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NEVIO SPADONI RECENSISCE “VARIAZIONI NEL CLIMA” DI CAROLINA CARLONE.

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Nota critica di Nevio Spadoni su “Variazioni nel clima”.

 

“Salirò su un’ incudine // mi farò ferro e martello / per forgiare / ancora una parola // che suoni d’umano”. Basterebbero questi pochi versi a riassumere il senso di Variazioni nel clima, il libro di impegno civile e morale che Carolina Carlone ci consegna nella elegante edizione de L’arcolaio, arricchita dagli interventi di Luciano Benini Sforza, di Mariangela Gritta Grainer e di Nevio Casadio. È un inno, direi quasi una litania, del poeta che non può tacere e che smaschera, denuncia con grande forza espressiva, la disumanizzazione in atto nella cosiddetta civiltà del consumo, materialista e idolatra, che già Pier Paolo Pasolini aveva bollato come pervasa da un falso progresso. Il consumismo e l’indifferenza per il sacro hanno reso infatti l’uomo adoratore di feticci, come leggiamo in Oltre la luce, dove solo restano absidi di mattoni anneriti, crepe e navate diventate boutique. La sete di umano e di verità, già ben enunciata nella poesia Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo (“Sei sempre l’uomo della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”), trova nelle espressioni di Carolina Carlone un surplus di efficacia là dove quasi con un urlo contro la barbarie proclama: “Non si fermeranno / davanti a un corpo che trema / non davanti a una preghiera // Siamo già papaveri / gettati a bocconi / dentro il fosso”. Ma se il ricordo di Ilaria e Miran si fa pressante, e la cecità degli umani pare  l’unico deterrente alla spietata barbarie, sarà poi il fuoco (rimembranza eraclitea) a giudicare e a purificare il mondo. Però vive la speranza, che è quella di riportare i bambini “nel regno dei grilli / dove tutto è canto e salto leggero”, e le querce solide e lignee potranno ospitare ancora le rondini, dopo tanta devastazione. Chi non ha avuto pietà per gli umani, non si è curato neppure dell’ambiente: “Si disfano le reti / a brandelli / le nostre foreste // Il mare salva nei fondali / resine, scafi, / ossa, speranze // e piccoli morti.”.

Anche la natura urla il suo bisogno di vita ed esige quel rispetto e amore che si deve a tutto ciò che ci circonda, e questo l’ha cantato Carolina Carlone con una parola graffiante, incisiva, di supplica e di fiduciosa attesa dopo tanti tumulti, di un clima migliore. Chissà se l’uomo potrà essere un domani, come auspicava anche Karl Marx, un appagato abitatore della terra. Ma occorre, ci rammenta il poeta, una  forte metanoia, una Rivoluzione … e “spogliarsi della divisa / abbandonare l’elmetto e i suoi canti // Stendersi a terra nudi / con scritto sulla fronte / un futuro di silenzio // E come foglie atterrate / abbracciarsi // fra le schiere degli umani.”.

Nevio Spadoni

STEFANO VITALE RECENSISCE “ESSERI UMANI” DI ALESSANDRO FO

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“ESSERI UMANI” di Alessandro Fo

Di Stefano Vitale

Articolo tratto dal blog rivista “Il Giornalaccio


(L’arcolaio, Forlimpopoli, 2018)

Questa breve, ma intensa e densa ultima silloge di Alessandro Fo, racchiude in uno scrigno prezioso e nascosto alcuni tesori. Come ha scritto Dario Ceccherini nella sua bella e sentita introduzione, siamo al cospetto di una “poesia altra” per il suo ”registro antico di sermone civile”. Davvero non è cosa facile di questi tempi utilizzare questo tono, parlare poeticamente in modo fermo, ma garbato, con parole nette e precise sui temi scottanti ed attuali.

