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MASSIMO NATALE RECENSISCE IL LIBRO DI FRANCESCO DEOTTO “AVVENTURE E DISAVVENTURE DI UNA CASA GIALLA”. COLLANA IL LABORATORIO.

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Massimo Natale recensisce Avventure e disavventure di una casa gialla

di Francesco Deotto

https://ilmanifesto.it

il manifesto – Alias domenica

12 novembre 2023 anno XIII – N° 44, pagina 8

Deotto, suite sull’ospedale psichiatrico

«L’Hospital de Rilhafoles, inaugurato nel 1848 e ribattezzato Hospital Miguel Bombarda nel 1911, è stato il primo, e per diversi decenni l’unico, ospedale psichiatrico del Portogallo. Situato nel pieno centro di Lisbona, in una struttura precedentemente adibita a collegio militare, e ancor prima a convento, è stato definitivamente dismesso nel 2011». La storia di questo luogo è al centro della plaquette di Francesco Deotto, Avventure e disavventure di una casa gialla (L’arcolaio, pp. 47, € 13,00). La breve suite di Deotto è una vera e propria costruzione ipotetica in versi: quale potrà essere il destino dell’ospedale, una volta che sia stato adibito ad altra funzione? Si comincia, intanto, con un inventario dei «blocchi» che lo compongono, nel quale persino il passato dell’ospedale è osservato come qualcosa di misterioso («Il blocco più a sud (…) / è anche il blocco più antico. / Sembra sia stato concepito / e completato solo qualche anno / prima del grande terremoto / (…) ma come lo abbia attraversato, / con quali e quante tracce, / (e quanti e quali traumi), / in tutto e per tutto, / non lo abbiamo ancora capito»). Mentre l’io lirico si eclissa, facendosi da parte per lasciare l’intera scena all’edificio-protagonista, il linguaggio si mostra intanto volutamente piano, tendendo anzi a un astratto rigore geometrico. Se le parole suonano in un certo senso «impermeabili al brusio del mondo», la loro funzione sembra quella di accrescere l’effetto di «presenza» dell’enigmatico ospedale, osservato nella sua grigia consistenza oggettuale («cinque grandi blocchi / accompagnati da delle discrete (quanto confuse) formazioni / di piccoli blocchi»). L’asciuttezza dei versi di Deotto – la «discrezione» del suo dettato – ha infine l’effetto di suggerire, paradossalmente, la possibilità che questa spoglia descrizione, sempre sul punto di raser la prose, si faccia allegoria: una grande allegoria comunitaria, nella quale, per esempio, la riorganizzazione del luogo può alludere all’«argine / (…) minimo e parziale» che si deve tentare di porre ai «capricci umani» (alla mutevolezza e all’imprevedibilità della storia?). Più in generale cova, sotto questi versi, la speranza di un mondo diverso, un «mutamento radicale del mondo e della società, / un mutamento tale da metterne in questione le forme di produzione e di consumo, la gestione dei beni comuni», in un vasto «ripensamento» dell’umano e delle sue forme di convivenza. Parte di un più ampio lavoro in corso, come ci informa lo stesso autore, queste Avventure sono un esperimento originale, capace, fra il resto, di parlare di trauma senza spiattellarlo, di sapersi sintonizzare sull’aria del tempo, come nelle scene di guerra che riemergono nella seconda sezione, in una inquietante prossimità fra gli ospedali e i bombardieri: «l’ipotesi d’una sorta di prassi – piuttosto consolidata – conformemente alla quale, prima o tardi, le strutture di soccorso e quelle di distruzione debbano per forza incontrarsi».

MASSIMO NATALE

FRANCESCO TOMADA RECENSISCE “LE BELLE STAGIONI” DI ALESSANDRO AGOSTINELLI. COLLANA “I CODICI DEL ‘900”.

