LA PAROLA DIFFRATTA DI GABRIELE GABBIA di Alessandro Bellasio
Libro scarno e ripido, L’arrestodi Gabriele Gabbia (L’arcolaio, 2020) possiede il magnetismo proprio dei libri a lungo meditati e nei quali la parola ha stretto un patto di sangue con il pensiero, con una visione del mondo innegoziabile, univoca. Poche poesie, anch’esse scarne e ripide, a tratti quasi sbreccate o amputate, dove l’autore – alla seconda raccolta dopo La terra franata dei nomi – fa i conti con una condizione perfettamente espressa fin dalla copertina: uno spioncino attraverso il quale si scorgono delle sbarre. È da lì che si incontra il mondo – o meglio che non lo si incontra, ma lo si guarda nel tentativo di rievocarne il ricordo. L’arresto è, in prima istanza, il posto di blocco o lo sbarramento che media l’esperienza dell’essere, dell’esistere. Ed è quindi anche cella di detenzione, la prigionia di chi osserva le cose da una condizione di allontanamento originario, di esclusione dal dominio della presenza: l’arresto è questo essere sottratti da vivi ai vivi, fino alla vertigine di non essere più nessuno, o tutti.
Io sarò voi — i morti, tutti, noi, voi dopo di me, quando solo, soffierò lo sguardo, da ciascuno di voi tutti su ognuno di me.
L’assenza è la cifra di chi è sottratto, la cifra dell’arrestato: egli viene meno, non c’è più. Ed è allora che le cose cominciano a giungergli da molto lontano, screpolate, diffratte. L’esperienza in Gabbia è vissuta e restituita già sempre come ricordo, prima ancora che accada, ferma «da sempre verso questi occhi in cui | tutto è stato». Nel dominio dell’assenza è la sostanza stessa a farsi vacua, volatile – e la vita è «il divenire incarnato d’un calco». La tensione si raccoglie e si rivolge così verso l’interno, dove tuttavia non trova più l’appoggio di alcuna interiorità, ma solo la stessa voragine ontologica che aveva precedentemente rinvenuto nell’esterno. L’occhio allora arretra, si blocca, non ha che sé stesso sospeso a mezz’aria, nel vuoto, e la parola è questo grafema oculare arrestatosi un attimo sul nulla, prima di svanire.
I.
Tu fughi ogni inizio. Non permane questa vista, questa offerta, questa ridda composta, appena lambíta, intuíta, dell’ordine cieco, deciso, dell’occhio.
II.
Mente, l’occhio nella sua cocchia; solo empie vuota sciacqua – e rabbercia il suo cavo: nulla.
III.
Ho sempre guardato – guardato – dal nulla da cui vedo i corpi della soglia, là dove sono rimasto a fissarne la fissità inquieta
d’un nulla.
(Recensione edita all’interno del blog “Poesia, di Luigia Sorrentino — Il primo blog di poesia della Rai”, il giorno 6 febbraio 2021.)
Vito M. Bonito, “di non sapere infine a memoria (1978-1980)”, L’arcolaio, 2021.
Pubblicato il 27 Gennaio 2021 Di Vito M. Bonito su L’estroverso
16 marzo 1978: a Roma, le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro – uccidendo gli uomini della sua scorta;
9 maggio 1978: Moro viene giustiziato dalle Brigate Rosse; avevo 15 anni
28 maggio 1980: a Milano Walter Tobagi viene ucciso dalla Brigata XXVIII marzo; avevo 17 anni
prima e dopo altri furono assassinati – ma non so dire perché la mia memoria torna di continuo a questi due eventi, come una brace, un filo a piombo sul sangue
i salti di memoria, le fratture temporali, le inesattezze sono volute – questo libro non vuole ricostruire niente – non sa, né potrebbe farlo; all’oscuro com’è anche di se stesso.
