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LUCA CENACCHI RECENSISCE “IL TEMPO DEL CONSISTERE” DI G. FABBRI

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DAL BLOG POETARUM SILVA

Cultura come Universo: ‘Il tempo del consistere’ di G. Fabbri (recensione di Luca Cenacchi)

 

Gianfranco Fabbri, fondatore dell’Arcolaio di Forlì, esce, dopo un lungo silenzio, con il libro di prose Il tempo del consistere.
Si intuiscono subito, anche a una lettura sommaria, le molteplici sfaccettature di cui questo libro è carico e, di conseguenza, la difficoltà di impostare un discorso critico che possa abbracciarle tutte. In questo articolo prenderò in considerazione, da una parte, la riflessione sul tempo sottesa alla struttura del libro: di come la sua struttura lirica interpreti il sentimento del tempo postmoderno; dall’altra come Fabbri, non riuscendo più a poter concepire genuinamente una identità e un sentimento lirico legati al territorio, opponga a questo una de-realizzazione che lo proietta nell’orizzonte culturale della coscienza, il quale si rivela nuovo universo d’interazione.
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  1. La frammentazione del tempo

Questo libro, inevitabilmente, è anche un’opera che concerne il sentimento del tempo.
Il tipo postmoderno non può più concepirlo come un continuum, come progresso e ha teso a frammentarlo rivalutando così «l’attimo isolato e isolabile»;[1] oggi lo scrittore «tende a una percezione omogenea di un tempo galleggiante, che sottomette l’essere all’istante».[2] Anche Il tempo del consistere non fa eccezione e infrange il continuum, il progresso cronologico, chiudendo gli eventi in componimenti singoli che, a loro volta, sono diluiti dalla coscienza dello scrivente che li percepisce. Difatti il libro si fonda su un rilancio tematico di concordanza od opposizione. Così il campo d’azione non diviene più la realtà, ma la coscienza, la quale impone il tempo, per così dire, dei suoi frammenti, i suoi istanti sempre attuali.
Questa suggestione dispiega, così, il senso etimologico del titolo del libro Il tempo del consistere (cum+sistere, stare fermo, stare saldo, avere il proprio fondamento in…), dunque radicarsi nell’istante della coscienza. Questa peculiarità si può ritrovare sin da subito nell’episodio Non mi va di alzarmi che apre la prima sezione del libro, Echi del passato. Qui percezione esterna e interna si fondono.
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  1. Realtà e cultura