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Alessandro Agostinelli, Le vive stagioni
da Perigeion, articolo di Francesco Tomada

Pochi libri mi hanno colpito ultimamente come Le vive stagioni di Alessandro Agostinelli (L’Arcolaio), una raccolta che non è solo poesia, anzi: è un libro di poesia sulla poesia, un percorso nel vero senso della parola, in cui l’autore toscano alterna alle liriche le proprie riflessioni, spiegazioni, anche divagazioni. Ammetto che, se me lo avessero presentato in questo modo, difficilmente un lavoro del genere avrebbe suscitato la mia curiosità, perché trovo che la scrittura in generale soffra di un eccesso di spiegazione, e che spesso l’eccesso derivi soprattutto dalla scarsa sicurezza nel valore delle parole, come se esse non fossero capaci di stare in piedi da sole. Nel caso di Alessandro Agostinelli, invece, quello che stupisce è esattamente l’opposto: Agostinelli può permettersi di affrontare e esplicitare il suo lungo flusso di pensiero perché, a monte della sua capacità di poeta, c’è una padronanza culturale che costituisce lo scheletro e la sostanza della scrittura. Quando dichiara di opporsi alla “corruzione della lingua” è evidente che il suo non è un discorso legato unicamente alla forma, ma che la forma stessa è un veicolo del significato e del peso delle parole; quando si muove da Leopardi a Seneca a Gozzano all’amato Brodskij è perché lo può fare, sa come collocare i riferimenti – che sono propri ma collettivi – in una visione d’assieme ampia e solida. Le vive stagioni è un’avventura da attraversare tutta d’un fiato per poi tornare indietro per cercare di comprendere la composizione e decomposizione delle forme, e lo scivolare della sostanza dall’aspetto letterario della scrittura a quello più squisitamente umano. Al tempo stesso, dentro all’apparenza di un libretto agile e tutt’altro che verboso, suggerisce l’idea di un punto di approdo a suo modo definitivo, di quei vuoti sereni dell’anima che si conquistano accettando il vivere in tutte le sue forme e le sue fatiche, e che sembrano concretizzarsi nella rastremazione di una laica preghiera.

(È impossibile proporre da Le vive stagioni una serie di poesie, come di abitudine si fa con altre raccolte. Quello che segue pertanto è un frammento del percorso, per suggerire l’idea di come Alessandro Agostinelli si muova attraverso le tematiche che si succedono nel libro).

levivestagioni

*

Che sia dunque l’annullamento dell’io in una tenda (è il tema della poesia finale della raccolta Il materiale fragile) o in un concetto impersonale composto da concreti oggetti materiali lo scopo di ammettere che l’antropocentrismo ha causato una sequela di mali che affliggono oggi la Terra?
Dico che serve farsi vento, sabbia, acqua di fiume che scorre per non perdere di vista che cosa siamo.

pietra

si dà una pietra che sente
un sasso di neve, un gigante
anch’esso approdato al senziente
di sé in natura albergante. 

il tempo misura l’ambiente
ed essi, di pietra o di bianco,
mantengono vita e presente
con le lor durate sul campo.

Mi ha sempre colpito la frase finale della lettera/testamento del socialista Moroni, suicida all’epoca di Tangentopoli: “Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto”.
Un gesto vale più di mille parole, si dice. Ma l’io della poesia (sano o malato che sia) serve la lingua, poiché ci sono questi potenti strumenti umani che ci connotano e ci sostanziano. E certamente la parola della poesia non è flebile, anche se questo presente ci pone di fronte a scelte che dobbiamo compiere: difendere la poesia dall’amatorialità, difendere la tradizione letteraria italiana dall’approssimazione, difendere le parole della poesia dai linguaggi minuti e farne parole esemplari a tempo indeterminato.

Anche se i nostri mezzi, le parole, sono materiale fragile la poesia li potenzia e li rende quello che Brodskij convintamente confidava essere “il risultato supremo di tutto il linguaggio […] Perché il lirismo è etica del linguaggio [e] il canto è, in fondo, tempo ristrutturato”.

patico 

sono un ragazzo volubile
un inviolabile patico
una scheggia di piume,
con una storia funesta
che a volte va
e a volte resta.