Inizierei con queste poche frasi (che poi sono parte della nota finale al libro).
di non sapere infine a memoria (1978-1980) attraversa 7-8 anni di studio e scrittura. Nel dissesto della memoria di un adolescente che allora ‘faceva’ politica, si sono inserite letture non più casuali, non solo documentarie e testimoniali. Né esclusivamente saggistiche. Nei buchi della memoria si sono ricomposte voci vive e morte di allora e di adesso, voci di poeti che mi venivano incontro a tenere a freno la lingua, ogni possibile dizione ‘poetica’ (sia chiaro, a scanso di equivoci, ogni mio neppure rasentare l’insignificanza della prosetta in prosetta – asservita, assertiva o non-assertiva che sia – o le contumelie rococò di una qualsiasi scrittura che si presume ‘di ricerca’).
Il libro è organizzato secondo una scansione pseudo-tragica. Pseudo dal momento che ci sono all’interno dei ‘fuoriposto’, degli inserti grotteschi, talvolta comici (se così possiamo dire), indisciplinati verso una possibile forma del testo.
Nella partitura del libro, le figure si inseguono in coro, si alternano e si sovrappongono ma quasi assentandosi l’una dall’altra. Chi parla è conficcato nella propria fine. Gli unici spettatori, forse, di questa fuga di voci sono Stalin e Mao che, morti, guardano la televisione e assistono (stupefatti, compiaciuti, luminosamente retrogradi) al delirio storico, politico e ideologico da loro stessi innescato.
Dentro il bagno di sangue che furono i cosiddetti ‘anni di piombo’, galleggiano uomini e donne, vittime e carnefici, figlie e figli che furono toccati, feriti, esplosi. Compresa ogni forma di memoria che sebbene tenuta in vita si dirada pur di sopravvivere a se stessa.
di non sapere infine a memoria (1978-1980) si è costruito così, senza una ragione esterna, senza una decisione volontaristica di intervenire, di dire ‘qualcosa’ su quei tempi. È un soprassalto di fantasmi che mi abitano, fantasma io stesso, non so perché.
È il libro di chi non sa pensare, non è in grado di pensare cosa sia stato vivere in prima persona quei terribili eventi. Cosa è stato uccidere, cosa morire. Cosa essere sopravvissuti a tanto orrore.
A un eventuale lettore potrei dire che il libro inizia con un canto dei bambini monocellulari (quasi parola amniotica di chi poi prenderà in mano le armi per una rivoluzione mai avvenuta e di fatto negata proprio da chi le armi le indossò) e si chiude con uno stasimo fuoriposto (le figlie i figli, anche di pochi anni, che videro spazzate via nel sangue le vite dei loro padri). All’interno di queste due sezioni, le vicende tra il 1978 e il 1980 – trasfigurate, balbettanti, insensate quasi.
(nel libro tutto ciò che è in corsivo è da leggersi come le voci di Moro e Tobagi)
LA CADENZA DEL REMO: L’OPERA INCERTA DI ANNA MARIA CURCI (DI GIUSEPPE MARTELLA)
Pubblicato il 2 febbraio 2021 da redazionepoetarum Lascia un commento Anna Maria Curci,
Opera incerta, L’arcolaio2020
La cadenza del remo: l’Opera incerta di Anna Maria Curci
di Giuseppe Martella
Già dall’esergo iniziale pare che, in questa nuova raccolta di Anna Maria Curci, l’intreccio enigmatico di Nei giorni per versi si apra a stella o a spugna, perché il cuore assorba la linearità degli eventi in una unica sospensione dei suoi battiti, che faccia epoca di una vita. Come un’operazione a cuore aperto, inizia appunto questa ultima Opera incerta dell’autrice. E non è certo casuale il riferimento (in fondo all’epigrafe: «16 giugno, 20../ another Bloomsday in my life») all’opera mondo più illustre del Novecento, l’Ulisse di Joyce, che si svolge appunto il 16 giugno del 1904, il giorno più lungo, quello in cui la civiltà letteraria fa i conti col proprio passato, gettandoselo alle spalle, archiviandolo in tasselli memorabili, in una ridda di rimandi, in una funambolica polifonia di stili, prima di trasognarsi e trasumanare nella Veglia di Finnegan, un’opera che si pone già fuori del canone letterario e oltre la possibilità della lettura lineare, per evocarne il prima e il dopo, l’incerto fuori tempo dell’oralità di ritorno, il prepotente fuori gioco delle rapsodie ipertestuali lì già mirabilmente presagito. In ogni punto di svolta della propria vita, o della storia, bisogna infatti sempre farsi spugne per assorbire il dolore del trapasso e poter poi far rifluire ancora il sangue. Così quest’opera incerta e oscillante «tra il balzo all’utopia/ e l’orrore tranquillo» (p. 30), col richiamo, nella nota iniziale dell’autrice, al De architectura di Vitruvio e alla sua tecnica dell’incastro ad embrice, che «forma muri non altrettanto belli, ma più solidi del reticolatum», chiarisce subito l’intenzione «di mettere insieme pezzi diseguali», non «pretagliati e predisposti per l’assemblaggio» (p. 13), come sono in effetti i lacerti del nostro vissuto individuale e le res gestae della storia, prima che vengano composte in un intreccio plausibile. Chiarisce insomma l’inclinazione fondamentalmente etica dell’opera, disposta a sacrificare puntualmente l’estetica allorché ce ne sia il bisogno.