La poesiaEsseri umani che dà il titolo al libro, e che lo chiude significativamente come una forma di epitaffio definitivo, ha il peso dell’invettiva e la profondità di un discorso universale che si snoda, ed è qui la sua bellezza, senza retorica. Perché lo sguardo del poeta, oltre a esprimersi con parole giuste e misurate, sa cogliere contraddizioni che ci riguardano da vicino. L’incipit è perentorio e chiama in causa la molteplicità degli orrori del nostro tempo: “Voi, che in alto mare o a cento metri da riva/gettate in acqua i profughi ad affogare, / voi che li rapinate del poco rimasto,…/ voi che li chiudete sui treni, che la confine/ li bloccate per mesi, che innalzate muri/…voi, che fate esplodere nei mercati/ o preferite invece imbottire di tritolo/ ragazzini innocenti/voi che bombardare a tappeto/… che demolite le case dei vostri oppositori/…che sparate nei locali sugli inermi/”. Non c’è dunque un unico bersaglio, il poeta non fa demagogia né offre facili e scontate soluzioni; il poeta non è fazioso, ma è di parte: sta dalla parte degli esseri umani, dei deboli, di coloro che sono usati, maltrattati, uccisi, torturati, emarginati. Ed è questa la sua forza: richiamare alla coscienza il senso profondo della necessità d’indignarsi, dell’obbligo morale e politico di leggere la realtà stando dal punto di vista di chi subisce ingiustizie, violenze. E Alessandro Fo non risparmia nessuno: “stalkers, baby-gang, ultras e hooligans”, ma anche “voi che picchiate la moglie e i figli,/ che trucidate madre, padre, moglie, figli/ chiunque, per gelosia, un insulto, quattro soldi”…voi che per denaro operate chi è sano, /voi che abbandonate bambine e animali”. Fo individua una serie di orrori e storture del nostro tempo e, purtroppo, di ogni tempo, violenze che caratterizzano l’essere umano. La sua attenzione è globale e si schiera anche contro coloro che inchiodano “i piedi delle oche/ per lucrarne fegati più grassi/ che sterminate foche, balene, visoni/ voi che inquinate/ che date fuoco ai gatti, perché correndo impazziti/appicchino ai boschi gli incendi dolosi /voi che date fuoco ai barboni/. La poesia di Fo è fatta per risvegliare le coscienze, ma anche per far riflettere, per cogliere le nostre incoerenze, le nostre facili soluzioni. La chiusa della poesia è memorabile “considerate la vostra semenza /considerate se questo è un uomo. 27 gennaio”. Dante e Primo Levi s’intrecciano e danno il senso compiuto della poesia e della visione civile e universale del testo di Alessandro Fo. Che, come dicevo, sa far riflettere non limitandosi all’invettiva.

Così accade nella poesia di apertura della silloge stessa “Fuori Monaco”. Fo coglie il momento della visita di un gruppo di “turisti” al Lager di Dachau. Doveroso viaggio della memoria, omaggio alle vittime di un orrore assoluto come la Shoah. Il poeta usa un linguaggio piano e descrittivo, ma per questo ancora più tagliente proprio perché evidente e senza fronzoli: “Tutto è silenzio e incredibile pace/dove aguzzini e cani macinarono/persone come noi”. Oggi visitatori più o meno consapevoli, armati di fotocamere e audioguide attraversano questi campi e il “ricordo” diventa “annacquato/disciplinato,/ sottomodulato/” musealizzato e in bellissimo ed efficace rovesciamento di prospettiva, Fo coglie i visitatori in attesa del bus del ritorno, preoccupati di non essere caricati tutti “pronti a saltarci sopra ad ogni costo,/anche passando davanti a qualcuno”. Il gioco di immagini è chiaro e struggente.