Eppure, nel tempo in cui un codice binario compone il linguaggio seriale della nostra vita, spesso sento pena per il linguaggio, per l’uso indiscriminato di storture, iperboli, errori che non sappiamo risarcire alla lingua, e non possiamo contenere o respingere con la sola poesia invisibile e corrotta da troppi testi vani.

Dovremmo lottare per un “io calmierato” – come invitava a fare Alberto Casadei – nella lingua della poesia, un’abdicazione pur minima dell’autoaffermazione antropocentrica ed egocentrica. Sia chiaro, non vi è salvezza nell’intelligenza artificiale e in tutto ciò che può sostituire la lingua che si scrive per mezzo di un interprete umano. Ma è bene tenere a mente che anche nelle storie personali non siamo soli, non siamo protagonisti. L’io è un plurale sempre unito ad altri, a presone che sappiamo e che non sappiamo, a comunità sconosciute ma che dovremmo provare a rammendare sulla carta.

affabile come tragedia 

questo nostro commentare quotidiano
peto, fionda o nuvolaglia imbrottata
si presenta in letterine formicanti
dentro un letamaio di post rimbecilliti.

 una piuma vaga sulla superficie
e trasogna una figura angelicata
che annerisce nel momento dell’eloquenza
e ignorante di parvenza s’è impetrata.

l’esplosione della lingua m’incatena
all’affabile tragedia tutta pena.

CRISTINA BULGHERI SUL TIRRENO RECENSISCE “LE VIVE STAGIONE” DI ALESSANDRO AGOSTINELLI. COLLANA I CODICI DEL ‘900, DIRETTA DA GIANFRANCO FABBRI.

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MATTEO FANTUZZI, SU UNIVERSO POESIA – STRISCIA ROSSA, RECENSISCE “NUOVO INIZIO” L’ULTIMO LAVORO DI GIANLUCA D’ANDREA – COLLANA ROSSA DE L’ARCOLAIO DIRETTA DA GIANFRANCO FABBRI.

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Se la fuga dal dolore diventa un “Nuovo inizio”. La prosa poetica di D’Andrea

14 NOVEMBRE 2023|IN UNIVERSO POESIA|DI MATTEO FANTUZZI

«È spaventoso pensare che mio papà impugnasse gli elettrodi per la tortura con le stesse mani con cui mi accarezzava», racconta Analía, 34 anni, figlia di Eduardo Kalinec. Per tutti era Dottor K, uno dei più feroci aguzzini, condannato all’ergastolo nel 2010. «All’inizio non sapevo, poi non volevo vedere, alla fine ho aperto gli occhi», spiega Analía. […]

Così si apre una delle prose poetiche che danno vita a “Nuovo inizio”, opera ultima di Gianluca D’Andrea, ed è da questo alternarsi di rapporti che voglio partire, come se davvero la vita umana fosse in grado di scindersi a un certo punto, riuscendo a provare in alcuni casi profonda gioia e in altri altrettanta efferatezza.

Non può in questi giorni non venire alla mente il nuovo video che vede protagonista, postumo, lo youtuber “YouTubo Anche Io”, al secolo Omar Palermo, di cui mi ero già occupato in un precedente articolo al tempo della sua scomparsa, avvicinandolo nella tragedia alla poesia (e alla vicenda) di Dario Bellezza.

Il sogno di Omar che condivideva con i propri follower (gli stessi che troppo spesso lo incitavano a ingurgitare quantità improbabili di cibo fino a comprometterne la già precaria salute) era quello di potere un giorno trasferirsi negli Stati Uniti e continuare da lì la propria attività di produzione di contenuti video.