Ciò viene in luce mirabilmente già dalla prima lirica della prima sezione, Barcaiola, dove l’incastro a embrice si esprime nella tensione del dialogo interiore, che si svolge in contrappunto musicale con quel bisbiglio del remo, con quella cadenza sospesa, che allude fra l’altro alla pazienza della traghettatrice, seduta sulla riva del fiume, a orientarsi nel rinnovato spazio dei flussi, a individuare gesti, profili e chiaroscuri di una possibile donazione di senso, ma sempre anche pronta a intervenire, a rispondere a ogni richiesta di traghettamento. È opportuno, nell’atto della lettura, soffermarsi su questa metafora, che riassume le sfere semantiche del tradurre, interpretare, insegnare, e insomma dell’operare in una tradizione in fieri, nel suo vorticoso mutamento, nei suoi punti cruciali, critici. Perché proprio questo è il tratto comune alla poesia e alla critica (di cui Anna Maria Curci è maestra) intese come parti del medesimo impegno della trasmissione culturale e della formazione delle nuove generazioni, nonché dei barbari che si affacciano sulle sponde del Mare Nostrum…mare monstrum (p. 73): di accogliere insomma evangelicamente i diversi, i piccoli, i reietti, i lettori. Perché quest’opera ci interpella in senso integrale e trasversale, richiedendo risposte non solo estetiche ma pratiche, e invitandoci inoltre a dialogare (negli atti più che nelle parole) fra di noi, facendo soprattutto tesoro dei lunghi complici silenzi che sempre ci attendono a ogni svolta del fiume, a ogni nuovo incontro o abbandono. Invitandoci insomma a ritessere quella tela di Penelope che è la diuturna risposta alle peregrinazioni di Ulisse, quel tessuto culturale che appare ormai orribilmente sfilacciato, sfregiato dall’appassionata insipienza che circola sui nuovi media, facendo di un mondo troppo piccolo un asilo di dementi, e conducendo possibilmente all’implosione di ogni senso comune.
