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POST DI OTTOBRE 2006

venerdì, 27 ottobre 2006

A RUOTA LIBERA

  

Ad ogni ciclo di intime stagioni mi capita spesso di riprendere in mano qualche grappolo di poesie di Eugenio Montale, scelte apparentemente a caso, nella vasta sua produzione. La penultima volta successe diversi anni or sono, e capitò con Xenia II, la sottosezione di “Satura” che comprende le bellissime riflessioni sulla moglie, allora appena scomparsa. Nel periodo ricordato avevo anch’io perduto una persona cara, la quale mi aveva lasciato, oltre ad una incontenibile dolore, anche tutto un magazzino di oggetti mnemonici. Montale seppe, in quel frangente, darmi una mano a sistemare, e poi metabolizzare, il lutto improvviso. Il Poeta, l’altra sera, è inaspettatamente ritornato a soffiarmi sul collo per far sì che io precipitassi nella sua più antica raccolta :Ossi di seppia”, nei cui volumi ho sùbito assorbito, in maniera del tutto consone a questo mio presente, le composizioni che portano i titoli famosi di “Corno inglese”, “Falsetto”, “Minstrels”, le poesie su Camillo Sbarbaro e la sezione dei “Sarcofaghi”. Ebbene, la mia “temperie” si è subito mescolata a quella montaliana degli anni 1916-1926, destando in me stupore per come le due “rive” siano state capaci di attualizzarsi vicendevolmente. Una ri-lettura, si sa, offre sempre nuove dimensioni e nuove atmosfere, ma stavolta è sembrato che il Grande Ligure abbia scritto questi lontani testi proprio per la mia condizione di oggi, così ricca di elementi disfonici e di fattori cromatici da grande buio luminoso (un po’ alla Caravaggio). Nelle poesie lette ho ritrovato le stesse caratteristiche, i soliti “piluccamenti”, trivellati dal Bi Regno Pascoli-D’Annunzio, -presi nemmeno in senso dissacrante, o ironico, ma proprio in quello “opportunistico, di convenienza”-. Ho rivisto i gotici parallelismi, sia pure sghembi, con il Foscolo sepolcrale, nei “Sarcofaghi”: insomma, tutto, ho rivisto, ma spostato in avanti di un dente; come se la ruota del tempo avesse rimesso a nuovo l’intenzione poetica e la dignità d’esistenza di questo luminoso spaccato della Poesia novecentesca. Potrete dirmi, a questo punto: banale, tutto banale, perché l’opera di M. è ancora del tutto coeva, pertinente al nostro presente. Risponderei volentieri di sì, che avreste ragione a pensarla in tal modo. Finché si può ancora sprofondare nel senso dell’impellente, vuol dire che il testo in cui ci si è immersi è attuale. Me ne dà conferma l’attacco di “Corno inglese” che intona:Il vento che stasera suona attento / -ricorda un forte scotere di lame- / gli strumenti dei fitti alberi e spazza / l’orizzonte di rame / dove strisce di luce si protendono / come aquiloni al cielo che rimbomba / (Nuvole in viaggio, chiari / reami di lassù! D’alti Eldoradi / malchiuse porte! ) / ” , una piccola, complicata, elaborazione dodecafonica. In una Liguria così vista e travisata, al netto delle presenze umane, pare che la Natura si sia compresa come “autosufficiente”, nelle proprie colossali nuvole-cattedrali; pare che la Fisica abbia saputo sublimarsi nel lampo corrusco e serpentino in caduta libera sul mare: pare, infine, che il Dio si sia divertito a prendere forme nell’acqua schiumosa che s’“intorce” verso l’alto, come a significare la propria massima espressione narcisistica. La sottrazione di Montale è così già compiuta; il sospetto che l’uomo sia soltanto un elemento negativo è maturo al punto giusto. I rumori  (metallici, recitati nella più vitrea alta fedeltà stereofonica, e pietrosi, nella durezza persistente della cattiveria) assurgono a vibrazioni sconosciute, figli di frequenze proibitive. Una situazione da malalbergo invade i versi d’attacco di “Quasi una finestra”, laddove Montale dice: “ Raggiorna, lo presento / da un albore di frusto / argento alle pareti: / lista un barlume le finestre chiuse / …”, frammento in cui lo stesso poeta viene ai segni del nuovo giorno con l’aspetto orribile del Gregorio Samsa di kafkiana memoria.
Allora, cosa aggiungere ancora, per giustificare il mio attacco iniziale? Aggiungerei il fatto che la mia dotazione psichica di oggi, fatta di sogni estremi e violenze candide, è come la luminosità sempiterna dell’Eugenio nazionale: corrusca come un’esposizione fotonica ad alta definizione. Il mio intercalare di oggi pare gemello del suono laminato e sbattuto del vento, di cui sopra. L’epoca di Montale non è ancora conclusa, dal momento che essa appare come una stagione congrua, di lungo futuro, e perfettamente assimilabile ai nostri mezzi tecnologici (i quali si identificano con lo sbigottimento esistenziale e pare dicano, al pari dell’uomo moderno: “ …/ oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo./”.