Il sogno di Omar

Il sogno si è realizzato solo pochi giorni fa e ad alcuni anni dalla sua scomparsa, avvenuta per infarto a soli 42 anni, reso possibile dall’app TSX che permette per poche decine di dollari di proiettare su un grattacielo di Times Square a New York brevi video. E così ha fatto il profilo TikTok denominato “Criss Eats Stuff” riprendendo proprio quella originale, innocente ripresa e cercando nella più benevola delle chiavi interpretative di riparare almeno in piccolissima parte alla montagna di ferocia e scherno che in vita Omar ha dovuto subire finendo per assecondare i propri carnefici.

Il moto di commozione di queste ore suona ancora più beffardo se possibile per questa vicenda di un ultimo che alle prese con la solitudine cerca una rivalsa che finisce per condannare a una pena maggiore per gli ingranaggi corrosi che oggi avviluppano ognuno di noi e che dimenticano che dietro al virtuale esistono persone in carne ed ossa con sentimenti e fragilità.

Cambiano dunque i metodi di tortura, non sono forse quelli dei genocidi perpetrati negli anni anche recenti in Sudamerica dal famigerato e già citato dottor K, ma sono comunque violenze che sembrano non solo non disgustarci ma addirittura compiacerci come ci giunge notizia di intollerati abusi nei recenti conflitti esplosi in buona parte del mondo, ancora una volta ai danni di fragili, deboli, donne, bambini.

Chiudersi in una capsula di solitudine

L’alternativa, ci racconta Gianluca D’Andrea, è costruire una capsula e vivere al proprio interno, con sempre minori interazioni umane, con una sorta di consuetudine che finisce ulteriormente per disumanizzare proprio perché toglie le altre persone, l’intorno, dall’interazione e si affida esclusivamente o quasi a rapporti non reali.

[…] Si accomodarono. La figlia raggiunse la finestra, appoggiò il gomito sul davanzale e osservò il cielo. Era buio ma non si vedevano le stelle. I lampioni in strada erano accesi, nel corsello una coppia trascinava le borse della spesa. Erano tutti sul divano. La figlia vigilava sulla luce. Le sue parole risuonarono nell’atmosfera ovattata della casa. Parlò delle sue esperienze oniriche, della capsula, del senso di solitudine tollerata, accettata come unica possibilità in un mondo privo di relazioni. Infine, la voce s’interruppe. Cercò lo sguardo della donna ma vide quello della bambina che aveva accudito. La sua voce risorse dal silenzio mentre l’immagine della neonata sfumava in un silenzio sempre più assoluto. Si asciugò il sudore che gli colava sugli occhi e dal letto, dietro, osservò il cielo.

Gianluca D’Andrea disegna in questo una protezione per le vittime, per chi anche solo per indole inevitabilmente subisce. Esiste una società bestiale? Sì, assolutamente, e anche fuori dai confini bellici, ma è il sottosuolo carsico a fare più paura, la tensione che emerge, il vulcano che accumula forza prima di esplodere.

Quando la soluzione è la fuga

Così anche la fuga è vista come possibile soluzione, perché diventa difficile anche solo immaginare un cambiamento e le vie più oneste sembrano solo ripararsi o fuggire, per potere in qualche modo sopravvivere. Colpisce di questo libro e del suo fare poetico la lucida consapevolezza, la rassegnazione che si misura comunque con la volontà. I protagonisti non escono sconfitti quanto piuttosto drammaticamente feriti e decidono con estrema forza di farsi coraggio e curarsi, di occuparsi di loro stessi.

E questo dovremmo fare anche noi, senza dimenticare però le persone più indifese e soprattutto senza usare loro violenza come accade in ogni tipo di conflitto, manifesto o latente, virtuale o reale, come è accaduto per Omar Palermo e per tanti altri invisibili ai riflettori mediatici.

MATTEO FANTUZZI

MARCELLO MENTO RECENSISCE IL NUOVO LIBRO DI GIANLUCA D’ANDREA, “NUOVO INIZIO”. COLLANA L’ARCOLAIO ROSSA DIRETTA DA GIANFRANCO FABBRI. ARTICOLO RIPRESO DA GAZZETTA DEL SUD.