Ma siccome qui siamo comunque di fronte a un testo poetico, la cui funzione dominante è quella di richiamare l’attenzione su se stesso (Jakobson), sulla sua forma visionaria e cantabile, sulla cadenza in cui alla fine appunto si compie ogni esercizio di pazienza («Leggo la musica della pazienza,/ talvolta inciampo sulle biscrome/ e all’improvviso, ecco: cadenza»; Controcanti, V, p. 31), è su questa messa in forma dell’interpellanza che dobbiamo soffermarci, sulla tensione produttiva fra le aree semantiche della pazienza e della cadenza: quelle dell’attesa, del sorriso, dell’umiltà, del sacrificio, da un lato, e dall’altro della misura, del ritmo (poetico ed esistenziale), dell’ascolto e dell’abbandono a ciò che ci chiama, da una qualche parte sempre inattesa, dentro o fuori di noi, nell’anima o nel mondo. Questa tensione è quella che anima la prima lirica, Barcaiola, una sorta di dialogo fra self and soul (il sé e l’anima, per citare il titolo di una bellissima poesia di W.B. Yeats) che costituisce la porta d’ingresso di questo viaggio periglioso e aperto a tutte le diramazioni del caso, ma anche e soprattutto ci mostra il progetto flessibile e ipotetico che regge gli incastri ad embrice di questa architettura poetica in cui la simmetria delle quartine-laterizi di Nei giorni per versi ha ceduto il posto alla disparità dei temi, dei versi e delle strofe, si è aperta come una spugna appunto, è diventata porosa, per assorbire l’ethos nella aisthesis, la spinta dinamica del carattere nell’istante perfetto della percezione. Nessuna indulgenza qui infatti al faustiano «fermati attimo sei bello», e nessuna presunzione di egemonia del canone letterario all’interno della polifonia culturale, se è vero che la splendida arroganza del Prometeo goethiano appare arrendersi di buon grado alla sfida dei giovani allievi che, col consenso della maestra, vi inscrivono «la strofa finale di Space Oddity» e il punto di vista dell’alieno androgino, Ziggy Stardust, alter ego di David Bowie, figura emblematica del Glam Rock di quei favolosi anni Settanta. Questo scendere dalla cattedra dell’insegnante («Ora può cancellare, prof, se vuole./ No, non voglio, no, non vogliamo»; p. 70) è l’altra faccia di quella sua riconoscenza verso genitori e maestri che attraversa l’intero testo, costituendone un altro filo conduttore e rafforzandone il disegno sotteso, la cui scoperta richiede l’impegno del lettore, conducendolo appunto su quel piano etico che solo può compiere la ricezione estetica di quest’opera. La tensione fra etica ed estetica costituisce infatti il sostrato di questa silloge, il suo logos, la commisurazione fra il sé e la coscienza, nonché fra le parti e l’intero.
Tuttavia etica ed estetica rimangono pur sempre due sfere dell’esserci che non possono risolversi in un unico quadro, o in una ideale autotrasparenza dello Spirito Assoluto (lo Zeitgeist hegeliano), ma debbono rimanere sempre soggette all’aut aut nell’intimo di ciascuna coscienza individuale (Kierkegaard). Sicché il trapasso dall’una all’altra comporta sempre uno iato («In bilico su toni e fenditure,/ cerca il prodigio il varco quotidiano/ senza i sipari i tuoni e le tribune»; p. 23) e dunque anche un balzo dalla luminosa epifania alla scelta cruciale (p. 88) che trasformi l’istante in epoca, proiettando il profilo o il gesto appena intravvisti nel progetto di un comune sentire e di una comunità di intenti, nella luce di una convivenza sotto lo stesso cielo. La metafora della luce pervade infatti questa raccolta, facendo tutt’uno con quella del sorriso che è luce del volto, dove tacitamente si compie l’esercizio congiunto della pazienza, dell’attesa, dell’umiltà e dell’ascolto. Perché qui il sorriso mitiga e trasfigura, al di qua di ogni parola, quella caustica ironia di cui Anna Maria Curci ha pur dato ripetutamente in precedenza buona prova di sé. Ma che ora rimane fra le righe, come riassorbita appunto nella chiara luce di un volto che costituisce il manifestarsi di una mite ma solida postura morale («Mitezza senza posa è la sua forza»; p. 65), sullo sfondo chiaro in cui si dispongono a costellazione le gemme liriche e gli annunci dell’angelo della storia con le ali impigliate nella tempesta che soffia dal paradiso (come nel quadro di Klee), con gli occhi pieni delle rovine del passato, certo, ma che sa con pazienza prendersi cura della propria dimora nel presente, gettando lo sguardo nella «luce aggrovigliata dentro ai vani» (p. 21), per ritrovarvi «gioie minute/ in scatole modeste» (p. 22) e il senso di una tregua temporanea, come sospesa a precipizio sull’orrore del «mare mostro» (p. 73), di un Mediterraneo non più rassicurante che è anche metafora dell’oscuro, incerto futuro che ci attende per una sempre più difficile resa dei conti, in un esercizio di memoria intermittente, dove sempre di nuovo l’azione e la narrazione, le res gestae e la historia rerum gestarum, così come il sé e l’anima, saranno chiamate a incontrarsi in una fantasmagoria al di qua delle parole, in una gestualità semionirica che riassuma il senso provvisorio di una vita sullo sfondo del dramma della storia, come appare nella lirica Angelos, dove l’iniziale dialogo fra esserci e coscienza trova un mirabile svolgimento nell’esercizio di una memoria intermittente: «Parla per me. Mi giunge questa voce/ dal limbo dei ricordi seppelliti.// […] Parla e racconta che mai abbiamo smesso/ di provare a salvare. Ancora non capisco» (p. 72).