Qual è la conseguenza di questa fusione? Ovviamente uno straniamento dalla realtà. O meglio: vi è una dipartita dalla territorialità, che non può più rispecchiare l’io. Questo è sintomatico, soprattutto, nella sezione L’occulto sguardo dal presente in cui vengono dipinti paesaggi desolanti e vuoti, assieme a difficoltà comunicative con altri personaggi. Nel trapasso dalla prima alla seconda sezione l’impressione ricorrente è che il mondo abbia perso qualcosa: l’efficacia del rapporto umano. Difatti la dimensione del gioco, che la incarnava, viene quasi totalmente a mancare; viene così sostituita da suture precarie e frangenti di pura incomunicabilità. Ritorna un dialogo con gli oggetti,[3] ma non è altro che lo specchio di quello con gli uomini: nel migliore dei casi momenti passivi, come la tastiera, oppure la macchina gialla.
In questo modo Fabbri registra lo sgambetto che il mondo fa all’uomo, anche se qui si dovrebbe parlare ancora di poeta: non tanto la perdita dell’altro quanto la difficoltà comunicativa o, a volte, l’impossibilità comunicativa.
Ma quello che soccorre il Nostro nell’inerzia di questo immaginario è proprio la ‘suggestione della cultura’ che si rivela un universo gravido in cui agire e dal quale ci si può lasciare fecondare. Nell’omonima sezione, così, l’ipotetica biblioteca di Fabbri (che chiamerei biblioteca essenziale), più che per titoli, è ordinata per nominativi in cui si innestano le riflessioni dell’autore. Questa caratteristica prosegue alternamente anche nelle successive sezioni.
Così la realtà straniante viene sostituita dall’immaginario culturale, che è quello della coscienza. È questa la cosa interessante di questo libro, che lo apre a sviluppi interessanti e a congiunture inattese. Quello che rimane certo è, fra le tante cose, la transizione d’identità cui l’autore è stato obbligato. L’io, non potendosi più rispecchiare nel territorio, tende a compiere una parabola d’astrazione, ma senza rinchiudersi in una sterile autoreferenzialità. Difatti la suggestione della cultura, obbligandolo a un confronto, impone all’io di uscire fuori di sé per poi ritrovarsi accresciuto. La cultura diviene così non solo un silenzioso interlocutore, non restituisce soltanto l’equilibrio perduto,[4] ma si scopre depositaria di quell’umanità smarrita. Io credo non sarebbe un errore sillogizzare: cultura come essenza dell’essere umano. Perché? Perché la dissoluzione dell’orizzonte geografico ha aperto possibilità di virtualità totali ed è in questa totalità d’immaginario, intesa come molteplicità di suggestioni amalgamabili[5] e comunicanti, che si dovrebbe costruire un identità comune, almeno nell’utopia letteraria. In questo libro Fabbri, mi pare, si sia aperto a questa possibilità, alle sue molteplici virtualità, e per un certo verso, rispecchia anche, seppur sia un uomo profondamente legato al ’900, l’architettura plurale, anche se confusa, del nuovo millennio.

© Luca Cenacchi

Note
[1] Postmodernismo e letteratura in Bertrand Westphal, Mappe della letteratura europea e mediterranea, Mondadori 2001.
[2] Ibidem.
[3] Cfr. pp. 44, 46.
[4] Cfr. Ciò che mi frega è lo specchio.
[5] Ma non deve essere operazione intertestuale, qualora si considerasse intertestualità la giustapposizione paratattica di elementi letterari.

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Luca Cenacchi nasce a Forlì nel 1990. Ha scritto prefazioni a raccolte di versi. Suoi articoli critici sono apparsi su Poetarum Silva, Fara poesia, Kerberos Bookstore e la piattaforma Laboratori Poesia della Sammuele editore. Sue poesie sono pubblicate in antologie, fra le quali La mia sfida al male (Fara 2016). Collabora con il Centro Culturale l’Ortica.

 

LUCA CENACCHI

GIANLUCA D’ANDREA RECENSISCE “IL TEMPO DEL CONSISTERE” DI GIANFRANCO FABBRI

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“Il tempo del consistere” di Gianfranco Fabbri, L’arcolaio, Forlimpopoli 2016

ARTICOLO DI GIANLUCA D’ANDREA

 

Il libro di poesia più bello letto in questi primi mesi del 2017 è un libro di prose. Lo ha scritto Gianfranco Fabbri ed è stato pubblicato dalla da lui fondata casa editrice L’arcolaio che, dal 2008 a oggi, è diventata una delle realtà più vive e propositive proprio nell’ambito della pubblicazione e diffusione della poesia in Italia.

A contraddistinguere Il tempo del consistere, evidenza che con ogni probabilità me lo ha fatto più amare, è la presenza del pudore, e quindi di un’etica del rispetto, che si espande dal ricordo e che si fa presenza assoluta, atemporale. Una costumatezza, dunque, che coraggiosamente si oppone alla volgarità del mondo, accompagnandosi allo stupore per lo stesso e a un’attenzione tutelare verso lo strumento linguistico che deve prendersene cura:

«Fuori, intanto, bianco s’apposta il manto sulle case del paesaggio. (Mondo)
Ho cancellato paesaggio e ho preferito inserire al suo posto il termine “mondo. Perché?
Soltanto perché più liquido-tondo-breve-universale?
Non solo per questo.
Il di più non lo saprei spiegare»

(Anche una forte nevicata avrà la sua bella sintassi, p. 87).