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QUELLE TRAME SOTTERRANEE DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA

Di Marcello Mento, recensisce “Nuovo Inizio” del poeta Gianluca D’Andrea apparsa su

La Gazzetta del Sud

Gianluca D’Andrea è in costante ascolto della realtà che lo circonda e di quella interiore, che diventa il mezzo attraverso cui egli elabora ciò che lo colpisce e che lo colpisce e che impressiona la sua immaginazione che suscita la sua attenzione. È un tentativo, il suo, in costante divenire – di comprendere e raccontare il mondo che via via nel tempo si è complicato, sfaccettato e scomposto, grazie anche alla Rete, sia nei nessi che nei significati, spazzando spesso la capacità dell’uomo di intendere l’esistente e armonizzarsi con esso.

E questo è ancora più evidente in questa nuova fatica di Gianluca D’Andrea, poeta e intellettuale messinese che da anni vive e insegna a Bergamo. Nuovo Inizio, edito da L’arcolaio, una sorta, come lo stesso autore dice, di “poema un po’ filosofo un po’ fantascientifico”. Un progetto chiaramente ambizioso, che vuole esplorare la contemporaneità per riuscire a renderla certamente più comprensibile, ma anche per coglierne le trame sotterranee, le relazioni, i rimandi, in un tentativo che chiaramente non avrà mai fine, di svelarne l’arcano, la sua sostanziale impenetrabilità, dal momento che anche questa è in costante divenire.

D’Andrea è su una navicella, guarda il mondo sotto di lui e in lui, dal momento che ne porta con sé l’esperienza. E da lassù nello spazio matura idee, rimugina, elabora, verseggia e mette tutto questo in connessioni che gli vengono rimbalzate connessione con immagini dal web per creare un nuovo linguaggio che riesca a dire l’indicibile e l’apparente incomprensibile.

Il libro consta di due parti, la prima ha come titolo “Lo spettacolo della fine”, la seconda “Nuovo inizio”, composte ognuna di quaranta paragrafi elaborati dall’autore tra il 2018 e l’anno in corso in forma di ipertesto, “la cui caratteristica è quella di mettere in relazione testi, immagini e altri che affollano il web ad esempio per associazione di idee, piuttosto che in modalità conseguenziale.

Per dirla con le parole del poeta e critico letterario Antonio Devicienti, nella sua nota di lettura al testo, il libro di D’Andrea è una “ambizioso, coraggioso poema contemporaneo, un multiforme progetto, una rischiosa proposta”. E lo indica come un esempio ben riuscito di scrittura che restituisce al lettore la proprietà rizomatica della Rete, la sua labirinticità, la sua mancanza di centro, allo scopo di cogliere ciò che si agita attorno e dentro di noi, nel rapporto sempre più stretto con la tecnologia, che l’uomo agisce e subisce.

Alla luce di tutto questo, è evidente che si pone l’esigenza di un nuovo inizio, di nuovi modelli e codici espressivi adatte “alle esposizioni di realtà sovraccariche di enigmi e di interrogativi perché l’autore sente il bisogno, nello snodo temporale e culturale di questi nostri anni, di esperire nella e con la scrittura un cammino lungo e accidentato, privo di ogni garanzia di successo e che ha bisogno di una forma espressiva ampia, articolata, complessa, mai pacificata, sempre rimessa in discussione”. Gianluca D’Andrea di fronte al mare magnum della realtà, che comprende ovviamente anche tutto quello che accade in Rete, che è la nostra realtà aumentata, non arretra né si lascia né intimidire né spaventare e continua a utilizzare la sua scrittura come uno scandaglio che gli permetta di comprendere, decrittare e interpretare il mondo attorno e dentro di sé.