Gianfranco Fabbri                

(Dedicato alla mia cara amica Maria Filippa, bellissima combattente nella valle di questo nostro esistere)

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postato da: nestore22 alle ore 21:50 | link | commenti (22)
categorie: poesia, riflessioni

 

domenica, 22 ottobre 2006

LIBRI RICEVUTI

  

Mariarita Stefanini esordisce nel mondo della poesia con un libro fortemente connotato, sotto il profilo dello stile personale. La raccolta si intitolaNell’ora bianca” e parla di un tema fondamentale dell’esistenza umana: quello del panico provato dall’uomo nell’avvertire la propria fine, e più ancora, l’ora della fine temporale. Ma il prodotto d’esordio della poetessa pesarese non è, come un lettore potrebbe pensare, il solito abbordo gotico e aggrondato sulla morte. No. Qui, accanto alle sfumature grigio-fumo, talvolta nere, sono di rito i chiarori dell’acqua sorgiva e il bianco abbacinante di un lutto orientale. Si ravvisano, in molti versi, peduncoli di stimolanti, piccole fiabe in nuce; sicché tutta l’operazione si risolve in una rara levità cromatica e sintattica. Il libro è suddiviso in varie parti, i cui titoli sono a mio avviso puramente indicativi e riempitivi: L’equilibrio degli alberi” , ”L’ombra della piena” , “Quel voltarsi rapido, prossimo” , “Solo una somiglianza”, “Ballate”, … .La temperie infatti travalica queste sezioni, riuscendo così a fornire a tutta l’opera un’unica connotazione: quella che induce il lettore a direzionarsi (per poi viverla) all’interno dell’ora bianca prestabilita. Sin dall’inizio si può essere testimoni di una atmosfera eterea che prende le mosse da un corto circuito estremo tra l’immagine e il pensiero. ( “Chiaro nella frana che veglia / il vento solleva terra / per sentire gli occhi / perché nascesse là / a millimetri / …”). Si ricava, da una tale accumulazione sensoriale, tutta una sorta di inventario da oggettistica mortifera e onirico-geometrica. La sovranità dell’uomo, entro un simile spazio, fluttua tra la sudditanza nei confronti del “morire” e la rivolta all’irreversibilità di tale evento. A pagina 19 si guadagna un’impressione di similitudine concavo-uterina: Barche attendono come culle. / Si fa scura l’acqua, le barche / addormentano la luce. / L’acqua ancora è appena / calda …/ . A questo tipo di immagine ne seguono poi altre, di tipo fotografico, legate al tema del “sonno” e della “droga”. L’acqua, che qui si ripete in frequenza, fornisce all’atmosfera un senso di nascita e di lutti, in contemporanea. ( “Lasciati dormire adesso. / La tempesta fa tamburo al tempo. / La febbre assedia il rifiuto del sonno. / L’acqua ha già preso i capelli, / scivola piano. Dormi./ “ . Un altro termine che torna spesso in queste pagine è “sangue”, ma non in senso violento, bensì come di alimento trofico. La fiaba torna, qua e là, e specialmente torna nell’accezione giocosa (pag.22), quando Mariarita afferma: “ A quattro cantoni / in equilibrio i bambini / saltano alla luce / “. Così facendo, l’autrice va avanti corredata di riflessi logorroici, i quali, dal grigio scuro, ascendono al bianco pulito e abbacinante. “ Ora so cos’è la pioggia / da quando me l’hai detto / e scrosciare voglio / sul selciato battere / e battere i vetri di fiato / …” ; in un siffatto, delicato passaggio, la poetessa potrebbe farci anche intendere che la donna sia l’esperienza della pioggia (ovvero, sia la sua delicata dinamica che cada a terra innumerevoli volte: tante, quante saranno quelle delle morti).  