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L’ARCOLAIO E’ LIETA DI ANNUNCIARE L’USCITA DE “I DODICI”, DI ALEKSANDR BLOK, NELLE TRADUZIONI TEDESCA E ITALIANA -RISPETTIVAMENTE DI PAUL CELAN E DARIO BORSO. –

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E’ UN ONORE PER NOI DE L’ARCOLAIO OSPITARE QUESTO ECCEZIONALE LIBRO, FRUTTO DI UN COMPLICATO PROGRAMMA DI TRADUZIONI A INCROCIO. NON SOLO POTRETE LEGGERE LA TRADUZIONE DAL RUSSO AL TEDESCO, A CURA DEL VALENTE PAUL CELAN, MA AVRETE L’OCCASIONE DI GUSTARE ANCHE LA TRADUZIONE DAL TEDESCO ALL’ITALIANO, A CURA DELL’ECCELLENTE DARIO BORSO.

UN LIBRO DA NON PERDERE!

 

RIPORTIAMO QUI SOTTO LA PARTE INIZIALE DELL’INTERESSANTE SAGGIO DI BORSO, CHE DA’ LA STURA AL VOLUME.

BUONA LETTURA!

 

DALL’INTRODUZIONE DI DARIO BORSO:

Introduzione

I

Tra vino e smarrimento,
nel declivio di entrambi:
Paul Celan

 

  1. Nell’agosto 1910 Aleksandr Blok contribuì a un numero monografico del mensile simbolista «Apollon» con La situazione attuale del simbolismo russo, un breve saggio dove egli, pre- messo che darà testimonianza solo di se stesso, struttura il percorso compiuto in due fasi: tesi e antitesi.

La prima è quella del poeta-teurgo che «permane dentro l’azzurrità dello sguardo radioso di Uno: questo sguardo, come una spada, trafigge tutti i mondi». Questa fase coincide con la prima raccolta blokiana centrata sui Versi della bellissima dama (1904), il cui subitaneo «trionfo» provoca per contrappasso «un certo intervento estraneo» che noi sappiamo essere stato duplice: privato (rottura con la moglie ispiratrice dei Versi) e pubblico (fallimento della rivoluzione russa del 1905).

Da qui il «passaggio dalla tesi all’antitesi», poiché ora «la lama della spada radiosa si offusca e non è più sentita nel cuore. I mondi prima trafitti dalla sua luce dorata perdono la loro sfumatura purpurea; come una diga infranta, irrompe una penombra cosmica fra il blu e il violaceo […]. La vita è divenuta arte, ho pronunciato gli scongiuri, e davanti a me è sorto infine ciò che definisco la sconosciuta», che poi è il titolo del poema centrale della seconda raccolta (1907). E «come qualcosa si è rotto dentro di noi, così si è rotto anche in Russia. […] Abbiamo vissuto la follia di altri mondi, esigendo troppo presto il prodigio; altrettanto è toccato, d’altronde, anche all’ani- ma popolare: ha chiesto il prodigio prima del tempo stabilito, e i mondi viola della rivoluzione l’hanno incenerita».

Blok parte quindi alla «ricerca della spada d’oro smarrita che dovrà trafiggere nuovamente il caos, organizzare e placare i mondi viola in tempesta». I primi risultati provvisori sono il poemetto epico Sul campo di battaglia di Kulikovo (1908), che celebra la resistenza del popolo russo all’invasione mongola, e la conferenza Popolo e intelligencija (1909), dove l’isolamento degli intellettuali dalle masse contadine è visto come causa principale della recente sconfitta. Ma la sintesi è ancora solo a venire, sicché Blok deve concludere: «la strada che conduce al- l’impresa richiesta dalla nostra missione è innanzitutto quella dell’apprendistato, dell’approfondimento interiore, della perspicacia dello sguardo e della dieta spirituale»[1].