Rinviandoci così all’inizio, a quella Barcaiola che contiene nei suoi ritmi lievi e figure leggiadre l’intero progetto della silloge: «Nella scalmiera remo/ bisbiglia con cadenza.// Lei, la tua mobile sostanza, smesse/ le vesti torbide, mi accoglie.// Quando riprende il volo la speranza,/ cocciutamente sai che non è fuga» (p. 19). È come una firma a pelo d’acqua sul progetto che si intraprende, quello di trasformare il bisbiglio del remo in principio speranza, attraverso una cura che sempre va rinnovata, come appare nella splendida lirica Del coltivare (p. 76).
Possiamo comprendere ormai come, attraverso l’opera della coscienza spugna, i due grandi fili conduttori del testo, il ritmo poetico esistenziale e la trasmissione culturale, entrino in svariati contrappunti, tra accordi e dissonanze, creando tutta una serie di armonici distanti e di intrecci luminosi che ciascuno percepirà a proprio talento. E come si arricchiscano e trasfigurino a vicenda, secondo le intermittenze della memoria e gli incanti del cuore. Finché pian piano il bisbiglio del remo divenga cadenza e infine armonia mundi, per quanto soltanto in prospettiva utopica, in un avvenire oltre il buio del futuro prossimo. Esplicitare questi contrappunti in dettaglio è impresa ardua e forse inutile, perché appunto programmaticamente essi sono incerti e disponibili alle più varie ricezioni, soggetti tanto ai vezzi personali quanto agli incidenti storici, facendo parte del work in progress di «un cuore pensante»[1] e pulsante, soggetto a extrasistoli, a pause impreviste, in cui l’armonia musicale si fonde con la temporalità dell’esserci, con l’angoscia (con l’«imparar da capo la paura»; p. 45) e con la cura quotidiana che si esercita anche a rischio di sublimazione o addirittura di fissazione narcisistica: «la cura si rinnova/ e la chiamiamo cruccio/ la coccoliamo come Sommo Dolore/ innamorati noi di noi dolenti» (p. 76). Così come appare nella lirica prima menzionata Del coltivare, che drammatizza la tensione irrisolta fra sentimento e forma, e fra natura e cultura, che pervade l’intera raccolta, implicando la missione ardua di coniugarli a ogni passaggio ignoto, in una eloquente lirica che aggiunge un altro tassello al dialogo intermittente fra l’esserci e le coscienza: «Del passaggio non so,/ tu affine anima mia,/ meandri e pieghe e anse.// Lo slancio riconosco,/ la luce tende braccia,/ non si fa definire» (p. 29). O in una certosina glossa al margine del libro del mondo nell’atto di aprirsi agli spazi intermediali: «ascolta, su, porgi l’orecchio/ dirama la conversazione/ traduci e chiedi, leggi e annota, / discerni e associa sotto il cielo» (p. 26). Fra l’intermittenza (p. 73) e la tenacia della memoria che ordisce e coltiva quel dialogo fra l’essere e la coscienza, nonché fra sé e gli altri, che stiamo ascoltando fin dall’inizio, così come appare in una esemplare lettera a una amica: «Così come fiorisce nella testa/ l’erica alla memoria tua tenace/ cresce questa missiva in ore e giorni/ che in altro tempo è dato consegnarti.// […] Enigma mi porgevi di parole/ che non compresi all’ora del distacco/ e che la tua pazienza ora m’insegna:/ quieta sagacia è cura, mano tesa» (p. 59). Che ci mostra in miniatura come l’enigma dei Giorni per versi si sciolga in questa silloge nell’esercizio della pazienza e della cura. Di una «mitezza senza posa» che trasformi in canto «la voce dei sommersi» (p. 65) e di una incrollabile volontà di non arrendersi (p. 58). Affinché quel «bisbiglio del remo tra due sponde» che abbiamo ascoltato all’inizio divenga infine «lingua madre», «pegno d’incanto, balzo, testimone», sia pure solo per un attimo, sotto un cielo chiaro, per un occhio desto (p. 88). Poeticamente, provvisoriamente, il miracolo può compiersi: è qui ancora una volta avvenuto.