La seconda parte inizia con un testo dal significato profondo (profondo come gli abissi del mare così tanto evocato). Metafore e altre figure retoriche s’involano nella loro terribile evanescenza, creando in tal modo il mistero ambiguo del dire in poesia.  ( Uguali, qui / a perderti o salvarci. / Uguali, mangiati / dal mare che si gonfia / ci accostiamo, minimi, controvento. / …” ).  Ma il percorso è crudele e irreversibile : si avvicina madonna Morte nella pubblica piazza; si aspetta che arrivi, per noi tutti, l’ora bianca.  ( Cammini sul vuoto necessario / per avere spazio, vai / tra la cronaca e i giorni / che mancano al giorno …/ “ .  Nel procedere verso l’annunciato sacrificio del sé, Mariarita indica altri indizi per meglio decifrare il panico dovuto all’avvicinamento del punto determinato:Sai la vastità / nel chiaro / … / La casa nel bosco di castagni / la bocca bianca della terra / “ Se isoliamo quest’ultimo verso, e lo analizziamo, ne salta fuori una immagine inequivocabile: quella inerente alla “tomba”.  Siamo allora quasi giunti al capolinea. A dimostrazione di quanto ora detto, l’autrice ci propone un icasticissimo testo (pag.32) che parla di rondini scure, le quali subito ci appaiono come svolazzanti carri funebri. La lieve disperazione che se ne ricava dal testo induce a pensare che la raccolta della Stefanini sia un tipo di poesia incapace di difendersi –un dire dal tono labile, eppure potente, nella propria afasia -.  Con la terza parte ritornano fitti i termini “nero”, “notte” e “lupo”, come ad indicare una morte che voglia albergare sulle cose come un parassita. A tale sospetto fa da contraltare una specie di delicato esorcismo che consiste nel posare i grilli sui davanzali delle finestre. ( Per tanto tempo ho cercato la notte. / … / Cercavo. Il buio della nascita, il respiro / di una solitudine generosa. / Ho posato / grilli alle finestre, per te / ho inciso il canto, la morte / viva sulle cose / …” ).  A mano a mano che si procede verso la parte finale del libro, si rendono sempre più evidenti le ripetizioni della parola “bianco” : a pagina 42, ad esempio, il vocabolo può rappresentare il latte, ma anche il senso dello spazio enorme, senza recinzione alcuna che lo divida dalle altre zone simboliche. Ne avviene una specie di ectoplasma che pare entrare nel buco nero dell’esistenza, laddove riposa la stessa morte ( “Sei nell’ora bianca / lascia la mente / stanca …” ).  Da questo punto di vista, il poeta trova il modo di occupare lo spazio finale –letale/salvifico -. Lo fa per se stesso o per la propria opera? Poco prima del “grande incontro con l’estrema Sorella”, egli ha il tempo di comunicarci:  “ A teatro la morte di gesso guarda / … / Come farà la Morte a trovarci? / … / Ci troverà la Morte ? / … “ .

Libro lieve e drammatico, questo di Mariarita Stefanini. Eppure realissimo. “Nell’ora bianca” è l’estremo passo dell’uomo nel suo percorso vitale (un tracciato in cui si conoscono, via via che l’opera va innanzi, mescolati e fluidi, i panici tormenti della vita e della sua prosecuzione oltremondana.