[1] G. Kraiski, Le poetiche russe del Novecento: dal simbolismo alla poesia proletaria, Laterza, Bari 1968, pp. 33-43; sul contesto, cfr. A. Pyman, A History of Russian Symbolism, Cambridge University Press, Cambridge 1994.

L’INIZIO DEL POEMA:

– Погибла Россия!

Должно быть, писатель –

Вития…

 

А вон и долгополый –

Сторонкой – за сугроб…

Чтó нынче невеселый,

Товарищ поп?

 

Помнишь, как бывало

Брюхом шел вперед,

И крестом сияло

Брюхо на народ?

 

Вон барыня в каракуле

К другой подвернулась:

– Ужь мы плакали, плакали…

Поскользнулась

И – бац – растянулась!

 

Ай, ай!

Тяни, подымай!

 

– È morta la Russia! / Sarà uno scrittore, forse – / Un oratore… // E quell’altro dalla lunga tonaca – / In disparte, dietro il cumulo di neve… / Come mai non sei allegro oggi, / Compagno pope? // Ti ricordi com’era? / Camminando, la pancia ti precedeva / E con la croce splendente sulla pancia / Abbagliavi il popolo. // Ecco una signora in karakul / Si gira verso un’altra: / – Quanto già abbiamo pianto, pianto… / Sdrucciola / E – pamfete – giù lunga distesa! // Ahi, ahi! / Tirala su, sollevala! //

*

– Russia tradita, tradimento!

Probabilmente un letterato…

 

E là! la tonaca svolazza –

là, dov’è appena sgusciato!

Perché così allibito

oggi, compagno pope?

 

Ricordi i bei tempi?

Sporgevi avanti il buzzo,

e da sopra il buzzo

ci illuminava la croce…

 

Dame. Giungono goffe.

Che dice l’astrakan?

– Ah il soffrire, il gran soffrire…

Patapàn! – così, lunga distesa…

 

Presto, corri,

tirala su!

 

– Verrat an Rußland, Verrat! / Vermutlich ein Literat… // Und da! Die Schöße flattern – / Da, da, wo’s grade stob! / Warum heut so verdattert, / Genosse Pop? // Weißt noch, wie’s gewesen? / Schobst den Bauch heran, / Und von Baucheshöhe / Leuchtets Kreuz uns an… // Damen. Kommen angestelzt. / Was spricht der Persianerpelz? / – Ach, das Leid, das viele Leid… / Rutsch! – So lang, so breit… // Los, lauf, / Hebse
auf! //

SU “LA SICILIA”, GRAZIA CALANNA RECENSISCE “L’ORIGINE” DI DOMENICO CIPRIANO.

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Domenico Cipriano, la poesia è la percezione dell’eternità.

Pubblicato il 18 marzo 2018 DA Grazia Calanna 0

 

«Ci stringeremo in un più breve spazio/ e violeremo la nostra segretezza/ cercando l’eterno/ in ogni fotogramma del ricordo/ nell’indaco del cielo che si rinnova agli occhi». Versi “divinatori”, scelti per introdurre la lettura del nuovo libro di Domenico Cipriano, “L’origine”, edizioni “L’arcolaio”. Raccolta dalla quale, come scrive il curatore Gianluca D’Andrea, emerge «un sentire che si fa volontà di nominazione, per cui gli slanci verbali si mescolano a elenchi che manifestano una rinnovata aderenza tra materia verbale e mondo, in nome di una concretezza che si fa appartenenza, fiducia rinnovata». Raccolta pensata in tre sezioni (“Un intimo inizio”, “Reminiscenze del sole” e “Il silenzio”) introdotte da altrettante “guide all’ascolto”, indicazioni di brani ideali, emotivamente legati alle poesie. Leggendo, nel «respiro incessante» del creato, nel «sangue rifiorito in vita», si afferra la sostanza del legame tra tutte le cose, del tutto in relazione con tutto, del tutto che «si riannoda, senza il suo contorno», che «riappacifica ogni sogno», che annulla «la distanza sconfinata dalle stelle», che ci restituisce al «giorno da cui non possiamo separarci».