Sì, emerge infatti, nei testi di questo libro, un senso di apprensione relazionale non facilmente riscontrabile in altre operazioni coeve. Ed è proprio la poesia a essere trattata con rispetto da chi rinuncia all’evidenza del verso trasmettendone il ritmo in una prosa pregnante ed eterea allo stesso tempo, quasi in un respiro che immetta il suo fiato nei momenti di raccoglimento e riflessione, per poi diffonderlo, senza infingimenti o esorbitanze, nel giro della relazione o del contatto col mondo.
Tanti sono i passi in cui un’attrazione desiderante nei confronti del contesto si rende manifesta, sin dagli esordi passionali di una ritualità nostalgica nella sezione Echi del passato, in cui il presente si riattiva per mezzo dei ricordi, in attimi di disorientamento:

«Non mi va stamane di alzarmi.
All’improvviso mi sono ricordato di me»

(p. 13)

oppure,

«Il gioco è stato ricreato.
Un’idea venuta così per caso.
L’idea dell’infanzia, nello specifico»

(p. 15).

Certo, se la nostalgia non fosse sostenuta da un’essenziale ironia, la quale riesce a mettere tra parentesi il soggetto confermandone il ruolo di testimone decentrato, allora l’intera operazione rischierebbe d’impantanarsi nel rigagnolo di una verbalizzazione intimista e per ciò stesso stucchevole. Questo non avviene grazie alla maturazione di un’autoconsapevolezza (anche temporale, i testi de Il tempo del consistere, infatti, “sono stati scritti negli ultimi quattro anni del Novecento”, quindi pubblicati a notevole distanza dalla loro composizione), in cui al pudore e all’ironia sembra saldarsi la tenerezza onnicomprensiva della grazia:

«Nel giardino di casa, Hitler un giorno andò incontro al suo cane lupo per accarezzarlo. La bestia all’inizio si ritrasse con occhi timorosi; poi, come convinta da una forza superiore, accettò le effusioni con cautela»

(Lager, pp. 34-35).

Affiora un senso di fiducia solo grazie alla scomparsa della pretesa dell’io a un’autodeterminazione:

«Perdi i capelli, mio caro.
Sei quasi più bello.
Non vorrei che fosse altrimenti: non saresti tu»

(p. 40).

È in atto la cognizione del deperimento dell’essere che può persistere solo nella “consistenza”, cioè nello stare saldo (finché è possibile) insieme al mondo, riconoscendone la necessità.
Allo stesso modo il linguaggio si arrende alle referenze e affida alla sola presenza la possibilità di un senso:

«Poi, quando la notte gela, sembra che tutto contragga in sé. Sui tetti, i rivoli d’acqua si solidificano in una morte soltanto apparente»

(Quando soffia la calma strana dell’inverno, p. 58).

Nessuna risposta, ma la resa a quella “forza superiore” che in Fabbri è ricollegabile a una fede religiosa ben definita, e che nel lettore potrebbe suscitare la percezione dell’umiltà necessaria per un vero accesso al mondo. Come negli splendidi quadri della sezione La suggestione della cultura, in cui nel testo dedicato ad Anna Frank si può leggere:

«come sempre è il cuore a rivalutare il senso dell’esistenza; con i cantucci nella soffitta, dove i due ragazzi mondano le patate e possono ammirare il cielo pieno di nuvole al tramonto.
Per un miracolo ancora, il mondo si ripete»

(Anna Frank, p. 70).

Abbiamo osservato come al tentativo, a questo punto realizzato, di accesso al mondo, si affianca la riflessione sullo strumento linguistico, con cui si rende possibile l’estatica comprensione dell’alterità, la “consistenza”, appunto, nel tempo della relazione:

«All’alba della scrittura è possibile cogliere l’esatto momento dell’estasi»

(Tra Rimini e Forlì, in treno: ore 21,15, p. 77).