Lo sguardo del poeta è critico, ma anche amorevole verso le debolezze umane, verso le fragilità del nostro animo. Il tema della fragilità umana emerge poi nelle poesie successive. In “Tre poesia per Edda Laghi Corrieri” il poeta ci mette di fronte al disfarsi della mente e del corpo di una persona anziana, ma anche alle sue arguzie: “Faccia la brava, allora, e non si scordi/ di me…”Ma noo, che cosa va a pensare?”/ Lei è troppo lungo per dimenticarla”. Di nuovo Fo, e qui lo realizza con una poesia costruita sul dialogo dei personaggi (il poeta stesso e la persona amica), innesta la compassione e la vicinanza alla sofferenza con altre tonalità carezzevoli, permeate dal sorriso. E dalla nostalgia del ricordo come avviene nella poesia “Minimi incontri” dove il poeta raggiunto dalla notizia della morte di una amica temporaneamente ritrovata. In “Opere e omissioni” è la pietas per le persone piccole che prende piede: Felicina è un nome “di quelli che ormai sono andati persi”…”nemmeno il parroco l’ha rammemorato./Come se niente”. Siamo esseri umani senza volto, che scompaiono come ombre, ma che la poesia sa cogliere e far rivivere. C’è in questi versi una stupefacente capacità di sorprendere con l’evidenza e la semplicità del ritmo, della precisione del linguaggio, della delicatezza, mai melensa, del tono e del colore. Ma non basta.

Alessando Fo in questo giro di anime perse e dimenticate ci mostra anche la sua capacità di alleggerire il peso della sofferenza: “Come salvarsi agevolmente la vita in caso di grave crisi” è un bell’esempio di arguzia, certo un po’ melanconica, ma estremamente divertita e divertente invitandoci a cercare riparo nell’antica libreria Shakesperare & Company a Parigi dove ci si troverà “nel cuore dell’universo”, dove il clima bohèmien che invita a incontrarsi,/incipit vita nova, innamorarsi”. Persino la dolente “Kay Kent” che segue ha questo tono così come anche “Lettera da Firenze”, due poesie a specchio che si rivelano l’una nell’altra raccontandoci il congedo dalla vita non di un sosia, ma si una gemella di Marylin Monroe nell’atto estremo del suicidio. In “Doni” infine il tono si fa elegiaco, nuovamente descrittivo e sospeso portandoci accanto ad un pensiero che spesso viene scacciato, quello della morte.

Alessandro Fo è bravo a cogliere in un doppio movimento, esterno e interno, il senso umano della morte: la protagonista della poesia è attratta dal rumore notturno dell’elicottero che trasporta un organo per un trapianto. “Se per caso ne avvertivi l’elica/ balzavi su e correvi alla finestra/ presa da affanno e improvviso sconforto”, ma aggiunge “sapevo che avvenire avevi in mente/disposto a testamento/ “Io che, da viva, non servivo a niente,/servirò a qualche cosa almeno da morta”. Disarmante e vero questo pensiero che la poesia ci restituisce in tutta la sua forza ed evidenza. Che ci mette di fronte alle nostre responsabilità, alle nostre scelte, alle nostre fragilità di esseri umani.

Stefano Vitale

Note sull’Autore
Alessandro Fo è nato nel 1955 a Legnano e insegna Letteratura Latina presso l’Università di Siena. I suoi libri di versi sono: Otto febbraio (Scheiwiller, 1995); Giorni di scuola (Edimond, 2001); Piccole poesie per banconote (Polistampa,2002); Corpuscolo (Einaudi,2004); Vecchi filmati (Manni, 2006); Mancanze (Einaudi, 2014, Premio Viareggio, 2014). Ha a lungo privilegiato lo studio della tarda latinità: ha curato l’edizione tradotta, con introduzione e commento, di Rutilio Namaziano, Il ritorno(Einaudi 19942); ha collaborato con traduzioni e schede alla Antologia della poesia latina (Mondadori, 1993) e ha contribuito con varie voci al manuale di letteratura latina diretto da M. Bettini (La Nuova Italia, 1995). Inoltre ha pubblicato: Virgilio, Purché ci resti Mantova, Le Bucoliche I e IX tradotte e divagate (con G. Bernardi Perini, Edizioni degli Amici, 2002); la traduzione con studio introduttivo e note delle Metamorfosi di Apuleio (Frassinelli 2003; rist. aggiornata, Einaudi, 2010); una nuova traduzione, in esametri ‘barbari’ dell’Eneide di Virgilio (Einaudi, 2012; note di F. Giannotti).
Si occupa anche di fortuna dei classici nella modernità e ha studiato in tal senso soprattutto Virgilio, Orazio, Ovidio e Rutilio Namaziano: quest’ultimo in un ampio saggio introduttivo a Rutilio Namaziano Il ritorno (a cura di A. Rodighiero e S. Pozzato, Aragno 2011).
Di letteratura italiana contemporanea ha curato varie opere di Angelo Maria Ripellino, fra cui – insieme a F. Lenzi, A. Pane e C. Vela – l’integrale delle poesie uscita in due volumi (rispettivamente presso Aragno e Einaudi, nel 2006 e 2007). Ha pubblicato il saggio Il cieco e la luna. Un’idea della poesia (Edizioni degli Amici. 2003).