“Rifluisce in me ogni istante / e un’onda col suo flusso mi rinnova / spingendo la corrente di risacca / a un nuovo inizio”. Con i tuoi versi (tratti da “L’Origine”), ti chiedo: la poesia può (e, se può, in che modo) ricondurci alla sostanza della vita, alla “origine smarrita”?
Gli eventi del vivere e i suoi meccanismi spesso ci allontanano dalla sostanza della vita, fatta di affetti e rapporti umani, prima di tutto, nonché del percorso che abbiamo tracciato o già avviato da chi ci ha preceduto. La poesia, scavando emotivamente dentro di noi, aiuta sicuramente a metterci in relazione con questi sentimenti e, nello stesso tempo, riesce a far emergere ciò che inconsciamente portiamo originariamente con noi, ma che si rivela attraverso la scrittura o la lettura dei versi, aprendoci a nuove conoscenze altrimenti smarrite per sempre.

Se la poesia è conoscenza, fin dove ti hanno condotto la sue scintille?
Ho sempre scritto e letto poesia e non saprei immaginare la vita senza questo elemento per me vitale. Sicuramente mi ha aiutato meglio nella conoscenza di me stesso, ma anche nel cambiamento di quelle convinzioni e quei pregiudizi “ancestrali”, dovuti all’ambiente e ai tempi, che avevano bisogno di confronto. La lettura dei poeti, ma aggiungerei la conoscenza di altre forme d’arte (non a caso affianco spesso la musica alla poesia, e nel libro “L’origine” troviamo due disegni realizzati da Francesco Balsamo e Marta Pegoraro), mi hanno portato ad una continua riscrittura anche critica della visione del mondo, riscoprendo e valorizzando elementi del passato, ma anche il loro superamento rapportando le mie esperienze con gli altri modi di vedere le cose, scoprendo un equilibrio in ciò che ci circonda, una convivenza di tempi e realtà apparentemente differenti ma nutriti dalla stessa precaria appartenenza all’umanità.

 

Qual è la tua “attuale” spiegazione/definizione di poesia?
La percezione dell’eternità.

“Soffro la distanza dalla scrittura / l’indecifrabile cantabilità immaginata di una paese”, ancora i tuoi versi per chiederti: la poesia necessita più di ascoltare o di essere ascoltata?
Sono le due facce di una stessa medaglia. Senza ascolto la poesia non può esistere, ma se non viene ascoltata è come se non prendesse mai vita.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Soprattutto negli ultimi anni scrivo pochi versi, anche perché per poter comunicare messaggi importanti e apparentemente nuove in poesia occorre che maturino dentro di noi e si rivelino con i loro tempi. Poi occorre che un testo vada rivisto dopo un po’ di tempo. La poesia sarà compiuta nel momento in cui, anche dopo mesi, rileggendola darà ancora quegli stimoli iniziali con le giuste parole e nella forma che sentiamo ancora viva e giusta perché ne sentiamo il compimento senza volerla più cambiare.

Qual è  l’incarico della poesia?
Aprire al mondo intorno a noi, far comprendere che un atto artistico, tra ricerca del linguaggio e osservazione della realtà, riveli la profondità dell’esistenza, la grazia che si nasconde in ogni cosa, anche la più oscura e impenetrabile.

Per la Blandina “la poesia è più vicina al miracolo che al mestiere”, per Cipriano?
Se non c’è il mestiere del poeta quel miracolo iniziale della poesia rischia di appassire senza fiorire completamente. Sono due elementi imprescindibili nella creazione poetica.

La parola poetica, per preservare la propria efficacia comunicativa, deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Sicuramente sì. Ogni forma d’arte esprime il proprio tempo, ciò non significa che debba utilizzare il peggio della forma comunicativa, ma sicuramente deve avvolgere il fruitore con un linguaggio che è vivo nel tempo in cui si nasce.