Estasi che parte dal consistere: un movimento che cerca di consegnare il senso di una fuoriuscita dal sé per confermare la “presenza” nel contesto:

«Poi sempre mi dimentico della ragione per cui volevo scrivere»

(p. 83).

Proprio quando più pressante si fa l’urgenza di una riflessione sulla scrittura (la sezione Il rovello della scrittura quasi conclude il libro, se si eccettua l’explicit Frammenti e aforismi, che, però, pare aprire a considerazioni ancora in divenire, come l’afflato civile dell’ultimo testo dedicato alla strage di Bologna, e che riportiamo per intero al termine di questa riflessione, sembra stare a dimostrare), allora si staglia la profonda motivazione poetica che guida Fabbri: la mimesi tentata in tempi di metamorfosi anche troppo esposte, conduce a una trasposizione (perché sempre di finzione si tratta) il più possibile naturalistica:

«Per riprendere il buon Leopardi, potremmo affermare una sua idea: dire cioè che lo stile dà perfezione all’opera e l’opera è tanto più perfetta quanto più risulta imitazione della Natura»

(p. 86).

Allora, dopo aver considerato la tensione al reale della presenza, partendo dallo stupore che il soggetto perpetua nei confronti dell’esistente, il suo “consistere” o resistere comune, non ci resta che riportare l’estrema testimonianza, che Fabbri infatti incastona in conclusione, di un trasporto alla vita collettiva e relazionale che è anche consapevolezza della sua possibile cancellazione per mezzo della violenza e del terrore. Su questa voragine che si spalanca come un monito si chiude anche la nostra analisi:

Accumulazione paratattica per una tragedia

(Due agosto, 1980 – Bologna)

Un’esplosione. Un tonfo immane.
Il bar sul primo binario, il piano di sopra.
La sala d’attesa, l’atrio centrale. Un’iradiddio, la voragine sul
pavimento; i vagoni dell’espresso sotto la pensilina numero
uno; il primo occhieggiare di certe braccia staccate, l’avvento
epifanico delle membra – i corpi fatti a brani – sotto le
carrozze, come nella hall e nel piazzale antistante.
Corpi sotto i taxi.
Cadaveri tornati bambini, bianchi di polvere.
Il bus 37 reso furgone funebre.
Lenzuola come tende ai finestrini.
L’occulto diniego della morte.
Il bus 37 corre all’impazzata lungo la via Indipendenza col
suo reperto di persone arrese – una macelleria in
movimento, al tempo del clacson intermittente.
Grida, bestemmie della folla.
Una fuga di gas?
Non una fuga – la bomba; lo squarcio delle sinapsi; le
trombe di Eustachio frantumate.

Sotto l’hotel Milano, la prima postazione RAI; l’attesa della
diretta.

Per tutto il giorno, un accorrere di pompieri, di reporter di una
Tv locale, degli inservienti d’ospedale; i semplici barellieri,
nella loro dinamica umiltà, da sotto le automobili tirano fuori
i corpi disarticolati e le loro anime bruciate dallo
spostamento d’aria.

E anche a sera, anche a notte fonda, alla mercé di un caldo
africano [torvo marrone demoniaco] i gruppi elettrogeni, con
le loro luci innaturali, eccoli pronti a fare il terzo grado agli
ultimi resti umani.

Più in là, isolata e muta, attonita a se stessa, spicca una
scarpa bene calzata al piede orfano della gamba.

Gianluca D’Andrea
(Maggio 2017)

GIOVANNI SCOTTI RECENSISCE “CINEMA VENTURINI” DI GLORIANA VENTURINI

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CINEMA VENTURINI” DI GLORIANA VENITURINI – COLLANA “PROSE” DIRETTA DA ENZA VALPIANI, CHE IN TALE SEDE HA CURATO ANCHE L’EDIZIONE.

