POST DI LUGLIO 2006
FUORI COLLANA



AMICI, ALLO SCOPO DI NON APPLICARE NESSUNA DISCRIMINAZIONE TRA GLI AUTORI INVITATI , DIREI DI INTERROMPERE PER TRE SETTIMANE LE PUBBLICAZIONI DELLE “BACHECHE” E RIPRENDERLE IL 21 AGOSTO. IN TAL MODO POTREMMO OFFRIRE, ANCHE A CHI E’ CAPITATO MALE CON IL CALENDARIO, L’OCCASIONE DI ESSERE LETTO IN PERIODI DI NORMALE AFFLUENZA DI VISITATORI. NATURALMENTE IL BLOG TERRA’, SEPPURE IN MODO RIDOTTO, I BATTENTI APERTI PER TUTTO IL PERIODO FERRAGOSTANO. GRAZIE PER L’ATTENZIONE PRESTATA NEL LEGGERE QUESTO AVVISO. VOSTRO GIANFRANCO. –BUONE VACANZE A TUTTI GLI AMICI–
La voce di Martino Baldi, pur nel proprio aggiornamento lessicale, sembra provenire da un angolo di mondo isolato, come se il testo fosse stato scritto da un individuo solitario, il quale, dalla sommità di un colle, si sia divertito a riformulare i capitoli di una commedia umana che lo vede coinvolto sì, ma solo in virtù di un uso fitto dell’ “io- personaggio”. Questa solitudine fisica fa apparire Martino un aristocratico viveur, che tutto ha veduto e vissuto. Parrebbe, ai miei occhi, una vox clamantis che racconti al “deserto” i fasti e le contraddizioni di una civiltà scomparsa. La stessa impressione la ricavai, a suo tempo, anche dal suo ultimo libro, intitolato: “Capitoli della commedia”, là dove l’estraneità e il coinvolgimento erano equamente ed efficacemente spalmati sul piatto narrativo. Gli inediti inviati da Martino a “La costruzione del verso” mettono però in evidenza una sorta di “smagamento esistenziale” che nel libro era più che altro scherzoso o tragi-comico. Baldi è comunque un ottimo autore che bene sa fendere la vita nelle maglie dell’autenticità. Sia nei “Capitoli” che qui, egli giunge all’elaborazione di un tessuto narrativo, ricco di musicalità ben delineata e farcita di rime (alcune addirittura baciate) e di riprese di assonanze. Dall’apparentamento con i poeti di taglia americana, o comunque anglosassone, adesso il nostro amico parrebbe essersi spostato su un piano più ricco di echi novecenteschi ed italiani. Nel “Canto di congedo di Virgilio Angelo Semeraro” esistono e brillano alcune vaghe circostanze analoghe a quelle del protagonista caproniano del “Viaggiatore cerimonioso”. Una lettura sempre godibile e implicitamente raffinata.
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NATALE
E poi si buttano nei giorni
come in supermercati gratis
per odore, per sorte
o attratti dalla luce.
È tardi.
Ora si può solo perdere
quello che manca, che strappa
oceani agli occhi e la pelle.
Ieri, forse. Oggi
nessuno può aiutare nessuno
nessuno può dare o togliere
scelte. Per me:
o pietre o sassi.
L’OMBRA DELLA CASA
Ora che guardarti negli occhi
vorrà dire attraversarli,
avrò ancora il coraggio
di sfiorarti senza tremare?
(Mi baciasti. E inoltrandoti
nell’ombra della casa:
“Bene. Un altro giorno è andato.
Anche per oggi l’essenziale
l’abbiamo sepolto.”)
PICCOLO LIBRO DEI MOSTRI – PROLOGO
I mostri camminano sempre,
anche nel sonno.
Hanno un segreto cangiante nel buco dietro il cuore
rinvolto in un pugno di carta marrone e di spago
e un piccolo uncino a cui stagionare i ricordi.
I mostri più esperti hanno imparato
a prendere e lasciare senza usare le mani
e cercano di insegnarlo ai nipotini.
Qualcuno di loro possiede una memoria
a forma di nido, di orto o labirinto
o in altri settanta formati diversi.