Riporteresti una poesia dal tuo “L’origine”, per salutare i nostri lettori?
La poesia che scelgo per i lettori è dedicata a mia figlia e ha in sé il significato di tutto il libro. C’è un momento della nostra esistenza, apparentemente senza un significato preciso, ma in cui si condensa un perfetto momento di benessere e che, a volte, torna come una sottile nostalgia. Un istante a cui siamo riportati inconsciamente, una intimità delicata di cui non sappiamo spiegarci il perché, un episodio che non penseremmo mai di raccontare come un momento fondamentale della nostra vita. Eppure è probabilmente l’attimo della nostra “origine”, quello da cui prendiamo forza. È un momento in cui si condensa, forse, l’essenza del nostro essere al mondo.

*

(a Sofia)

C’è sempre un risarcimento
un ciottolo di selce levigato
una disposizione del carbonio che scintilla
o il fuoco addomesticato
a sedimentare la memoria del cosmo. L’istante
dove spunta l’inizio dei pensieri
la nascita.

Ci saranno dissolvenze, la grazia di frammenti
provenienti da lontano, nelle foto
nei diagrammi dei ricordi. Solo una scena si ripete
spuntando da un’epoca scolpita
nel tepore di un’auto in partenza, in un viso trasformato.

Un dettaglio marginale – sepolto o inaccessibile –
che compensa l’angoscia
la distanza sconfinata dalle stelle.

 

 

Domenico Cipriano. È nato nel 1970 a Guardia Lombardi (AV), vive e lavora in Irpinia. Vincitore del premio Lerici-Pea 1999 per l’inedito, ha pubblicato: Il continente perso (Fermenti, 2000, prefazione di Plinio Perilli, nota di Paolo Fresu, premio Camaiore opera prima), L’enigma della macchina per cucire (L’Arca Felice Edizioni, 2008), Novembre (Transeuropa, 2010, prefazione di Antonio La Penna, rosa finalista premio Viareggio), Il centro del mondo (Transeuropa, 2014, postfazione di Maurizio Cucchi), November (edizione bilingue a cura di Barbara Carle, Gradiva Publications, New York, 2015) e L’Origine (L’arcolaio, 2017, nota di Gianluca D’Andrea) che inaugura la “Collana ɸ”. Ha collaborato con vari artisti; ha realizzato il CD di jazz e poesia JPband: Le note richiamano versi (Abeatrecords, 2004) e, dal 2010, guida la formazione jazz-poetry “Elettropercutromba”. Ha scritto i testi di #Hirpiniafelix “Pecore, zappa, scalpello e computer” a cura del Festival internazionale di media art FlussiTalk Rurality 2.0, video-performance presentata a EXPO 2015. Presente in numerose riviste e antologie, è redattore della rivista “Sinestesie”. (www.domenicocipriano.it)

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA di domenica 11.03.2018, pagina Cultura).

Grazia Calanna

Grazia Calanna, giornalista, dal 2001 collabora con il quotidiano “La Sicilia” per il quale cura la rubrica di poesia “Ridenti e Fuggitivi”. Presiede l’associazione culturale “Estrolab” con la quale cura le “Edizioni EstroLab”, “Parole Estroverse” (incontri letterari itineranti), i “Laboratori dell’Estro” (corsi di formazione in scrittura specialistica e creativa). Dal 2007 dirige il periodico culturale “l’EstroVerso” (www.lestroverso.it). Ha curato per la rivista “ELLE”, diretta da Danda Santini, numero Ottobre-2017, uno speciale di poesia intitolato “Nel verso giusto”. Tra le pubblicazioni “Crono Silente” (poesia, Prova d’Autore 2011), “William Shakespeare, Sonetti 1 – 48” con AA.VV. (traduzioni in italiano, Prova d’Autore 2013), “La neve altrove” di Giovanna Iorio (traduzioni in francese, FaraEditore 2017), “Poeti in Classe – 25 poesie per l’infanzia e non solo” con AA.VV. (italic pequod, 2017). Per le edizioni Algra, con Orazio Caruso, dirige la collana “Quadernetto di Poesia contemporanea”. È responsabile dell’Ufficio Stampa del MacS (Museo Arte Contemporanea Sicilia) per il quale, dal 2014, cura “PoetArte”, connubio contemporaneo tra arte e poesia.