Gianfranco Fabbri

 

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postato da: nestore22 alle ore 19:33 | link | commenti (20)
categorie: poesia, riflessioni

 

martedì, 17 ottobre 2006

IL ROMANZO -1-

  

Questa volta abbandono per qualche giorno la poesia per pubblicare un breve post su un libro di narrativa che, credo, possa interessare i miei visitatori. Si tratta, nello specifico, deRagazzi senza bandiera”, romanzo-testimonianza scritto dal famoso astronomo Mario Rigutti, un personaggio da qualche anno prestato felicemente alla letteratura. Rigutti è triestino, ma vive a Firenze sin dai tempi degli studi universitari. In questa sua fatica narrativa egli rievoca un periodo storico vissuto in prima persona: gli anni sono quelli bellici che vanno dal 1943 al 1945 –anni in cui il nostro autore era poco più che adolescente e tutto impegnato, al pari di molti altri suoi coetanei di Trieste, a decidere come proporsi in una situazione così particolare come quella della zona Giuliana-. Al centro di una scena intrigata e dilaniante (con l’Italia in piena guerra civile, i nazisti che avevano preso il completo controllo del cosiddetto “Litorale adriatico”, zona che parte dal fiume Tagliamento e arriva  al confine con la Jugoslavia, e con i “rossi” titini, dei quali si temeva potessero esportare il comunismo in Italia, specialmente nell’ultimo anno di guerra, quando la vittoria degli Alleati era ormai cosa certa) sta appunto la decisione di un’intera generazione a “venirne fuori”. Parecchi giovani accolsero l’invito del podestà triestino a concorrere nella  “Guardia Civica”, da lui istituita con l’avallo nazista. Compito di questo organismo doveva essere la protezione dei cittadini, anche se poi i tedeschi obbligarono la formazione militare a partecipare ad operazioni chiaramente belliche. Il romanzo è un deciso atto di coraggio, dal momento che vi si rappresenta un dilaniante tormento interiore: decidere per una delle due fasce italiane nemiche, oppure rimanere in una posizione ufficialmente utile, ma suscettibile di essere definita una “posizione di comodo”? Di una tale temperie, dal dopoguerra in poi, l’Italia si è sempre ben guardata di parlarne apertamente; sia che si trattasse di mettere in evidenza gli orrori del lager di San Sabba (da parte nazista), sia che si volesse esplicitare quelli delle  cosiddette “foibe”, le fosse dove furono sepolti migliaia di italiani “dissidenti” alla parte slava di Tito. Il silenzio è sempre caduto anche sull’esodo dei connazionali dall’Istria, peraltro accolti in Italia con un sentimento di sospetto, spesso costretti a nascondere la propria identità. Grazie alla buonissima tenuta di registro, il libro si legge tutto di un fiato e volentieri si fiancheggia il protagonista Cesare (al quale lo stesso Rigutti regala più di un personale  connotato) nei suoi continui tormenti, nel convivio allegro e disperato con i suoi coetanei, implicati anch’essi nel medesimo dramma, e nei suoi rapporti sentimentali, ai quali Rigutti regala lo stesso senso di sfiducia che dà all’intera esistenza. Un romanzo che va letto soprattutto come testimonianza di un tempo duro, di cui non se ne sa mai abbastanza, per mantenere in vita il senso della memoria.

MARIO RIGUTTI – “RAGAZZI SENZA BANDIERA” – Edizioni Ibiskos, di A. Risolo – Empoli, pagine 233 – Anno di 1^ ed. 2006

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postato da: nestore22 alle ore 22:41 | link | commenti (14)
categorie: prosa

 

giovedì, 12 ottobre 2006

L’INEDITO N.1

  