VITTORIANO MASCIULLO, Dicembre dall’alto, Forlimpopoli,L’Arcolaio, 2018, p. 94, €11.
In principio fu La poesia salva la vita, titolo di un agile saggetto, uscito ormai un decennio fa, di Donatella Bisutti. Ad oggi è piuttosto vasto – risultando ulteriormente amplificato dalle possibilità messe a disposizione dalla Rete – il panorama delle pubblicazioni dedicate all’importanza e, attraverso l’uso di questa parola-feticcio, alla fungibilità della scrittura poetica. In barba all’elementare nozione jakobsoniana della funzione poetica – che fungibile, in realtà, non è – si discetta delle possibili finalità alle quali potrebbe servire la poesia. Nel suo libro d’esordio, Vittoriano Masciullo sembra riproporre, senza tuttavia fornire alcuna risposta, lo stesso interrogativo: “a che serve”, con la variante “a che è servito”, è infatti la stringa più ricorrente nel testo, con l’effetto di istituire un orizzonte interpretativo che non è soltanto metapoetico, ma ha anche risvolti esistenziali, psicanalitici, culturali e politici.
Come si può notare in molte delle occorrenze – un esempio per tutte, la prima: “salva però salva o a che serve” (p. 22) – il procedimento di Masciullo mantiene sempre in vita la struttura dualistica dell’interrogativo, costruendo così un libro che, come ben osserva Cecilia Bello Minciacchinella postfazione, è “gremito di opposizioni” (p. 80). D’altronde, un chiaro punto di riferimento dell’autore è Vittorio Reta – poeta del secondo Novecento che per lungo tempo è stato accantonato, fino almeno alla ripubblicazione di Visas e altre poesie (Le Lettere, 2006), per la curatela della stessa Cecilia Bello Minciacchi – all’interno di un rapporto di fedeltà, del resto mai epigonica, che non riguarda soltanto i procedimenti compositivi, ma che implica anche l’adozione di una prospettiva tematico-ideologica più generale. In effetti, oltre al notevole impegno profuso da entrambi i poeti nella forzatura sintattica della versificazione, in Masciullo vi è anche, “con le necessarie differenze, la dialettica messa in campo da Reta tra il sentimento della vita, del respiro quotidiano, delle considerazioni esistenziali, e il desiderio di sperimentare attraverso la scrittura, nutrito spessissimo, con insistenza ossessiva, di altra e varia letteratura” (p. 77).
Una dialettica irrisolta, incapace di facili trionfalismi e al tempo stesso consapevole dei tentativi di sintesi che sono perennemente in atto, a discapito non soltanto del singolo individuo, ma anche delle più diverse collettività. Tali tentativi sono costantemente promossi sia dall’alto che dal basso delle gerarchie culturali e politiche; se infatti è vero che Dicembre è visto dall’alto, nel titolo del libro, la raccolta si apre e si chiude all’insegna di un “comunque” che si può immaginare, invece, proveniente dal basso: “e al pensiero non succede / il pensiero suo e viceversa / e comunque succede” (p. 13); “nessuno // rimane // comunque” (p. 66).