LORIS RAMBELLI, SULLA RIVISTA LA PIE’, RECENSISCE “L’ANGELO MORTO” DI MARIO CAMPANINO.

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MARIO CAMPANINO, L’ANGELO MORTO, CASA EDITRICE L’ARCOLAIO, PREFAZIONE DI FLAVIO ERMINI, 2017

DISEGNI INTERNI DI BARBARA COTIGNOLI

 

Passando in rassegna gli angeli di mia conoscenza, disegnati, dipinti o sulla pagina scritta, da Cocteau e Pederiali, mi sono soffermato sull’Angelo ferito (1903) del simbolista Hugo Simberg, conservato all’Ateneum Art Museum di Helsinki: i due bambini trasportano su una rudimentale barella un angioletto con la fronte bendata. L’angelo è seduto e si regge con le mani alle stanghe. Le tre figure attraversano un paesaggio lacustre. Il piccolo ferito, mi viene da pensare, può ancora essere risanato e le sue ali ancora aprirsi all’aria. L’angelo morto di Campanino, invece, collocato in un paesaggio urbano, buttato su un marciapiede, non ha più le sembianze tradizionali dei volatori celesti. Anzi, non ha quasi più sembianze umane. Assomiglia a un manichino disarticolato, un grottesco pupazzo, un rottame, «la più scontata delle cose». Aveva fatto la sua prima comparsa nel 2013 nella collana di poesia “Opera prima” delle edizioni veronesi Anterem con una premessa di Flavio Ermini, una postfazione di Carla De Bellis e un disegno di Roberto Sanesi: Una nuova edizione riveduta dall’autore, sempre in ventiquattro segmenti, con lievi ritocchi, esce ora presso L’arcolaio nella collana “I codici del ’900” diretta da Gian Franco Fabbri.

Il poeta indugia sull’angelo morto compilando un minuzioso inventario di tutto ciò che quel corpo inerte non è. Privo di suggestioni simboliche (la sua mano non ha fori, non è stata trapassata da un chiodo), privo di tratti naturalistici (non un gonfiore, non una piaga, non emana fetore). Asettico, impermeabile, asessuato, informe, semplicemente non è. «Per mancanza di esistenza». Nelle spoglie mortali, segnate dalla negatività, si coglie l’annullamento dell’uomo o la sua (momentanea?) sconfitta. I disegni in bianco e nero, a matita, biro e inchiostro di china, seguono lo sguardo indagatore di Campanino, e rappresentano l’inusitato reperto nei particolari anatomici o a figura intera, di scorcio: un ritorno dell’artista massese al suo stile più autentico, quello delle opere d’esordio, negli anni Novanta, e di certi nudi.

LORIS RAMBELLI

 

MARISA CECCHETTI, SU ALLEO, RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI LUCA LANFREDI, “IL TEMPO CHE SI FORMA”

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Luca Lanfredi

Il tempo che si forma

L’arcolaio Editore 2015, pag. 94, € 11,00

Il tempo della vita scivola dalle nostre mani, inesorabile, si legge tra i versi di Luca Lanfredi. C’è un momento in cui, se ci voltiamo indietro a recuperare il passato, capiamo quanto si sia accorciato l’arco da percorrere ancora. Di quella strada larga che sembrava in finita, bianca, su cui scrivere il nostro percorso, imane un tratto breve. Oltre c’è l’ ombra, il buio. Eppure i giorni si sono sommati

ai giorni in un ripetersi di gesti, di immagini e di parole a cui ci siamo assuefatti e la consapevolezza di ciò ci riempie di stupore. La nfredi cerca di capire la concretezz a del tempo della nostra vita, la “pietra che siamo stati”, recupera la fisicità di oggetti, i confini delle azioni, per dare loro spessore e farne chiodi a cui attaccare la verità del nostro percorso. Per sottrarlo al niente che altrimenti lo divora e cancella.