ARTICOLO DI GIOVANNI SCOTTI APPARSO SU FOCUS ON LINE

 

Gloriana Venturini, instancabile e poliedrica personalità di Buccinasco, ha ricostruito il passato della sua famiglia e, in particolare, di Don Evaristo Venturini, uomo di chiesa di Lugo di Romagna, un sacerdote fuori dagli schemi e dotato di genio imprenditoriale, gestore del Cinema Teatro Venturini.

Da sempre in casa mia si parlava della fortuna di don Evaristo e della sua vita sopra le righe. – scrive Gloriana Venturini – Ho voluto indagare e, dopo oltre tre anni di ricerca, sono riuscita a ricostruire gran parte delle vicende politiche, storiche e personali, vissute da questo personaggio.

Prima un racconto ed ora un libro “Cinema Venturini” su una storia vera, che parla di un prete, un cinema-teatro ed un paesino della Romagna nel periodo tra le due guerre mondiali. La vicenda si dipana tra Lugo e la Romagna, ma anche la Milano dei Navigli, dove una parte della famiglia si è trasferita.

Don Evaristo era un uomo amante del bello, con una donna al proprio fianco, circondato dal lusso e da tante proprietà, ma, soprattutto, aveva la passione per il cinema: nei primi anni 10 apre il Venturini, che, poi, chiuderà nei primi anni 90.

Don Evaristo è stato un’istituzione per tante persone della zona. – prosegue Gloriana Ventuni – Io ho voluto capire cosa avesse rappresentato anche per loro, oltre che per la mia famiglia.

Gloriana ha, così, raccolto articoli di giornale, fotografie, atti notarili, ma soprattutto un’autentica corrispondenza epistolare, corredando il tutto con minuziose ricerche d’archivio ed approfondita documentazione storica: da una vecchia scatola, infatti, erano riemerse antiche lettere di famiglia che narrano la storia di due testamenti, di un’eredità sfumata, di una storia d’amore e dell’enorme patrimonio di un prozio sacerdote (tredici tenute agricole, un cinematografo, un teatro …). L’intero libro, in particolare, parte da una corrispondenza tra don Evaristo e il fratello a Milano.

Questo scritto, insomma, risponde al desiderio di fare chiarezza sul testamento di don Evaristo, ma è anche un modo per indagare a fondo un uomo così particolare.

Volevo conoscere i vecchi fasti del Venturini e le vere ragioni di una vita vissuta sempre con intensità, cosa non sempre scontata per un uomo di chiesa. – scrive la Venturini – Ho analizzato tutte le carte e mi sono divertita molto, ora mi sento quasi un po’ orfana, dato che il lavoro è finito: sono stata a Lugo, a Ravenna, a Forlì, dove in tanti mi hanno aiutata, per passione, per simpatia, perché legati al Venturini. – conclude Gloriana Venturini – Il risultato è un libro corposo, a metà tra un saggio storico, un giallo e un romanzo: ho voluto dare voce più all’interiorità di don Evaristo, che sollevare scandali e riaprire vecchie questioni giudiziarie. Mi sono presa del tempo per me e per la mia storia. Ad oggi, so che questo tipo di percorso mi ha aiutata molto: dagli errori del passato si può imparare a costruire un futuro migliore, l’ho imparato dalla storia della mia famiglia e ho voluto scriverlo.

La storia privata ed i retroscena delle vicende ufficiali sono narrati in un carteggio parallelo, che l’autrice indirizza ad un nipote, con il quale dialoga ed al quale trasmette il valore degli affetti familiari e la persistenza della memoria.

Il romanzo, 500 pagine di appassionante storia dalla lunga gittata temporale (fine Ottocento – fine Novecento), è edito da L’Arcolaio, una piccola casa editrice, anche grazie alla serata di raccolta fondi per la pubblicazione avvenuta lo scorso 3 dicembre al Bem Viver di Corsico, quando sono stati letti estratti del libro, è stata suonata musica anni 30 e si è anche danzato.

