Ne “L’arrestoGabriele Gabbia espone gli emblemi di perdita e assenza

Articolo di Marco Molinari, pubblicato il 6 di aprile 2021 ne La voce di Mantova

A una prima lettura, la poesia di Gabriele Gabbia, nato e residente a Brescia, appare ermetica, chiusa in un irrimediabile dolore che non ha moventi, né aspettative di risoluzione. La sua recente raccolta “L’arresto”, Editrice L’arcolaio, approfondisce questa sensazione di parola ascetica, a cui si accosta con rispetto sacrale, arrivando al verso lapidario, inciso nel silenzio. Fa pensare a Paul Celan o a un altro autore che viene citato, Ernst Meister. Entrambi di lingua tedesca, entrambi vissuti nella parte oscura del dopoguerra. Anche le poesie di Gabbia sembrano venire dopo un trauma insensato, dopo una tragedia che si è consumata mentre eravamo assenti. Come si è detto all’inizio, a un primo sguardo si è investiti da questo magma negativo, dove è protagonista il nulla e vengono esposti emblemi di perdita e assenza. Come scrive Giancarlo Pontiggia nella prefazione, “L’arresto non può che essere un canto, si badi, non della fine, ma «per la fine».” Ma chi scrive è convinto che anche la poesia più sigillata, se vera, contiene spiragli che lasciano intravedere una trama, un movimento, la vita che, come ombra cinese, si lascia immaginare. Allora, possiamo leggere la poesia bellissima che dà il titolo alla raccolta, come un carme per la fine di una storia d’amore, con occhio asciutto, lasciando che ogni parola rintocchi l’amore vissuto e il dolore toccato: “Due sguardi conniventi / – convergenti –, sul / vuoto accumulato, / e nessuna parola piú / da pronunziare; solo / un rintocco languido, / lento, fino all’arresto: «Tu / sei libera».” Nella stessa prospettiva del dolore per una perdita ci immerge un’altra lirica, in cui è l’assenza del padre a essere evocata, in un contesto che trae drammaticità dalla rievocazione della quotidianità del viaggio in auto: “La prima solitudine / nell’auto — vettura vuota /— corpo: vascello abbandonato. / Seduto, risucchiato / nel sedile senza fondo, a fianco / dell’assenza di tuo padre. (…)”. L’ottica in cui Gabbia si pone per osservare il mondo ce la spiega lui stesso in un testo centrale, dove si dice appoggiato fra valichi e case, a carpire “bisbígli luci salmodíe afflati” che raschiano il freddo. È il punto di vista di chi si sente in perenne esilio nella contemporaneità, di chi è attratto dal richiamo dei morti, perché in loro sfolgora l’eternità, e cerca continuamente di strappare un lembo di senso dal nulla in cui si trova accerchiato. Anche qui, però, la vita tende i suoi fili d’incanto: “Stamane avrei voluto stringerla quella vita / quella bellezza: tutto / quell’autunno al cospetto degli occhi. / Ma la bellezza / non si stringe non si possiede: / si contempla si contiene si lascia. (…)”.

Marco Molinari