Con il post odierno appare per la prima volta su “La costruzione del verso” la poesia di una poetessa lombarda, già nota in campo nazionale. Parlo di Gabriela Fantato, della quale pubblicherò alcuni capitoletti di due suoi poemi:Una liturgia”,  dedicato alla madre, e una sezione diPer un addio”, dedicato invece alla memoria di un eccidio del 1944. I due lavori sono entrambi parti  di un più ampio progetto, costituito anche da un altro poema ,Il canto per Galileo o della ragione”, che sarà, insieme agli altri, raccolto nel titolo coraleIl codice terrestre”. Questi testi entrano in un preciso binario: quello della memoria e delle radici. Un esempio interessante lo abbiamo avuto con Gian Ruggero Manzoni,  il quale ricordava, nella raccolta “Il dolore”, la figura di suo padre. Oggi, Gabriela affronta lo staglio storico, sotto due diversi aspetti: quello inerente alla famiglia e quello, invece, legato alla memoria di una collettività.  Il senso della rievocazione invade con perizia i versi della nostra ospite, i quali, riflettendo sul lettore, riescono a fornire molteplici evocazioni che, dal soggettivo mondo dell’autore, si lanciano subito in direzione dell’universale. Anche in questi poemetti, come del resto nelle opere a equivalente tematica, sortisce fuori un pregevole corredo oggettistico, il quale ben presto assurge a funzione simbolica irreversibile. Gabriela affronta con delicatezza il proprio magazzino mnemonico e ce lo offre con altissima dignità umana. Ecco due esempi di situazioni in cui si possono saggiare gli scampoli di cose che hanno tratteggiato due diverse stagioni esistenziali: “La porta di casa adesso è una linea / nel perimetro – non più aperto / …” ; “ …Io ero il gelso nel cortile, tu una radura / …”  ;  “ …/ …la strada del gallaratese / passa ancora tra i fossi, oltre il semento / delle case cresciute in fretta / …”.  (Da “Una liturgia”);  “Conosco la geometria del dolore, angoli / senza parole e una memoria di frantumi /…”Mia madre salva i ricordi, li piega dentro / la sua busta coi timbri del ’45 / – un foglio, un certificato e le medaglie / e tutto il resto – poi non c’è stato altro / che esistere. Crescere senza il fratello bello, / ( Da “Per un addio”).

Grazie, cara amica, per questa tua levità di cuore!

**

Una liturgia

                             A mia madre

I.

Il tuo sorriso è una riga sul foglio
a quadretti dell’infanzia e si spalanca
la richiesta  – vieni domani? – verrò,
come la pioggia che si annuncia nell’odore
e la terra l’aspetta per lavare
il secco che la taglia.
La pioggia altera la combinazione,
gli atomi si lanciano dentro la tua gola
in cerca del mio abbraccio e la pazienza
lo coltiva dietro la spalla, dentro il tuo
cuore che invecchia e sale alla cima
– ti prenderò in tempo per il nostro girotondo?-

II.

Ti stringi i giorni alle caviglie, tocchi la ferita
dove il camion ti ha schiantato ai fianchi,
dove la polio ti ha preso la corsa e ha dettato
la sua legge nell’osso troppo bianco per vincere.
Non smetti di sognare i campi d’acqua
a est della casa – con le stanze per il cibo
a piano terra e sopra, dove si dormiva insieme –
per non scordare il giallo dentro i primi anni,
i primi aerei di una guerra.
E’ stata corta l’infanzia di geloni
e una primavera senza le calze non bastava
a tenere la morte lontana.
Il fronte un buco nel camino e
svanivano tutti i racconti

III.
 
Io ero il gelso nel cortile, tu una radura
dietro il campo e una gran voglia
di scappare. La strada del gallaratese
passa ancora tra i fossi, oltre il cemento
delle case cresciute di fretta
nel Settanta come un albero che si allarga
nel bianco d’autunno.
– Adesso mi dici – la domenica è il giorno
più lungo dentro la testa.
Lo so, si fa fatica quando le ore sono
un conto che si tira dritto,
tra la sedia e un’altra 

IV.

La porta di casa adesso è una linea
nel perimetro – non più aperta –
e il tempo coltiva la sua liturgia,
tra quaggiù e il cielo.
Dentro, la stanza è un salto a occhi chiusi
e lo spazio una piega dove ti siedi
la mattina e resti.
C’è sempre un altro gesto da fare 
ma tu non lo conosci, sei ancora la bambina
dell’incanto. Nella notte ti fai tenace,
come il gufo sgomento
della brevità dei sogni.
Le ore stanno chiuse nel fazzoletto
e non cresce più l’infanzia nemmeno
nei ricordi. Nemmeno
se la chiamo per nome