ESCE IL SECONDO LIBRO DELLA NUOVA STAGIONE LETTERARIA 2017-18. CAROLINA CARLONE E IL SUO “VARIAZIONI NEL CLIMA”.

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Un nuovo autore fa capolino dall’interno del nostro catalogo: si tratta della ravennate Carolina Carlone, insegnante alle scuole superiori della propria città. Il volume è introdotto da tre intellettuali, Luciano Benini Sforza, Mariangela Gritta Grainer e Nevio Casadio, tutti e tre interessati al tema, anche sociale, che sfiora la vicenda di Ilaria Alpi. La scrittura della Carlone risulta appetibile, di svelta e sapiente lettura. Un libro che permette, pur nelle profondità che offre, un rapido innalzamento della coscienza sul mondo.

Per questa prima presentazione andiamo a pubblicare qualche stralcio della prefazione di Luciano Benini Sforza.

 

Fra gli eventi e le creature del mondo

 Un aspetto importante colpisce subito in questa intensa, davvero intensa e forte raccolta poetica di Carolina Carlone, Variazioni nel clima: la frammentazione dei versi, il loro sbriciolarsi e condensarsi sulla pagina. Ci sarà senz’altro un ungarettismo di fondo, dal momento che il tema della guerra, l’espressività, la forza delle parole, dei versi segmentati, prosciugati aiutano ad attualizzarne la continuità e la memoria, conducendoci a certo, preciso Ungaretti. C’è però di più; c’è nell’autrice la dolorosa consapevolezza di un mondo globalmente diviso, esploso, frantumato esattamente come i suoi testi: per le guerre, i conflitti, gli episodi di sangue che da tempo segnano la storia globalizzata, perché ormai ovunque un impetuoso «vento fossile / scioglie il respiro / che ci tiene insieme» (Variazioni nel clima); perché non c’è una mutazione semplice o di poco peso negli eventi, ma qualcosa di enorme «che ci ansima addosso» (Lungo i tornanti).

Non solo. Questo frammentismo è mobile, duttile, ondulatorio, lirico e post-lirico insieme, elimina o delocalizza qualsiasi centralità dell’io poetante nel mosaico dei testi, che convogliano, accanto all’io lirico, numerose figure, personaggi, oggetti, situazioni disparate, iconografie, passando dalla lirica alla prosa poetica, dal testo narrativo e monologante all’epigramma satirico, dal testo ricco o dominato da oggetti ed emblemi al micro-ritratto. Un frammentismo “liquido” (Bauman) e duttile, per abbracciare e raccontare il “mondo” (una delle parole-chiave del libro) e le sue sfaccettature, le sue mobili, varie e fluide consistenze. I suoi camaleontici, contrastanti e differenziati modi di presentarsi davanti ai nostri occhi. Il lettore sarà insieme abbagliato e catturato da questa duttilità, da questa frammentazione accentuata, ma non caotica o portatrice di entropia, perché ci sono figure, temi, una poetica e una concezione della nostra vita ricorrenti e che avvolgono e saldano ogni segmento, ogni sbriciolarsi di testo, di strofa, di verso. Una figura ritornante e variata è in primo luogo quella del fotografo-reporter, che si ripropone in immagini analoghe e affini come il testimone, il giornalista, il messaggero (secondo noi c’è un’evidente sfumatura o matrice cristiana in questi personaggi, in queste voci); non a caso la poetica dell’autrice vuole essere testimonianza e denuncia delle criticità, delle assurdità disumane e stravolte della nostra epoca, a cui allude anche il titolo dell’opera. Da questa poetica di impegno civile e morale nascono numerosi, ottimi testi ed epigrammi satirici, grotteschi, pungenti, dove ad essere presa di mira è la nostra civiltà distratta, consumistica, materialistica, mercificata: «ben sappiamo / che non è un iban / il bene // E che questo nostro mondo / sicurissimo e orrendo / è un lago di berillio» (Iban). A questa consapevolezza amara, sferzante si accompagna il tema frequente della nostra precarietà, della morte che ci soffia sul collo come una micidiale brezza, come per esempio mostrano i versi dedicati ai flussi di persone e popoli che migrano nel Mediterraneo, oppure i versi splendidi che chiudono Nella frontiera: “non si fermeranno/davanti a un corpo che trema / non davanti a una preghiera // Siamo già papaveri / gettati a bocconi / dentro il fosso)”.