Sabato 27 maggio, sempre al Bem Viver di Corsico, in via Vincenzo Monti 5, sarà ufficialmente presentato il libro, che è acquistabile nel sito della casa ed anche sulle librerie virtuali.

Info: www.editricelarcolaio.it

Giovanni Scotti

 

ALESSANDRO BELLASIO RECENSISCE “HOHENSTAUFEN” DI ANDREA LEONE

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Andrea Leone, Hohenstaufen, L’arcolaio, Forlì 2016

L’ININTERROTTO EPILOGO

di Alessandro Bellasio

DAL BLOG COMPITU RE VIVI

 

Con acuminata chiarezza, con verticalità intransigente e percussiva, Andrea Leone, metronomo inflessibile dello spavento e del disastro, con il recente Hohenstaufen avanza a grandi passi, e anzi in perentorio affondo, verso i territori estremi del suo dettato, fedele a un’idea assoluta di poesia che, fin dal libro d’esordio del 2006, L’ordine, persegue una parola bruciante, in piena detonazione, ma severamente controllata e spolpata di ogni concessione tanto biografica quanto elegiaca. Malgrado l’iperbole cui viene sottoposta la prima persona singolare (o forse in virtù di essa), in Hohenstaufen l’io è oggetto di un transfert che nulla concede all’immediatezza del vissuto, ma viene piuttosto condotto a viva forza nella dimensione dell’archetipo e dell’evento. L’io è cioè destituito di ogni sovranità per farsi sede medianica di un trapasso, soglia bruciata dall’attraversamento a cui è sottoposto a contatto con le potenze del linguaggio e dell’essere. Non si tratta di un io che dice, bensì di un io che è detto, quasi rimbaudianamente, da altro.  Si tratta di un io, e dunque anche un bios, revocato, giustiziato: «l’assideramento senza momento | da cui discendo» e «esordisco esempio dell’estinzione […] divento il testamento, il tempo». Spezzati così i legami con ogni cronaca, il linguaggio, e con esso il poema, è risucchiato in una zona di tensione e allarme immanente al poema stesso e dove il senso, al di là della resa editoriale dell’oggetto-libro, più che allinearsi orizzontalmente in versi dà invece l’impressione di aggregarsi in torri e bastioni, di scolpire sul foglio il profilo granitico e guerriero di una colonna dorica, deputata a reggere il peso di divinità terribili, forse proprio quelle che aprono la raccolta e di cui è detto che «morirono | nella matematica della casa millenaria | e in tutti i mattatoi del mattino». I versi di Leone sono da sempre animati da una vis assertiva qui confermata e che hanno certe opere scritte in prossimità del giorno del giudizio. Così, con quell’entusiasmo congelato che da sempre lo contraddistingue e che funziona quasi come un dispositivo per l’accumulazione della tensione conoscitiva, Leone, mantenendosi in una zona limite tra esplosione e implosione, incide letteralmente i suoi versi su una carta pietrificata, accumulando e raffinando il materiale grezzo degli archetipi, che vengono impilati gli uni sugli altri secondo una logica di commistione e convergenza (quasi di infezione e di contagio) tra antico e contemporaneo, remoto e prossimo, in un vertiginoso avvicinamento delle epoche. L’effetto d’insieme che ne scaturisce è come di (ri)costruzione di una genealogia – come suggerisce il titolo di una dinastia, qui poetica invece che politica, capace di sancire i confini del regno del dicibile. E questa intenzione dinastica è ben presente anche a livello retorico e sintattico, dove la parentela è espressa tramite il ricorso ossessivo alle figure dell’accumulo, della giustapposizione e della ripetizione: l’assonanza, la consonanza, l’anafora, l’allitterazione, l’omoteleuto – tutto un repertorio che mira alla ricostruzione di una prossimità poetica di tutto ciò che è distante storicamente, un casato retorico capace di tenere unito ciò che nel reale è in frantumi, al limite una trascendenza, ma interna al poema stesso, a questo solo dovuta. Il ritmo che consegue coerentemente da queste scelte è quello di una marcia, di un’avanzata con passo marziale secondo un andamento rigorosamente percussivo e solitario, una monodia; non v’è, tuttavia, alcuna traccia di invasamento o di apertura visionaria, nessuna effusione da eccesso di luce mediterraneo, perché anche le sentenze più ardite sono passate al vaglio severo dell’intelletto e intendono mostrare il nettamente di ciò che accade, la sua sostanza atemporale e vergine, la pagina elettrificata del diario, quella cioè che si staglia nell’inappellabilità dell’epilogo, dove tutto è già da sempre nell’inalterabilità essenziale del suo essere perduto, e in ciò solo vero, perché spogliato. Ed è proprio questa l’essenza della poesia di Leone, questo suo talento di acrobata di un ininterrotto epilogo, in bilico su una fune tesa tra inizio e sparizione, tra euforia e crollo, all’inseguimento di un divenire che non accade mai, che non è mai accaduto, e di cui tuttavia si è deputati a incarnare e narrare la maceria per sempre: «sto per essere tutto | ciò che non è mai stato».