§§

Intervallo bio-bibliografico

Gabriela Fantato (Milano 1960) insegna Lettere in un Istituto Superiore di Milano. Suoi testi compaiono su molte riviste, antologie e siti letterari. Ha vinto alcuni Premi Poetici, tra cui il premio “Eugenio Montale Europa (2004). Raccolte poetiche: Fugando (Book editore, 1996); Enigma (DIALOGOlibri, 2000); Moltitudine, in Settimo Quaderno di Poesia, a cura di Franco Buffoni, (Marcos y Marcos, 2001); Northern Geography, con traduzione inglese di Emanale Di Pasquale (2002), Il tempo dovuto, 1996-2005  (2005) e Forse una geometria (2005). Saggi critici: L’incontro con lo straniero, note su F. Romagnoli, A. Pozzi, D. Menicanti, C. Campo e M.L. Spaziani  (Crocetti editore, 2000); Una geografia spirituale, la poesia di Cesare Pavese (Crocetti editore, 2002). Ha curato l’antologia di saggi critici Sotto la superficie, letture di poeti italiani contemporanei (1970-2004), (Bocca editore, 2004). Il suo racconto Il battito è nell’antologia Canti di Venere (Borelli editore, 2005). Per il teatro ha scritto i testi in versi: Messer Lievesogno e la Porta Chiusa (Teatro Comunale di Bologna, 1997); La bella Melusina (Teatro Quirino, Roma 1998); L’elefante di Annibale ( Auditorium di Milano, 2000); Salomè Saltatrix (Villa Reale, Monza, 1999); Enigma (Piccolo Teatro, Milano 2000); Ghost Cafè (Teatro Donizetti, Bergamo 2000).  Dirige la rivista di poesia, arte e filosofia:”La Mosca di Milano” ed è nella redazione della rivista “La Clessidra”.

§§

Per un addio
                         Cascina Benedicta, Marcarolo 
                   – in memoria dell’eccidio dell’aprile 1944-

I.

C’è un vuoto qui, mancano le labbra
ma le voci sono stagliate tra i pini, come
un temporale che non si scorda.
Davanti solo un gesto necessario
– i testimoni tacciono sempre, non interrogati –
Alzo gli zigomi e le spalle, entro nel tempo
che non tradisce. Nel tempo delle lacrime
– sarà stata l’infanzia dentro gli occhi
che li ha portati qui, a morire ?- 
Accarezzo le foglie, la radice è solo
una terra di montagna e riposo.
La solitudine è sale antico, c’è scritto il primo
addio. Poi tutti gli altri  verranno.
Sarà un’eco, una preghiera
– vorrei tenere tra le mani la casa –

**

II.

E ci sono attimi sbagliati già domani,
non lo sai. Ripasso il conto, il gesto
e gli anni chiusi, sigillati nel contrabbando
di fotografie. Al cuore i ganci per fermare
l’eco rimasto nella tua gola.
Forse un mattino tutto sarà chiaro
– un ordine nella testa pronta al colpo –
sottomessa come l’ape al miele.
Forse combattere era solo una gesto pagato
caro o un salto mai imparato, come quando
c’era la cavallina e tu: ferma.
Pesantemente ferma a terra perché il cadere
chiude i sogni dentro un cassetto,
tra i fiori di lavanda.
Forse sarà tutto chiaro, sarà una sera
come tante e verrà la fine
nel giro di poche ore.

**

III.

Conosco la geometria del dolore, angoli
senza parole e una memoria di frantumi
come la mica nel granito. Brilla.
Adesso una muro si staglia tra l’erba,
come niente fosse e fogli appesi
– la benedizione di date e numeri precisi
per chi non c’era in una notte
senza lucciole – senza il buio a fare
la luna nella mano.
Vedi, c’è una scheggia dentro la bocca
dei vecchi che furono bambini
La memoria non ce la fa a tenere il conto,
ma non la puoi mollare
– sa la dedizione  al dolore – un crescere la vita
per chi è andato. Con cura mi faccio statua,
nascondo le crepe
– le ombre, dove sono le ombre
e i corpi?-

**

IV.