E’ un lavoro di pazienza, è uno sforzo selettivo richiesto al pensiero ed al cuore, un atto d’amore e di rispetto per la vita stessa, del resto “la prima tenerezza è la pazienza”. I nostri gesti determinano uno spaziotempo che ci offre “troppo e pochissimo di tutto”, in “questa vita, poi, che appare / e disappare con uno vaporio/ di indizi”.

Con un registro fortemente simbolico, Lanfredi crea un gioco continuo di contrasti, di bianco e nero: radici di piante che rompono l’asfalto con la forza della gioventù contro la scorza vecchia che si stacca dai tronchi; voci allegre di un tempo, corse in bicicletta contro una diversa stasi; “la voce che indossammo allora” contro un battere non limpido di campane in attesa; sogni ridenti e mattini

luminosi contro “aria che non saremo”.

C’è una ricerca del quotidiano, di particolari che l’occhio ruba anche da un treno in corsa, di frammenti, di esigenza assoluta di azione. Per essere: “Che cosa faremo quando non saremo?”

Mentre riconosce che la morte appartiene alla vita, che tra tanti nostri passi la morte “è un passo non guardato” – questione di un attimo – che una linea sottile separa le due dimensioni, che nell’eternità del tutto la nostra esistenza è un nulla, infatti “mancano già due minuti al tempo”, Lanfredi riconosce l’importanza delle relazioni umane, della comunicazione, del legame affettivo.

In questa raccolta dove il tu, l’interlocutore muto, è prevalente, il gesto di porgere i polsi, tesi verso l’altro, acquista più pregnanza simbolica di qualsiasi parola. Perché è concretezza, contatto, amore.

E riscatta ogni

esistenza.

 

Marisa Cecchetti

ELEONORA RIMOLO, SUL BLOG DI LUIGIA SORRENTINO (RAINEWS24), RECENSISCE “L’ORIGINE” DI DOMENICO CIPRIANO.

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Il disegno pieno” della vita

Pubblicato su blog di rai news 24, diretto da Luigia Sorrentino

di Eleonora Rimolo

Ciò che Domenico Cipriano intende ricercare, all’interno del percorso del suo nuovo libro, L’origine, non è semplicemente il principio di tutte le cose: l’autore, infatti, sa perfettamente che questo è inconoscibile, irraggiungibile. È il primo testo ad indicarci una preliminare possibilità: “Io sono/tutte le terre che ho visitato […] e sono tanti i segni sul mio corpo”. È quindi nel proprio passato, nella ricostruzione dei luoghi e delle proprie esperienze emotive, che va cercato il senso originario; è à rebours che bisogna procedere per quella necessità spasmodica di ripercorrere le tappe di un viaggio antico, odissiaco, che ci condurrà infine ad “un intimo inizio” – come da titolo della prima sezione. Ogni tappa di questa ricerca tutta interiore ma nello stesso tempo completamente proiettata verso l’esterno e le sue “soste” (“cercando altre soste/oltre la memoria conosciuta/dove un’origine smarrita ci appartiene”) si rivela atto fondativo della poesia dell’autore, il quale nella sua estrema onestà e nella sua totale apertura verso l’Altro ci avverte che “assumiamo il profilo della terra incolta/se non ricominciamo”. Il poeta, che è anche e prima di tutto l’uomo che sente di dover fare un bilancio, di dover scavare fino alle proprie radici – come l’Ulisse de L’ultimo viaggio di Pascoli – viene attanagliato dall’angoscia di esserci stato fino a quel momento senza alcuna ragione determinata, dopo aver preso freddamente atto della propria piccolezza al cospetto dell’infinità del cosmo. E così i versi si avvicinano ai dettagli, li raccontano, li indagano, rimestando nella cenere dopo che le braci si sono consumate: “Un dettaglio marginale – sepolto o inaccessibile -/che compensa l’angoscia/la distanza sconfinata dalle stelle”.