Di notte vi passano vicino e dalle tasche
di cappotti enormi e misteriosi
estraggono manciate di profumi.
Gettano ogni cosa all’aria ed alla terra:
i dispiaceri diventano ortica
i sogni crescono e diventano bambini.
CANTO DI CONGEDO DI VIRGILIO ANGELO SEMERARO
Voglio esser chiaro almeno ora che vado
abbiam parlato tanto per parlare
forse soltanto per infastidire il tempo
per prender spazio, incapaci d’altro
senza aver poi molto da dire
– tutto è già stato detto
salvo poche parole
ad autentici figli riservate
inaccessibili per noi sfiorati
orecchianti, illegittimi direi;
scusate gli sguardi fissi e silenziosi
se ci avete incontrato
nelle sale d’aspetto o nei vagoni
cercavamo qualcosa da rubarvi
lavoravamo per capire il gap
per annullarlo
senza superbia, anzi
ora che vado
confesso quel che credo:
cercar senza speranza
fino allo schianto
tutta la vita un pianto
e salutare tutti sorridendo
con la malinconia nascosta
di un verso sacro di chi sa chi altro,
questo il ruolo di noi: quasi poeti.
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NOTA DELL’AUTORE: Credo che sia utile inquadrare questi testi nella loro natura di trucioli, ahimé non sbarbarianamente metaforici ma davvero veri e propri trucioli di laboratorio. In una versione del libro precedente a quella poi edita, “Natale” e “L’ombra della casa” erano inserite nella sezione CAPITOLI DAL ROMANZO, prima dell’ultimo testo “Explicit”. Il Prologo al “Piccolo libro dei mostri” precedeva i testi di “La casa gialla” in una sezione che però era intitolata complessivamente MOSTRI. Il “Canto di congedo di Virgilio Angelo Semeraro” chiudeva il libro dopo la sezione ESODO.
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Martino Baldi vive in provincia di Pistoia, dove è nato nel 1970. È laureato in letteratura italiana contemporanea all’Università di Firenze con una tesi su Goffredo Parise, con cui ha vinto il Premio Palazzeschi. Ha curato ricerche, apparati e cronologia per la mostra bibliografica su Piero Bigongiari Voci in un labirinto (Pistoia, luglio 2000) e relativo volume (Pagliai Polistampa, Firenze 2000). Ha pubblicato la prosa Morte improvvisa di un portiere di notte (2001) e la plaquette di poesie Trentadue lattine (2002), entrambe per l’Asscultpress di Pistoia. È stato fondatore dell’e-magazine «Nabanassar» e vicedirettore del trimestrale «Ciminiera». Suoi testi poetici, narrativi e di critica letteraria e cinematografica sono stati pubblicati e segnalati su volumi, antologie e riviste italiane ed estere. Nel novembre 2005 ha pubblicato il suo primo libro organico di versi, Capitoli della commedia, nella collana Parsifal delle edizioni Atelier.
Attivo in diversi settori della cultura e dello spettacolo, è stato assistente alla drammaturgia e alla regia della regista teatrale Cristina Pezzoli ed ha organizzato eventi di poesia per il Comune e l’Università di Firenze. Attualmente lavora con la compagnia di danza contemporanea Aldes del coreografo Roberto Castello e si occupa di progettazione culturale.
(In foto: Martino Baldi porge il microfono a Gianfranco Fabbri)
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BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.25



AVVERTO GLI AMICI VISITATORI DI QUESTO BLOG CHE, PER MOTIVI DI TEMPO, LA DURATA IN PRIMA SCENA DI OGNI POST SARA’ DA OGGI ACCORCIATA A TRE GIORNI. TALE RESTRIONE E’ DOVUTA ESSENZIALMENTE AL NUMERO ANCORA CONSISTENTE DI AUTORI CHE DEBBONO ESSERE PUBBLICATI ENTRO IL 15-08-2006, IL GIORNO IN CUI LA PRIMA EDIZIONE DI QUESTA FORTUNATA RASSEGNA AVRA’ TERMINE. MI SCUSO PERTANTO CON I POETI CHE SARANNO CON NOI NELLE PROSSIME SETTIMANE, AI QUALI SARA’ (AHIME’) TOLTO UN GIORNO DI PERMANENZA.