 

Qualche poesia:

Due testi tratti dalla sezione “Papaveri”

Ore 13: presagi

Ancora un corpo

 

e una testa

 

riconsegna oggi il fiume

 

E ombre di fucili

la sabbia

 

Hanno già chiuso le porte

blindato gli avamposti

giurato vendetta e radar

ai molteplici infedeli

di questa Terra

 

Dicono che vi sia un traditore

che passa nella notte

tagliando gole

 

Per altri uno straniero

dal nome impronunciabile

 

che scuote il capo

come le orecchie

 

gli asini carichi di mosche

e cammina lungo la muraglia

 

che altri usa chiamare città

 

***

Nella frontiera

 

Mi hanno ucciso

molte volte

 

L’elettricità è passata

fra i miei ricordi

 

Sparigliato per sempre

vivo come la salamandra

che da trecentomila anni

non muta i suoi colori

 

 Cosa vuoi vedere, Miran?

 

Su questa volta di torba

poggiata su architravi d’ossa

che tutti sostiene e inghiotte

 

non puoi fotografare nulla

 

e nessuno è quel che sembra

 

Mostrami i documenti

 

 

la carta d’identità, un passaporto

 

Sei anche tu un assassino?

 

Non c’è nulla

che tu possa testimoniare

tireranno pietre

 

Io le raccolgo, ci scrivo la data

le riconsegno alla terra

 

Ma la verità che cerchi

ti raggiungerà di scatto

 

sul pianale di un pick-up

 

Sempre staneranno

la giugulare dal suo nido

 

non si fermeranno

davanti a un corpo che trema

non davanti a una preghiera

 

Siamo già papaveri

 

gettati a bocconi

dentro il fosso

 

***

Dalla sezione “Oltre la luce”

Migranti

 

Noi

 

la goccia

che cola dal chiodo

conficcato nella luce

 

Come cormorani

ci siamo posati sulla vostra nave

scuotendo le mani pesanti

 

***

(Ancora Benini Sforza)

Non c’è solo morte e distruzione; l’altro polo poetico-tematico della raccolta di Carolina Carlone è quello di una possibile salvezza, che ha una doppia declinazione. Salvifico può essere il ritorno ad una dimensione naturale, più autentica e vera, anche rude: vedi per esempio i testi in primo luogo contenuti nella sezione Nel bagliore verde, dove leggiamo in modo molto efficace e significativo che «noi possiamo ancora giurare / che esistono ranuncoli / in qualche prato» (In qualche prato). Oppure si legga la notevole lirica In veglia («Mi racconti la fatica immobile / delle querce / che salvano, salvano in legno / lo scorrere del tempo»). Resta inoltre un’altra via di luce e speranza; salvifica infatti può essere anche un’umanità rigenerata dall’amore e dalla fratellanza, in maniera tale che si spengano finalmente i fuochi e le devastazioni delle guerre, del cinismo materialistico, della pazzia che stanno segnando, cambiando, distruggendo le società e il pianeta: «E come foglie atterrate / abbracciarsi / fra le schiere degli umani» (Fra le schiere).