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Carmen Gallo, Paura degli occhi
L’arcolaio, 2014
poesia

Carmen Gallo si presenta ufficialmente con Paura degli occhi (L’arcolaio, 2014) come una tra le voci italiane più significative della generazione degli anni Ottanta.
La sua è una poesia “che dice”, e solo in parte si lega a quella linea della comprensibilità comune a molti poeti di oggi che riconoscono affinità, ad esempio, in Anna Maria Carpi, Patrizia Cavalli, Bianca Tarozzi e molti altri, con cui Carmen Gallo condivide, tuttavia, un’attenzione acuta nei confronti dell’uso della metrica di tradizione italiana (forte la presenza di endecasillabi e settenari, ma non solo).
La sua comprensibilità sta nel materiale che utilizza: quotidiano, minimo, tipico, riconoscibile e tuttavia mai scontato, anzi, combinato per ricreare, nei versi, qualcos’altro, con gli strumenti che il poeta ha a disposizione, sfocando così l’attimo e il poetabile.
È il corpo, in prima battuta, a disseminarsi nel verso, occupandolo, ma non in modo totalizzante sebbene così possa sembrare: la sua è una funzione di accesso, diventa strumentale. Il corpo, inizia la presenza a partire dal titolo nominale, in cui c’è una precisa scelta: si comincia proprio da un’enunciazione che è anche una probabile annunciazione, ossia “questa poesia vuole far vedere”. È il suo intento programmatico, rinsaldato da due endecasillabi nel finale della raccolta, da tenere a mente: «Come svegliarsi nella luce estrema» (p. 43), e «Come svegliarsi nella luce intera» (p. 45).
E, infatti, il corpo – tutto – predispone la scena: le giunture, le “ciglia”, la “bocca” o le “bocche”, le parti del corpo sezionate, dunque, ma anche i personaggi, i volti, la “voce” – presentissima in tutte le sue sfumature –, contribuiscono a un dire limpido, chiaro, lucidissimo, appaiono quasi pretestuali per il poeta perché allargano l’immagine, lo sguardo di chi legge e già dapprima di chi sta poetando. Il corpo è il punto focale per affermare, infatti, lo “spazio”, seconda parola chiave o – forse – prima, anche titolo della sezione centrale Lo spazio nuovo.
Lo spazio è molte cose in questa poesia, ed è molti luoghi: è un edificio (una “casa”), è una città (o un “paese straniero”), è un oggetto o sono molti oggetti. Tornano, soprattutto, i sostantivi “mura”, “pareti”, “finestre”, a segnalare l’idea di confine che lo spazio traccia fisicamente e con la parola nel verso ma, tuttavia, si tratta di sbarramenti fragili, che non reggono: «Ancora e di nuovo/ trattenere a stento la pelle/ tra pareti che cadono dall’alto/poi le linee scure, trame che non ricordo/ avevano maglie troppo larghe/ per ricucire le finestre/ e giocare a battaglia navale fra le nuvole/ perdevi sempre tu –/ come ora, nella casa in disparte/ dove non sono più giochi/ i nostri finti suicidi/ ci siamo finiti davvero/ tra le luci di un altro//» (p. 13). Anche la “strada” e la “terra” – tra di loro opposti – oltre che l’iperonimo “spazio”, sono alcuni tra i lemmi più reiterati.
Lo spazio si trasforma pure in uno stato d’animo che “prende corpo”, o è anche un tempo preciso o imprecisato secondo L’ordine del giorno, titolo della sezione che chiude, in un gioco di rimandi testuali continuo e non progressivo: «afferrarsi le maniche e chiedere ragione/ di questi occhi che non si chiudono/ di queste risa strette contro il giorno/ oggi si accendono le luci/ i cani non girano più armati//» (p. 42).
Questi testi sono da leggere tutti insieme d’un fiato, poiché le ripetizioni di lemmi e verbi creano un circuito di senso unico e irripetibile: «L’elenco dei corpi affastellati/ all’appello della luce risponde/ come sconfinato territorio/ di volumi inabitati bianchi/ prima di essere cancellati/ come calendari distesi a occultare/ le vene aperte nella parete/ la porta di braccia distese/ e intanto ritrovare/ negli occhi allineati/ una città intera di sassi da scagliare/ nel tempo senza ora/ l’ordine del giorno/ resta quello di guardare//» (p. 37).
O forse sono soltanto le parole che diventano casa, l’accorpamento che Carmen Gallo sceglie di farne come ad «abitare i soffitti cavi delle parole/ e tendersi a raccogliere/ solo i tempi imprecisi delle cose» (p. 29), che inventano uno stile, una geografia e un’anatomia poetica tutta propria.

Alessandra Trevisan