Davide Nota è un giovane poeta di Ascoli Piceno che ha prontamente abbracciato una tematica tutta poggiata sui problemi del “concreto”, variando dal tema della vecchiaia -vista come una sorta di rivendicazione livida- a quello della droga e della disadattabilità integrale, con tanto di quadri colti dal carcere e dal “limite esacerbato” della stessa esistenza. Il dettato assunto da Davide, per realizzare questa serie di inediti presentati a “La costruzione del verso” e facenti parte di un disegno progettuale intitolato “Le vite mancate”, è felicemente scomposto in due tranches di diversa vena espressiva. La prima è risolta da un aspetto formale e si snoda in numerosi versi della tradizione italiana –come l’endecasillabo, il novenario e il settenario- e dove i rimandi con i poeti anche classici non sono pochi. (Potremmo così dire di avere udito un vago leopardismo, o per lo meno, sembrerebbe di avere ascoltato una ripresa del grande Giacomo, filtrato negli esercizi degli autori novecentechi?: chissà! … Pasolini? Chi altri? …, beh: dipende da chi legge) ; la seconda è invece tutta avvolta nel tono dell’irriverenza e fa péndant con il discorso dell’invettiva e della denuncia, ubbidiente a un pentagramma che ha molto dell’anti poesia. In questa ultima fascia, l’autore appare perito nell’applicare appunto una notevole discrepanza con il nobile dettato della tradizione. Una tale altalena stilistica credo attragga il lettore, il quale, nonostante l’agitarsi dei registri, offre una maggiore aspettativa alle istanze del poeta. Auguro al giovane Nota una profonda affezione a quanto già sta facendo. Ne potremo allora, tutti assieme, prevedere un esito ulteriormente positivo, corale e multiforme.
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Terza età
Dopo il caffè e la sigaretta il vuoto
sotto al sole, ancorato al balcone
come in muta polaroid d’Aprile.
O nel gesto così ruvido e infantile
della solida mano che separa
la luce dalle palpebre ferite.
O nel sorriso amaro, quasi acerbo
da felino anziano che si ripara
in zona d’ombra, prima di morire.
Sotto di te scorrazzano ragazzi urlando
bestemmie antiche e nuove ed un pallone
rigonfio che rimbalza sulla piazzola.
Ma sono corpi in ombra e controluce
di loro sai che gesti e quali sibili
soltanto come spiriti campestri
che ritornano, dopo la scuola.
E ti dimentichi del tempo il volto e gli abiti
moderni, o quasi immagini rivolti
a te chiamarti in secco coro: scendi.
Ma già la metamorfosi di luce
riveste la materia di sé stessa
e tutto torna sé medesimo, più nulla
il cuore può felice contro il vero.
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La condanna
Amico mio la primavera tutto cambia
radici sensi sradica deriva
la riva la trovammo rosicchiata
i nomi dei fiori perduti appena.
Non lo aprirò quel libro di botanica,
la vita è irrimediabile, del resto…
Così a Francesco lo metteranno dentro.
Spaccio di eroina, tentata strage.
Lui dice due anni al fresco cosa vuoi che siano
non è che ci sia granché da fare in città…
Leggerò dei libri, mi porterai qualcosa?
Certo, ora però l’importante è che…
(Piange la madre sotto le lenzuola,
prega il rosario, anche se non crede.)
Mi ricordo di un racconto che scrivesti
(o forse un sogno) di te bambino
che ridevi in cima a un albero…
dovresti leggerlo, come per dire
signor giudice a parte i fatti c’è dell’altro
lo capisce che c’è dell’altro nella vita di un uomo?
<<Non preoccuparti, starò bene. Grazie>>
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La soglia
Dopo sei mesi di naufragio fai ritorno
alla porta di casa (welcome).
La croce appesa al collo
come dono non colto
o ricordo di un tradimento.
Mi cercasti madre più di una volta
ma i miei entusiasmi sopiti dal giorno
non poterono seguirti altrove
dove volevi.
Resta questa stanza
disseminata dalle scorie
di una fallita redenzione.