Lo scontro tra aridità del reale e possibilità del pensiero produce testi di intensa tenuta lirica ma nello stesso tempo di tenace presa narrativa: “è tutto reale/nulla da consegnare alla surreale immagine del pensiero”. Cipriano non riesce, nemmeno nei particolari che tanto rapiscono la sua attenzione e che sono così ben descritti, a individuare un aspetto della realtà che soddisfi la sete di alterità e di trascendenza che immalinconisce il suo animo inquieto, a cui si contrappone spesso la ragione, nemica indiscussa di qualunque astrazione. È per questo che il poeta alterna momenti del passato, immagini del suo paesaggio e personaggi più o meno conosciuti delle sue scene cittadine, a riflessioni intime che penetrano nell’interiorità dell’inconscio: “e il ricordo è un resoconto porcellanato /da presentare agli ospiti /insieme a un passato camuffato /con impressioni araldiche. / È questa la strada (ripercorsa negli anni /dalle gambe storte dei vecchi)”. Man mano che si avanza nella lettura ci si rende conto che probabilmente è proprio questo continuo incontro tra pulsione di conoscenza e lento scorrere del tempo inerme la chiave per ricongiungersi con l’origine di se stessi e del proprio Essere: “ma voglio credere/che restare attaccati ai gesti di un rituale/sia parte di una vita, /infallibile ma onesta, tra gli odori sfuggiti alla cucina.” Il sussurrato chiacchiericcio della vita, in cui siamo immersi senza averlo chiesto e da cui ci allontaneremo senza volerlo, ci suggerisce che l’origine è in fondo comune per tutti ed è perfino immutabile: nascere dall’amore e rimanere vivi in suo nome, accettando tutto quanto ci tormenterà spingendoci sull’orlo di una disperata incoscienza (“Si accetta la vita ricevendo il latte/e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo/oggi con altri volti/ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione”). La raccolta di Domenico Cipriano si chiude con questa dolce corrispondenza dei versi alla propria visione, che si è fatta più nitida e più sincera dopo questo cammino lungo i tortuosi sentieri del proprio Io: ciò che in definitiva, tra sogno e risveglio dal sogno, restituisce il senso alla propria origine e ricuce la frattura, è specchiarsi nel volto di chi amiamo, custodendolo e proteggendolo, innamorandosi allo stesso tempo ogni giorno della possibilità della perdita, affinché pure da essa possa nascere una nuova identità e generarsi un’altra verità (“Ritrovarci negli occhi di chi abbandona le radici/le mura della casa/ci ripaga dalle sconfitte accumulate”).

 

È per rinascere che siamo nati.

(P. Neruda)

Io sono

tutte le terre che ho visitato

anche se da una sola

ho preso vita.

è rimasta ferma una ferita

per ogni passo

trascinato stanco

per ogni sguardo

che non mi riconosce.

E sono tanti i segni sul mio corpo

che ha tracciato la poesia

di chi

non ha più un luogo

e chiede asilo.

*

Si accetta la vita ricevendo il latte

e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo

oggi con altri volti

ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione.

Non si scordano le rose

a essere distanti giorni dalla propria lingua

se la gente accoglie ripara e nutre.

Tutte le forme e i colori

hanno valore. Il bianco che scorre dal seno nudo

mostra che non c’è vergogna e clamore nell’eternità.

Di ogni gesto di delicatezza o gemito

scegliamo la grazia per ricondurci al mondo.

_____

Da “L’Origine” di Mimmo Cipriano (L’Arcolaio, 2017)