Eccoci alla prima pubblicazione del nuovo anno: si tratta di “Di non sapere infine a memoria“, l’ultima fatica di Vito M. Bonito – l’autore foggiano, da sempre residente a Bologna – il quale impreziosisce ulteriormente il nostro catalogo. La collana che ospita il poeta è la risorta “Il laboratorio“, diretta da questo numero in poi dal poeta e critico letterario Luciano Neri. Questo progetto riporta all’attenzione del pubblico le istanze socio-politiche della fine degli anni Settanta – la morte di Aldo Moro e le conseguenze psicologiche che questo delitto portò nel cambiamento di coscienza, anche in alcuni componenti delle Brigate rosse -. Il tutto, però, efficacemente miscelato con la temperie adolescenziale di Bonito. Il testo, su basi riferite a quella lontana stagione, è poi stato scritto o riscritto alcuni anni fa. Da notare la grazia dello stile letterario, sia nei momenti evocativi che in quelli, potrei dire giornalistici e documentaristici. Un’opera, questa, da leggere con attenzione. E goderne ad ogni singolo verso.
Ma ascoltiamo (leggiamo) la bella nota editoriale del direttore Luciano Neri.
L’ultimo atto poetico di Vito Bonito si dispiega entro una cornice storica in dissoluzione, il Novecento, che a stento riesce a contenere le voci cantilenanti, remote e disamplificate, cui è affidato il “racconto”. Emergono allora come “fotocomposizioni” voci della prosopopea, da ritagli testimoniali, da dettagli personali, da un sogno infranto. La lingua si avvicenda nei risvolti della storia, nella sua fibra umana più irriducibile, senza la pretesa di riordinare gli eventi di un’epoca al fine di dare credito a una verità. Tra l’oblio e i refusi della memoria si intravede dunque una strettoia in grado di circoscrivere il fallimento delle grandi aspirazioni umane, ormai conchiuso in ciascuno in una privatezza isolata e sorda, in un auto-segregazione della coscienza. Il testo fa luce su questa strettoia, a intermittenze, ad abbagli. Resta tuttavia vigile nell’opacità, con il suo mandato sacrificale, la figura dell’inquilino, solo con il proprio destino segnato, ospite da rimuovere per mano dei suoi stessi carcerieri, ai quali mostra (e ci mostra) la loro natura paradossale, ridotta all’idea dialettica e incomprensibile per la quale lottano. Nel dualismo vittima/carnefice del genere tragedia ogni possibilità di io/tu viene orientata alle sue estreme conseguenze. E i conti con la memoria, tra gli scheletri dell’oblio, vengono assunti qui dalla maschera tirannica di una visione grandiosa morta, che fa ancora le veci di un fantasma della libertà ormai svanito in se stesso, posta banalmente di fronte allo spettacolo di cui pure si è resa artefice.
Luciano Neri
Alcuni testi tratti dalla raccolta:
canto dei bambini monocellulari
gli organismi monocellulari
sono la forma di vita
di maggior splendore
un’esistenza parassitaria
che non ha bisogno alcuno
di svilupparsi ulteriormente
senza cervello senza nervi
immortali perfetti
…
solo ciò che è perfetto
non continua a svilupparsi
lo sviluppo non è altro
che un indice di imperfezione
e allora bisogna
pensare in grande
andare oltre
la striminzita misura umana
…
la morte non finisce mai
la morte finisce
me l’ha detto mia mamma
quando è morta per la sesta volta
anche il frigorifero muore spesso
di notte lo sento cantare
ogni notte
– i bambini sono i fiori della vita
e la terra dei ricordi
è fior che si consuma –
tutti amano i bambini
noi nuotiamo nell’aria
e abbiamo visto il bruco
prendere il colore delle foglie
da ciò abbiamo capito
che iddio non esiste
e ora crediamo
crediamo
in luce da luce per ogni lucissima
luce crediamo
alle meduse al ronzio
abbiamo sempre la febbre
preghiamo sangue
dalle nostre teste di ferro
…
nessuno sa dirci nessuno
quale ipotesi di felicità
gli uomini hanno sognato
prima di morire
***
ombrerosse
1978
I
il cuore dello stato
lo si poteva toccare
uccidere persino
come un neonato
io mi costruivo giocattoli
tornavo bambino
la lavanda nei cassetti cantava
io cantavo
non sei non sei
mai stato
come un parassita celestiale
entrava in me
il comunismo parrocchiale
II
siamo le ombre
delle ombre
le parrucche i Fregoli
la pura superficie d’ogni cosa
nulla di più dolce
al mondo
del sangue a girotondo
III
nessuno si accorge di niente
i fiori si muovono
nel congelatore
non riesco a darmi parola
IV
imparare a uccidere come si impara
a suonare un pianoforte
l’annientamento degli uomini
è un mondo
me-ra-vi-glio-so
una scienza empirica
una dottrina lirica
V
mi piacevano gli indovinelli
portavo il parrucchino
mangiavo gli uccelli
in ginocchio
sul comodino
VI
l’inquisizione non è il mio forte
fare fuoco sì
a poco a poco
VII
non lo sai che oggi non muori
non lo sai
che perdi la testa
se al morto nei fiori
non giochi mai
VIII
c’erano caramelle nell’aria
quando li abbiamo uccisi
IX
ha parlato di alberi
si è diviso in due
che tradotto vuol dire
il sistema imperialista
continua ad avvelenare
con la cenere e il lattosio
il proletariato rivoluzionario
la voce esce dal suo corpo
ma non parla
dice le madri che allattano
la mosca cieca
le sue mani dalle unghie ben curate
però lo hanno tradito
segretamente riferisce
ai suoi complici
di spermatozoi flagellati
di pascolare il cranio
di non sapere infine a memoria
X
soavi percosse
di un invisibile Amore
ultima risoluzione:
le stelle rosse rosse
condannano anche la pertosse