E ti ho cercata chiesa anch’io
su libri di teologia medievale
commosso dalla tua millenaria ingiustizia
e bellezza.
Mi parlasti e non è vero
che l’istituzione (in quanto tale) è muta.
Tu fosti cara a me come una famiglia buona
a cui si può soltanto spezzare il cuore.
Libertà, libertà che non dura: eccomi
di nuovo a casa. La disfatta è bella.
Qui tutto è ancora come un tempo e forse anch’io
non sono poi cambiato più di tanto.
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Davide Nota è nato il 21 Novembre 1981 a Cassano d’Adda (MI), da padre lucano e madre marchigiana. Attualmente risiede ad Ascoli Piceno dove è stato redattore del trimestrale letterario “La Biblioteca di Babele” [2001-2004]. Dal 2005 partecipa alla direzione del foglio quadrimestrale di poesia e realtà “La Gru“. Ha pubblicato testi su varie riviste e antologie.
Nel 2005 è uscita per le edizioni Lietocolle la sua prima raccolta poetica, “Battesimo“, con una nota introduttiva di Gianni D’Elia. Nello stesso anno ha pubblicato la silloge “I cadaveri” all’interno dell’antologia “La coda della galassia“, Fara.
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BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.24



AVVERTO GLI AMICI VISITATORI DI QUESTO BLOG CHE, PER MOTIVI DI TEMPO, LA DURATA IN PRIMA SCENA DI OGNI POST SARA’ DA OGGI ACCORCIATA A TRE GIORNI. TALE RESTRIONE E’ DOVUTA ESSENZIALMENTE AL NUMERO ANCORA CONSISTENTE DI AUTORI CHE DEBBONO ESSERE PUBBLICATI ENTRO IL 15-08-2006, IL GIORNO IN CUI LA PRIMA EDIZIONE DI QUESTA FORTUNATA RASSEGNA AVRA’ TERMINE. MI SCUSO PERTANTO CON I POETI CHE SARANNO CON NOI NELLE PROSSIME SETTIMANE, AI QUALI SARA’ (AHIME’) TOLTO UN GIORNO DI PERMANENZA.
Torniamo con questa nuova bacheca ai poeti giovani. Ci torniamo con Giovanni Tuzet, un autore ferrarese di raffinata cultura. Dirò subito che la volontà di staccarsi dai codici chic di una simile educazione mi fa avere in simpatia il nostro odierno ospite. Egli, infatti, veramente fa di tutto per giungere a un dettato che parli della gente di tutti i giorni e che risulti farcito di grande ironia e di felici paradossi. Paradigmatico, in tal senso, è lo scampolo che mi permetto di “rubare” all’amico Massimo Orgiazzi, il quale poco tempo fa lo ha pubblicato nel suo blog “Liberinversi”. Il pezzo si intitola “Cambi” e inizia così: “ Dove: lungo la strada che fu, un tempo / un argine / fra ferri rossi, barattoli, immondizie / Ove di fiori il cordone si migliora // … // a formare un cuscino che brilla / per il sole e la cera / Cosa? C’è un fiocco rosa sul cancello / Però: è di un demolitore// …”. Questo stile, che pare “mandare al diavolo” le maniere ortodosse è, in realtà, ossigeno puro, nel panorama della poesia italiana, in cui ci si esprime sì in diversi modi, tutti piuttosto lontani però dalla valenza ironica –uno gotico immaginifico ; l’altro minimale, plastico, perfettamente compiuto a livello di forma, ma aihmé, innocuo come acqua di fonte; l’altro ancora, infine, disordinato a livello di comprensione sintattica (e non si sa se per “arte” o per carenza di ponteggi atti alla costruzione della frase)- . A mio avviso, Tuzet riesce interessante perché veicola il suo messaggio su un reticolo di segno vergato con attenta nonchalanche. A “La costruzione del verso” ha fatto pervenire numerosi frammenti di prosa che lanciano una sorta di storia-romanzo, ma che non perdono di vista la poesia, sia nella musicalità sia nelle intenzioni d’animo. Giovanni si fa, anche in questi lavori, artefice di piccole gioie, malinconie, dolori. Tutto però è mitigato (o drammatizzato) dalla notevolissima cifra paradossale, che, come più volte detto, muove al sorriso e alla volontà di approdare all’entità umana secondo l’impeto generoso della simpatia espressiva
LA CITTÀ IDEALE
Da:
ANELLI
1
Che piacere! In un bar del Liechtenstein una cameriera svedese mi ha preparato un cappuccino delizioso. Era grande come un frappé, schiumoso come una birra, caldo come la polenta. Mi sono felicitato con lei e le ho più volte guardato le gambe. Poi mi sono mandato a quel paese, per il numero di sciocchezze che riesco a dire all’occorrenza. Per fortuna non se n’è accorta: era già impegnata a versare la sangria a un eschimese.