ALESSANDRO BELLASIO

ANDREA LOUIS BALLARDINI RIFLETTE SU “IRMA” L’ULTIMO LIBRO DI ROBERTO DALL’OLIO

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ARTICOLO DI ANDREA LOUIS BALLARDINI

SU IRMA DI ROBERTO DALL’OLIO

 

Era un pomeriggio di Ferragosto quando Roberto Dall’Olio mi chiamò dicendomi che aveva finito la scrittura del suo ultimo poema, intitolata Irma. Irma Bandiera. Ero in quel momento sulla riva del fiume Reno presso Casalecchio e guardavo assorto l’acqua fare il suo balzo rumoroso alla chiusa. Ne parlammo, sapevo del suo progetto e già alcune settimane prima Roberto me ne aveva mandato una prima lettura. Un testo non facile, scabroso, irrequieto. Irma la partigiana, bella, bellissima, lucente del suo sorriso, non più icona femminile del martirio dei partigiani consegnata alla memoria ma voce. Sì, una voce che nell’andare del testo, si trasforma da eco di una lontana presenza in qualcosa di più vicino, vero e quasi lancinante. Perché verso dopo verso, parola dopo parola, l’Irma di Dall’Olio, per quanto ombra, ci parla e interroga la nostra coscienza in rapporto al mondo e l’umanità che sappiamo o non sappiamo esprimere.

Quando Roberto mi chiese di aggiungere alla sua poesia un qualche mio disegno, cosa alla quale da tempo ci esercitiamo con reciproca soddisfazione, avvertì istintivamente una difficoltà che in altri casi non avevo percepito. Accettai ma realmente non riuscivo ad immaginare nulla. Il tempo che Roberto mi lasciò per pensare mi fu utile per capire ciò che non dovevo fare, ovvero avvicinarmi troppo a l’immagine vera di Irma attraverso i documenti e le fotografie esistenti. E non mi riusciva neanche accostarmi a lei attraverso le parole del testo, poiché appena tendevo la mano ecco che Irma si ritraeva, e spariva nelle tenebre come Euridice.