In questo uso – non sempre rassegnato, anzi talvolta riottoso – non si rileva traccia di alcun fatalismo; si ha conferma, piuttosto, di quanto ha recentemente scritto Luciano Mazziotta in una recensione del libro apparsa su Nazione Indiana (20 febbraio 2020), rifacendosi esplicitamente a un caposaldo della psicologia winnicottiana: “nel momento in cui nel soggetto si verifica la paura del crollo, il crollo è già avvenuto”. Si tratta di un principio compiutamente formalizzato nell’intero libro di Masciullo – come si può notare, appunto, nell’alternanza delle stringhe “a che serve” e “a che è servito” – e che può efficacemente integrare l’ipotesi, avanzata da Cecilia Bello, di una scrittura che ambisca a costruire, o ricostruire, “sulle macerie”, intese in senso classicamente benjaminiano (p. 80).
In effetti, il crollo, in quanto sempre già avvenuto, è registrato fino alla sua più minuscola evidenza poetica, a partire da quel processo fonologico tipico della lingua tedesca, ossia la desonorizzazione o indurimento delle consonanti finali, che è citato nel titolo della prima sezione, Inaspettata (o delle conseguenze dell’Auslautverhärtung). Nonostante molti testi di questa stessa sezione (pp. 13-25) ricorrano all’epanadiplosi, la circolarità così presupposta non si realizza mai appieno: l’abisso, corrispondente a ogni “caduta” del verso in direzione del verso successivo, si può spalancare da un momento all’altro. Di questo abisso, si darà compiuta definizione solo molto più avanti – “tra me e il sé c’è un abisso di coraggio” (p. 61) – ma già nella prima parte si delinea la dimensione primariamente psico-sociale del confronto con questo baratro, in una chiusa che significativamente riprende il titolo dell’intera sezione: “lei ha una grande / capacità di affrontare / inaspettata dice / inaspettata” (p. 19).
A seguire, la seconda parte del libro (pp. 29-34) – intitolata a Ueno, quartiere tradizionale di Tokyo – svolge un ruolo di cerniera tra la prima e la terza parte del libro, instaurando un processo di transizione che è principalmente spaziale e linguistico, e non temporale né di movimento dialettico. Inizia infatti ad affacciarsi – in realtà, piuttosto timidamente, grazie ad alcune citazioni e tematizzazioni – quel plurilinguismo e quella sovrapposizione di spazi, geografici e psichici, che caratterizzerà poi la terza sezione, Nessuno spiega chirone (pp. 37-66). In questo senso, la scrittura di Masciullo può forse essera accostata ad altri esperimenti plurilingui attivi nello stesso ambito bolognese nel quale opera l’autore, come ad esempio quelli avviati da Sergio Rotino (Cantu maru, Kurumuny, 2017) o da Domenico Brancale (Scannaciucce, Mesogea, 2019). Tutti questi autori non si muovono tanto alla ricerca di una lingua primordiale e pura che emerga dall’armonizzazione di suoni altrimenti deprivati di significazione, bensì proprio nell’impossibilità di tale armonizzazione pre-linguistica ritrovano il movimento e l’articolazione che ritengono specificamente proprio della scrittura poetica.
Al tessuto mistilingue di questi testi si aggiunge poi la lunga serie di campionamenti indicati da Masciullo in calce al libro (p. 70), con la parallela costruzione di un panorama letterario e artistico molto vasto ed eterogeneo, nel quale spiccano, per una rilevanza che non è solo citazionista, almeno due riferimenti: il già citato Vittorio Reta e Amelia Rosselli. Serie ospedaliera (1969) di Rosselli, in effetti, è un titolo esplicitamente citato in un verso di Masciullo (p. 44), come punto di riferimento poetico – anche qui squadernato in tutti i suoi possibile livelli – al quale corrisponde, nel presente libro, l’esigenza e al tempo stesso l’impossibilità della cura.
D’altronde, il libro si pone all’insegna di Chirone, personaggio metodologico che “nessuno spiega” ma che Masciullo riesce a ricreare sapientemente nei suoi versi: il medico di Achille, successivamente colpito dalla ferita non rimarginabile, ma al tempo stesso non letale, inflittagli da Eracle, è la figura che meglio può suggellare l’interrogativo senza risposta che Dicembre dall’alto ha posto e continua a porre.