6
Uscito dal supermercato incontro un’amica con cui ebbi una relazione giovanile ma intensa. Mentre mi parla delle sue difficoltà familiari, passa un asiatico che la saluta e si allontana rapidamente con un carrello vuoto. Le chiedo incuriosito chi sia. È fra i suoi inquilini, tipi del Bangladesh che prendono i carrelli del supermercato e li mettono in giardino, credendo si tratti di mezzi di trasporto che si acquistano con il gettone.
7
Un ragazzo accanto a me tornando in treno da Parigi, tutto storto addosso al finestrino, scrive versi dedicati a un lui, a un pene che fa rima con bene. (Me ne sono accorto sbirciando, quando ho visto che si contorceva e stirava come se fosse eccitato). Quando mi ha chiesto di farlo passare e l’ho osservato allontanarsi, ho creduto che andasse a masturbarsi in quei bagni orribili, in uno strano incanto di sporcizia e bontà. Poi ho gettato ancora gli occhi ai fogli e ho visto che anelli faceva rima con monelli.
Da: ZONE RESIDENZIALI
11
C’è un mondo possibile dove i cani sono estremamente evoluti e stanno retti sulle zampe posteriori. Li vedi al bar, conversare al bancone. Ma il problema, si sa, è che ci sono cani di proporzioni molto diverse. Pertanto i bar, i ristoranti, gli uffici, hanno sedie, sgabelli, banconi e tavoli molto diversi a seconda del target di cani a cui si rivolgono. Non si fatica a capire come sia una società classista. Dove i cani più grandi sono i più eleganti. Li vedi, i levrieri nei loro abiti nobili e firmati, prendere con stile le olive e gli aperitivi, nei bar più esclusivi. E i piccoli bastardi fumare le peggiori sigarette, su luridi sofà nelle baracche più sporche.
13
Dove? Islanda. Quando: 21 giugno. Mi chiedo se si viva bene in questa luce. Mi fanno tenerezza, questi vichinghi, hanno le gambe che sono diventate fragili. Come degli altissimi funghi, dei geyser. Parlano un inglese approssimativo, hanno il reddito più alto, il paesaggio più bello, la città più brutta. E l’età del primo rapporto è la più bassa secondo le statistiche. Ora c’è sempre luce: si accoppieranno senza vergogna, penso, dove capita, come giraffe e trampolieri.
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IL BENE
Per distrarmi leggo dei libri scientifici. Ma nessuna ipotesi cosmologica m’interessa davvero, mi solleva, m’illumina. Benché mi sforzi, non riesco a barare col dolore. Solo di lei vorrei sapere. Provo a scrivere queste note, chiedendomi cosa dirne un giorno a sua madre.
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I tempi della gioia, a pochi mesi magari, mi sembrano un passato favoloso, di biglietti augurali, di sconcertanti banalità. Ne trovo ovunque in casa, per cassetti.
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Divorata dal dentro: così me lo spiego. Da grumi verdi, da un orrido nero.
Ne ho cercata una parte anche per me. Bevendo una notte intera per sentirmi, la mattina, arato dal vomito. Come se in questo modo le fossi più vicino, come se anch’io provassi una parte del dolore, come se questo servisse. Mentre è solo un abbandono, di cui vergognarmi.
