. Non è solo questione di misura, di asciuttezza e di adesione alla forma breve, di per sé qualità notevoli, ma anche di potenza e rigore costruttivo:
Il fuoco pulisce la mia scomparsa / perdo il mistero dell’opera / che riflette le crepe // sono l’altro sguardo / delle cose // perversa e delicata / mi compio / nei dettagli sterminati / interrogo l’ordine […]
e evocativo:
non ti seguo / sono distratta / non traduco la lingua / la postura
con una scrittura a tratti carnale:
Vorrei cadere / nel nero dei tuoi occhi / in uno spazio tenue // battezzi la bocca / con la mia umidità / la mia schiena / chiede pietà
lo strappo mi respira contro / lo sterno si ribella // […] // con le mani congedo / qualsiasi direzione / qualsiasi dio /come briciole di pane / dalla tavola
In Le tre del mattino Gianrico Carofiglio fa dire a un personaggio femminile che «tutti, siamo entità frammentate: una sequenza di emozioni, inclinazioni, tratti, desideri che ci tirano in direzioni diverse, in modo contraddittorio», e che «bisogna dilapidare la gioia, quando ci sorprende, perché è l’unico modo per non sprecarla». Si potrebbe operare una forzatura dicendo che quella dilapidazione ricostituisce quella frammentazione, una volta abbandonata la pretesa del controllo e dell’unità. La scrittura di Carlotta Cicci ci offre uno sguardo sulla frammentazione dell’esistenza per via della frammentazione delle parole, tenuto insieme dalla consapevolezza del ritmo, che è sempre accennato, piuttosto un incedere, legato a una piacevole confusione della visione interiore con quella del mondo, probabilmente frutto anche della sua pratica della fotografia. Le immagini che Carlotta ci offre ci portano a un punto in cui, come dice Ercolani, «chi scrive non sei più tu, non siamo più noi. Qualcosa ci pervade tutti, ci persuade, si scrive attraverso di noi […] L’antica invenzione della maschera avverte, al di là del suo scopo teatrale, che l’uomo trascorre la vita volendo essere altro, non tanto per somigliare a creature diverse quanto per negare il suo stesso volto. La letteratura è un linguaggio opaco che, nella tessitura del testo si fa trasparente e si assottiglia. Il trionfo del linguaggio e il suo cancellarsi. La scrittura vive i confini Incerti di ogni parola e i confini scorrono dappertutto. Fare arte è esserne consapevoli, resuscitare, ricomporre, ripensare, risognare» (Marco Ercolani, L’età della ferita, Milano, Medusa, 2022).
Carlotta Cicci, Sul banco dei pesci, Forlimpopoli, L’arcolaio, 2022, € 14