VALENTINA MORROCU RECENSISCE “AVVENTURE E DISAVVENTURE DI UNA CASA GIALLA” DI FRANCESCO DEOTTO. COLLANA “IL LABORATORIO” DIRETTA DA LUCIANO NERI.

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Recensione di Valentina Murrocu al libro di Francesco Deotto,

 “Avventure e disavventure di una casa gialla”. Collana Il laboratorio, L’arcolaio, 2023.

da Recensire il mondo

Visto la Zeitgeist

Avventure e disavventure di una casa gialla di Francesco Deotto è un poemetto dall’andamento narrativo che ha per oggetto nella prima sezione “l’inventario” di blocchi edificati, con particolare attenzione per collocazione spaziale e qualità estetiche; nella seconda e terza sezione la disamina verte invece sulle ipotesi di un bombardamento e sulla descrizione delle palazzine; infine, nell’ultima sezione lo sguardo si rivolge all’ipotesi di costruzione di un nuovo ospedale. Due elementi colpiscono il lettore: in primo luogo, la ricorsività e reiterazione di alcuni sintagmi, oltre ad una vera e propria ossessività descrittiva, specie in riferimento a luoghi, edifici, armamenti; in secondo luogo, l’introduzione di variabili testuali e concettuali minime che sembrano spostare il discorso e contribuiscono a generare nel lettore una sensazione di spaesamento causato dalla già nominata ossessività per la catalogazione. A questi due elementi se ne aggiunge un terzo, la priorità dell’elemento percettivo su quello nominativo:

«Cinque grandi blocchi/accompagnati da delle discrete/(quanto confuse) formazioni/di piccoli blocchi.»; «Cinque grandi blocchi/disomogenei praticamente/sotto ogni punto di vista./Per forma, età, disposizione,/stato di conservazione,/aspettative di sopravvivenza/(e di rilancio), ambizioni, /appetibilità, eccetera»; «In primis, nel senso più letterale di un’esplosione che (idealmente) va immaginata come il risultato d’un volo congiunto d’almeno un paio dei 25 Lockheed F-16 Fighting Falcon in forze alla Força Aérea Portuguesa».

Chi dice io nel testo non appare fratturato o precario come avviene in buona parte della poesia contemporanea, bensì distaccato, distante, quasi osservasse dall’esterno le scene per poi ripiegarsi, accartocciarsi su se stesso, indagando e vagliando le ipotesi sul destino dei blocchi di edifici. La sintassi è prevalentemente ipotattica, come già osservato i testi vanno in direzione della prosa, il lessico accoglie tutti i realia, dai tecnicismi bellici ai toponimi ai «desideri su vasta scala». A rendere “Avventure e disavventure di una casa gialla” un buon libro è infine un quarto elemento, ovvero il tentativo di connessione dei dati percettivi non solo alla storia evenemenziale, ma in senso lato anche ai destini generali: l’inconscio di massa diventa protagonista nel testo, come i traumi, le previsioni, i calcoli probabilistici, la dimensione di terrore mascherato, «la famiglia delle facciate», «lo Zeitgeist»:

«Al boato, in ogni caso, non potranno sfuggire neanche gli indigeni più impenitenti, i più impermeabili al brusio del mondo – quelli che […] nel giro di qualche minuto, se non prima, sono sempre in grado di ritornare alla loro vita d’ogni giorno (quella di sempre), come se nulla fosse.»; «È la famiglia dei fantasmi, degli spettri/di una generazione intera d’ufficiali regi/quelli addestrati tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento),/di ancor più numerosi (e più antichi) seminaristi,/di generazioni e generazioni di internati,/psichiatrici e ordinari, oltre che di non pochi/medici e infermieri.»; «Tra tutte, si dovrà ammettere che non si tratta esattamente di un’ipotesi la cui realizzazione possa risultare tra le più semplici e probabili, almeno nella sua versione standard (quella pubblica), almeno visti i tempi, i destini generali, visto lo Zeitgeist».

Valentina Murrocu