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Un giorno, le porto delle arance di Sicilia ne ho presa una cassetta per lei, che un profumo di terra e di sole risvegli la stanza. Mi guarda un po’ così, come se fosse malinconica; io non so cosa dire, cosa aggiungere al pensiero che non potrà finirle
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Sua madre sente la colpa allo stomaco: “non l’ho fatta bene”. Le regala una boccetta celeste di acqua di Lourdes. Davanti a tutti rimango impassibile. Poi di nascosto – riserbo del sacro – le faccio croci d’acqua sulla fronte sulle guance sulle mani – benedetta l’acqua che non serve se il destino s’impunta.
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Suo marito e suo figlio s’incontrano da lei quella sera di luglio. Lei fa segno di andare a mangiare, di non tardare ancora. Vanno in pizzeria e hanno accanto un abbronzato e una bionda che non parla. Il marito lo conosce e gli chiede come va, l’attività. Ricorda il figlio un senso di abbandono e miseria, nella luce che calava, la faccia inutile di lei, la pelle crepata di lui, le parole automatiche e il conto alla rovescia
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Giovanni Tuzet (Ferrara, 1972) è laureato in Giurisprudenza all’Università di Ferrara e dottore di ricerca dell’Università di Torino in Filosofia del Diritto e dell’Università di Paris XII in Filosofia della Conoscenza e Ontologia. Attualmente lavora presso l’Università Bocconi di Milano.
Ha pubblicato numerosi articoli e scritti su riviste di filosofia e letteratura. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Suggestioni di poesia (Officina Grafica S. Matteo, S. Matteo della Decima, 1993), 365-primo (Liberty House, Ferrara, 1999), 365-secondo (Liberty House, 2000). Ha pubblicato la silloge Logiche e mancine nell’antologia “Nodo Sottile 4” (Crocetti, Milano, 2004) e un’altra silloge dallo stesso titolo nell’antologia “La coda della galassia” (Fara, Santarcangelo di Romagna, 2005). Con A. Melillo e C. Sciaraffa ha pubblicato la plaquette San Giorgio e il Drago (LietoColle, Como, 2005). Ha curato il volume Simboli in versi (Editreg, Trieste, 2004). È redattore di “Atelier”, rivista di letteratura.
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INTERMEZZO



Filippo Davoli è un autore riconoscibilissimo perché incide nella lingua di cui fa uso una sorta di sigillo peculiare, il quale sancisce la nascita di un dettato tra i più plastici ed ortodossi oggi in circolazione. Egli usa le figure retoriche, ma sempre su di esse pone un freno discreto che fa rifulgere, per complementarietà, l’Io poetico. Si comprende sin dalle prime mosse del suo ultimo volumetto, intitolato “Figure senza Erbario”, l’oggettivazione del “polo” soggettivo, che subito si incastra nel paesaggio geografico e anche in quello endogeno. La campagna maceratese, fotografata dalla peritissima penna del Nostro ospite, non inciampa mai nell’ombra dell’incertezza e bene rappresenta, e fa da contraltare, al misticismo fine del suo autore. Le modalità microscopiche (che so: una ringhiera, la mano che da essa si ritrae) paiono fiati minimi di una grande auscultazione sensoriale del “sé”. I volumi pittorici s’incrociano e producono una specie di arcobaleno in vitro (ed ecco qui spuntare i grandi elementi come la luce, le fibre dei campi e la solitudine). Lingua plastica, ripeto, è quella di Davoli: all’apparenza, acqua e sapone, eppure nel contempo densa come la pennellata abbondante di una vernice rilucente. In una siffata miscela di colori, ecco (detti e confessati) i piccoli testamenti del volere –il silenzio della terra marchigiana, che così diviene una perfetta lauda interna: una quiete perfino francescana-. Quasi puntuali, gli incipit di molti testi. Il termine “Vorrei” è l’attacco quasi fisso di ogni poesia: “Vorrei che queste non fossero parole…”; “Vorrei lasciare il mondo come la mano…” ; “Vorrei che almeno nel finale…” ; “Vorrei giungere fino a lui, lasciarmi /sedurre fino agli atomi da lui …// “ (Preghiera, questa, pregnante, rivolta al Dio misericordioso e distratto). In Davoli si possono “consumare” “azioni insospettabili” (manovre stupendamente “carbonare”) che fanno di questa minuscola raccolta quasi la coloristica etico-morale della perfetta Verità. Egli ricorre volentieri a simboli-elementi da orafo; si legge dell’acqua (sorgiva) e del flebile vento; vi sono, qua e là, allarmati segnali di una preghiera collettiva. Il silenzio, in tal modo, si addolcisce nelle fessure del legno –le quali parrebbero fare péndant con il costato del Cristo: un Gesù lacerato, eppure sereno-.