Il mattatoio del mondo si è allargato
e sfibra la bocca – non so più il nome per dire
notte e albero. Vorrei dire –  amore –
e tenerlo stretto, come la fine dell’estate
al bordo della pioggia.
Tengo il conto delle partenze,
– una, due, cento-  e l’ombra sul muro
di chi è venuto, la mancanza.
Mia madre salva i ricordi, li piega dentro
la sua busta coi timbri del ‘45
– un foglio, un certificato e le medaglie
e tutto il resto – poi non c’è stato altro
che esistere. Crescere senza il fratello bello,
quello con in bocca la risata.
Ora non c’è più il sangue ma occhi asciutti
nel bianco e la pietà è una parola
che trema nella bocca.
Cerco le mani  – una carezza prima di andare,
una carezza – ricordo mia madre,
i suoi racconti come un abbraccio per la notte
a venire ma ho scordato le ninne-nanne
e il guardare indietro è un balzo,
la pena del non finire

**
V.

Adesso si è alzata la sbarra con calma
tra un respiro e la difesa che ho imparato.
Adesso chiedo parole per disegnare il perimetro
tra prima e questi anni che si scordano.
– Lontano si paga ancora con la vita –
le prede, lo so, sono ancora buone per il dopo.
Io continuo a scegliere i profili per sapere
chi sarò tra vent’anni.
Chi saremo? dimmi, senza la gioia che cresce
le rose e coltiva la casa anche dove
c’è l’acqua pronta all’inondazione.
Chi saremo?
L’aria tenta un equilibrio di pieni e vuoti,
combinazione di atomi in amicizia
con la materia. Noi restiamo qui,
a divorarci e nulla,  nulla che impauri
solo un addio che scava i polmoni

**
VI.

Neppure il silenzio ormai
sazia la sete e il bosco non tiene più,
anche la città si slabbra dove le ombre
non tacciono. I corpi, tutti i corpi, dici
– sono case senza porta – un punto che non tiene.
Scivoliamo come nel passo sulla trave,
alle elementari.
Non ho mai saputo la guerra, eppure
lo zio Silvio è partito – aveva vent’anni – 
non li ha contati alla festa di settembre.
La sua voce è un ricordo nel profilo
– gli somigli – dice mia madre per consolarsi.
Erano gli anni dentro lo sguardo,
anni gialli nelle foto coi bordi come onde.
Era così lontano il mare e non sapevi 
– ti ricordi? – era così bello gridare
che sarebbe stato

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postato da: nestore22 alle ore 20:55 | link | commenti (18)
categorie: poesia

 

domenica, 08 ottobre 2006

RISVOLTI DI COPERTINA

  
LO SPECCHIOSalvatore Quasimodo

“La poesia di Quasimodo si è dissigillata, spietata e pietosissima, alla vita sua e di tutti, proprio di fronte e nel mezzo dello spettacolo trionfale di una morte appiattata dappertutto. Quante volte è stato detto che i poeti contemporanei riuscivano a salvare se stessi e la poesia sotto e dentro un cumulo di un mondo rifiutato, di una vita travasata in un’impoverita immagine di inanità degli uomini e delle cose: ed era vero, ma Quasimodo, in queste ultime poesie accenna a qualcosa di più, è come se ripetesse o restituisse il miracolo, è come se con quel suo fiore salvato volesse rinverdire l’eden condannato dagli uomini. È pietà? È conoscenza, piuttosto: ed è il suo diritto, e il suo dovere di poeta che rimanda alla fine in redentrice affermazione, quel che da principio non poteva non essere che destitutrice negazione. Ma non è che affermi quel che aveva negato: non è che abbia capovolto, sentimentalmente, la morte in vita, no; è in tutta l’ampia chiamata della morte che egli ha richiamato vita”.

Giancarlo Vigorelli

Risvolto di copertina del volumeGIORNO DOPO GIORNO”, ARNOLDO MONDADORI EDITORE, MILANO. EDIZIONE DEL 1961

IL TRAGHETTO (pagina 58)

Di dove chiami? Fioca questa nebbia
di te risuona. Ancora dalle bàite,
è tempo, i cani avidi si lanciano
verso il fiume sulle peste odorose :
luminosa di sangue all’altra riva
sghignazza la faina. È traghetto
che conosco: là, sull’acqua risalgono
ciottoli neri; e quante barche passano
nella notte con fiaccole di zolfo.
Ora sei veramente già lontana
se la voce ha tono innumerevole
d’eco, e appena ne odo la cadenza.
Ma ti vedo: hai viole fra le mani
conserte, così pallide, e lichene
vicino agli occhi. Dunque, tu sei morta.

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postato da: nestore22 alle ore 22:21 | link | commenti (31)
categorie: poesia

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