Per tutta un’altra occasione avevo approntato in uno dei miei quaderni dei bozzetti nei quali mi ero ispirato alla figura di Sant’Orsola tratta dall’ultimo dei dipinti di Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio. La giovane martire vi è raffigurata come una ragazza semplice, attorniata da uomini vociferanti che viene colpita al petto da una freccia tirata dal carnefice, l’unno Attila. Secondo la tradizione dipinta Orsola doveva essere simbolicamente accompagnata da un corteo di altre vergini martirizzate, ma il Caravaggio, come al solito sovverte la vecchia iconografia e la trasforma in un fattaccio notturno, crudo nell’immediatezza della sua rappresentazione. La legenda diventa un brutale fatto di cronaca, una storia senza abbellimenti. Un branco di armati, violenti e imbestialiti che uccidono per rabbia una giovane donna che non ha voluto cedere ai loro inviti. In quel dipinto cupo l’unica traccia di luce pura, seppur evanescente e tremula, è quella che scende dal profilo del viso della ragazza sulle sue mani che stringono le mammelle intorno all’asta della freccia entrata nel petto. Il disegno l’avevo tracciato per mio diletto ascoltando la musica del grande compositore di fine Cinquecento Gesualdo da Venosa. Mi aveva colpito un madrigale in particolare e le sue parole, Volan quasi farfalle, dal Sesto libro dei suoi madrigali. Immaginai un volo di farfalle trasformate in note che come dei dardi colpiscono la fanciulla. Una visione poetica dove si mescolano l’idea della morte e una straniante malinconia.

Mi tornò in mente un pomeriggio d’inverno ed ebbi la certezza di vedere l’Irma che cercavo da quel pomeriggio di Ferragosto. Da mesi stava disegnata sulla carta. La ragazza uccisa da turpi e spietati uomini avvolti nel buio, trasfigurata in luce, in suono o musica. Quando parlai a Roberto di come le due figure, la fanciulla del Caravaggio e la staffetta partigiana Irma Bandiera, si fondavano per me in una sola figura, intese tutto all’istante e volle il disegno come copertina del poema.

ANDREA LOUIS BALLARDINI

UN NUOVO LIBRO ARCOLAIO: “CINEMA VENTURINI” DELLA SCRITTRICE GLORIANA VENTURINI

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Un’uscita eccezionale per la nostra casa editrice. L’impegno profuso per un progetto narrativo di grande caratura; si tratta del volume “Cinema Venturini” della scrittrice Gloriana Venturini. 500 pagine di appassionante storia dalla lunga gittata temporale (fine Ottocento – fine Novecento). La saga di una famiglia romagnola che, agli inizi del secolo breve, si divide in due tronconi: quella romagnola (nello specifico, lughese) e quella lombarda. La costruzione di un Politeama e le fortune da esso derivate, messe in atto da un componente della famiglia. Uno sfondo storico che va dall’Italia giolittiana, alla Grande Guerra, per procedere poi verso la nascita del fascismo e quasi concludersi con la seconda guerra mondiale. L’apparato fotografico dell’epoca si sposa armoniosamente con la passione narrativa. Il finale è a sorpresa. Originalissima e spregiudicata appare infine la figura di un sacerdote fuori dagli schemi e dotato di genio imprenditoriale.

Dalla quarta di copertina:

“Da una vecchia scatola riemergono antiche lettere di famiglia che narrano la storia di due testamenti, di un’eredità sfumata e dell’ enorme patrimonio di un prozio sacerdote (tredici tenute agricole, un cinematografo,un teatro…). Sembrerebbe l’incipit di un romanzo costruito secondo i canoni di un “topos” letterario, invece l’opera si basa su di una autentica corrispondenza epistolare, corredata da minuziose ricerche d’archivio ed approfondita documentazione storica. Le guerre mondiali, intervallate da un ventennio di pace soffocata dal fascismo, fanno da scenario alla vita di Don Evaristo Venturini. I territori in cui la vicenda si dipana sono: principalmente Lugo e la Romagna, ma anche la Milano dei Navigli, dove una parte della famiglia si è trasferita.

La storia privata ed i retroscena delle vicende ufficiali vengono inoltre narrati in un carteggio parallelo, che l’autrice indirizza ad un nipote bambino, al quale trasmette il valore degli affetti familiari e la persistenza della memoria.”