Una timbrica, quella di Filippo, di cui non vorremmo mai privarci.
**
È un mattino odoroso. La luce cala
come un manto sottile, alza le fibre
ricomposte dei campi.
È un mattino di bel silenzio. L’aria accarezza
fresca le mani strette sulla ringhiera
e lo sguardo che fugge. La solitudine
ha bisogno di un canto sussurrato.
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Vorrei che queste non fossero parole
ma un piccolo testamento del volere.
Non però assimilabile a un lasciarsi andare,
quanto piuttosto una più piena coscienza.
Come la rondine che sigilla il lascito
in un volo infinibile.
**
Vorrei lasciare il mondo come la mano
che sfiora lieve la tastiera del pianoforte
e non perde respiro nel portamento
di legatura in legatura
e stacca quasi impercettibilmente
i grappoli di note.
Le dita sanno cosa detta il cuore.
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Vorrei scivolare dentro l’acqua come un mistero
complice di chi vede e di chi sa,
tornare a quel primo giorno innocente
privo di scorie, senza memoria di altro
che dell’amore. Un amore schiodato.
**
Vorrei che almeno nel finale
si percepisse il senso dell’azzurro
come quando la tela delle nubi
si dirada e soccombe alla luce.
Ma non vi fu separazione dall’alto
nel profondo dei giorni.
In essi sempre un barlume
di significanza, la percezione
di come le cose si fanno compagne
oltre il rumore delle voci.
**
Vorrei lasciare un segno di rimando
all’ora della nascita. Significare
non altro che un pulviscolo su cui
la luce imprime un nome.
Eppure amo la mia pesantezza
dentro la quale si dischiude il mondo.
Particelle amorose nel mosaico
fibroso degli incontri.
FILIPPO dAVOLI – “FIGURE SENZA ERBARIO” – VENEZIA, LA SPINA EDITRICE, 2005
Nato a Fermo, Filippo Davoli, vive e lavora a Macerata. In ambito poetico ha già dato alle stampe sette libri, tra cui si ricordano:
• “Poemetti del contatto” (1994);
• “Alla luce della luce” (Nuova Compagnia Editrice, Poeti di ClanDestino, 1996 – Introduzione di Franco Loi);
• “Un vizio di scrittura” (Stamperia dell’arancio, 1998) segnalato al Premio “Montale” 1999;
• “Una bellissima storia” (Stamperia dell’arancio, 2000), finalista al Premio “Dario Bellezza” 2001;
• “Padano piceno” (GED, Biblioteca di Ciminiera, 2003).
Ha inoltre pubblicato 14 solitari, nel volume “7 poeti del Premio Montale” (Crocetti, 2002).
Suoi interventi (sia poetici che critici) sono apparsi in varie riviste, tra cui “Hortus”, “Origini”, “La Clessidra”, “Letteratura tradizione”, “Verso”, “Arca”, www.poesia.it, www.agliincrocideiventi.it e www.diariodipoesia.it.
E’ compreso nell’antologia La poesia delle Marche. Il Novecento
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BACHCHE DEI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.23



Eccoci di nuovo in pista con la rassegna delle bacheche. Stavolta è di scena Roberto Ceccarini, un autore di Latina non ancora quarantenne, ma con un respiro discreto e già abbastanza maturo. Il nostro nuovo ospite predilige i frammenti, nei quali fa soffiare un alito mai fuori riga. La grana è decisamente di stazza esistenzial-riflessiva, dipanata su circostanze sentimentali. Aria morbida e problematica al contempo. L’affabulazione, ritorta in sé, produce una specie di voce cardiaca e geometrica. Poesia densa di oggetti, di corpi animati e non, i quali, al confronto diretto con l’uomo, arrivano in superficie quasi con un senso di paura. I participi passati (anche in funzione di aggettivi) talvolta apportano al dettato una condizione di natura morta, suscettibile di picchi di umanità. La positura grafica dei versi è infine anch’essa un oggetto. Non manca quasi mai la condensa vaporosa della carne, anche se in certi punti la delicatezza è chiara supplente dell’erotismo conclamato.
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Dalla raccolta inedita “Giorni manomessi”
la strada
nella strada, a temprare, un sole unico,
modulato, steso sulle cose con tutto il corpo,
a spargere maturo un silenzio giallo.
se fermi, addestrati a non cadere
nel male indicibile che cammina,
si può provare ad intuire la strada.
*
Intanto le cose camminano sempre (appunti)
1.
mi chiedo:
in quale fermata ti sarai fermata,
in quale sezione del giorno sarai sparita.
se sono ancora appeso al tuo fazzoletto
spiegato,
a sventolare.
2.
accade allora di vederti sul divano,
oggetto tra gli oggetti della casa.
proiettata verso spazi perimetrali,
a grattare solitudini interiori
3.
poi ti mordi il labbro superiore, silenziosa
strappi la crosta del pane come se fosse
pelle e non vedi carrellare le nostre figure,
addestrate ad andare lontano a segnare
tutto il confine
4.
con occhi smisurati misuri spazi,
con mani serie sondi liquidi amniotici,
conti tutte le figlie che mancano,
tutte quelle non partorite.
poi deglutiamo ore caleidoscopiche
che ci fanno pensare a quando
5.
svagata come sempre infili gli occhi nei miei
e mentre passano i titoli di coda mi chiedi: cosa?
poi rifili tutti silenzi negli angoli
e non dici nulla perché sai che so
cosa volevi dire.
(intanto le cose camminano sempre)
6.
(sei qui. a prendere appunti.
a disconoscere angeli improvvisati
che sfilano in passerella, ruvidi.)
la pioggia sottolinea una
strana coincidenza di nuvole
( cucite in cielo con parsimonia)
sui corpi tutta l’assenza del sole
7.
sotto coperta incalzano nuvole
sono giorni che attendiamo la morte,
il dibattito dei nostri fantasmi
8.
viene il tempo di lasciare
di sparire tra stanze taciturne
quando tutto ormai dorme
e la luna sorveglia la casa
9
basterebbe una porta da imboccare
le scale da imboccare, un viale che porti
lontano da silenzi neutri, primordiali.
i caffè attendono un altro fuggitivo
a cui stanno ricrescendo l’ ali.
sui corpi tutta l’assenza del sole
**
Giorni manomessi
La terrazza, il mare, questa pace statica di oggetti trascurati.
nostra figlia che attende tutta la relatività di un bacio di madre
attenta. se fosse calmo anche l’esteso mare delle tue parole,
il tempo adotterebbe spazi fra sedia e sedia , adatterebbe silenzi
su terrazze disorientate. l’amaca non sbanderebbe nel vuoto sola
e queste formiche nelle fessure non filerebbero via così nervose.
a sera memorie avviate filtrano coscienze, svelano un silenzio
di nuvole retroattive per sere già assennatamente confezionate
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Roberto Ceccarini nasce a Latina il 18/01/1967 dove tuttora è residente insieme alla moglie ed una figlia.
Lavora in una Società Chimica Farmaceutica nell’area risorse umane.
Scrive per hobby su internet, sue poesie sono presenti su alcuni blog; è presente in alcune antologie di poesie fra le quali Angela Storace 2000 edizioni Montedit e di prossima uscita l’Antologia Emozioni edita da Pagine; Ha partecipato come autore ad una rappresentazione di “musica e poesie” al teatro Cafaro di Latina il 07/12/2005 dal titolo “Memorie di questa terra” della quale è stata stampata un edizione cartacea.
Attualmente sta collaborando all’allestimento di una mostra permanente di foto e racconti mnemonici nel Comune di Sermoneta (Lt) dal titolo: Le immagini del Novecento (Memorie Sermonetane).
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