L’esistenza corre in bilico fra eros e thanatos, deliri e carezze, deserti e sentenze, tunnel e benedizione dolente del parto. In versi densi e multiformi Carlotta Cicci (Roma, 1984) osserva con partecipazione la sacralità della vita, fiuta come una bestiola il rovinoso tempo che avanza nei destini biforcati di ognuno, marca il territorio di chiarore prima del diluvio, mentre tutto resta provvisorio.
(Sul banco dei pesci, L’arcolaio, pp. 124 euro 14).
Inizia oggi la nuova stagione 2023 con un autore fedele al catalogo Arcolaio. Ci visita questa volta con l’ottavo volume della serie “Il ciclo dell’acqua”. Il titolo completo di questo nuovo libro è. “Il ciclo dell’acqua-Parte della caduta“. La prefazione è opera di Fabrizio Azzali. Chiediamo aiuto al valido prefatore di spiegare il proprio punto di vista su questa nuova creatura di Miccia. Seguiranno poi alcuni brani della raccolta.
L’infanzia è una concomitanza inestricabile di tempo e di spazi. Potremmo tentarne una provvisoria definizione come luogo in cui l’adulto sente oscuramente di essere stato ma a cui non sa tornare, perché ha dimenticato la strada o perché il sentiero è da tempo franato e interrotto. Nel ricordo infatti niente prova che si tratti di un passato effettivamente vissuto e non, ad esempio, del materiale di un antico sogno.
La memoria, lo sappiamo, è infatti una facoltà instabile, insidiata dal vuoto, sprofondata nella voragine del tempo, la cui forma prima è l’oscurità dell’oblio. E ciò è particolarmente vero per le epoche lontane della nostra vita. Se ci capita di ricordare gli anni remoti dell’infanzia o della prima giovinezza (e spesso questo viaggio a ritroso della mente adulta è legato ad un principio mimetico connesso alla memoria involontaria), quei ricordi sembrano scuotersi dal loro profondo sonno e, come un nugolo di passeri sospinto da un improvviso fragore, si alzano in un volo confuso davanti ai nostri occhi per un momento poi si disperdono in frammenti. E, forse proprio per la sua natura iridescente e fragile, quell’età giovane, svincolata dalla fuga degli anni e mondata da ogni incrostazione, allo sguardo dell’anziano diventa una sorta di Eden scomparso al pari dell’età dell’oro, il secolo innocente nella iniziale utopia della storia umana.
Ma questo paradiso sognato e perduto è frutto in gran parte di un’illusione ottica originata dalla distanza e dal pathos. Quello che ora ci appare come un tempo magico, composto di tinte e momenti mai più vissuti né veduti in seguito, la bella estate, è tale solo nella rappresentazione ingannevole del vecchio. Come aveva ben compreso Pavese, non è la fanciullezza l’età sognante bensì la vecchiaia. Il fanciullo è figlio prediletto della vita, non sogna, semplicemente abita un sogno, l’anziano è ormai soltanto un «viaggiatore incantato» e il suo viaggio, il suo navigare, si svolge il più delle volte, e sterilmente, a ritroso, verso le acque maternali. Nella nostra prima età infatti l’adesione alla vita è così intimamente fusa col nostro io infantile che tutto ciò che siamo e viviamo se ne vola via nell’istante in cui si consuma, non sappiamo comprendere quel tempo non ancora sedimentato, dunque paradossalmente vi siamo stati immersi ma non è mai stato nostro veramente. Questo perché ogni conoscenza è memoria: non conosciamo mai le cose la prima volta, solamente alla seconda. Solo con uno sguardo retroattivo ci è dato veder baluginare istanti sconnessi di realtà e conoscere dunque equivale a ricordare. Però, appunto, si tratta di una memoria (e dunque di una conoscenza) ingannevole, alterata dal fatto che chi conosce e chi è conosciuto sono sì la stessa persona ma nel tempo sono divenuti ontologicamente estranei.
Di quell’esperienza vissuta il segreto sfugge al ricordo cosciente poiché la sua immagine è stata «sviluppata nella camera oscura dell’attimo vissuto», come dice Benjamin, e di essa rimangono soltanto vecchi negativi di foto accumulati in un cassetto di cui non sappiamo recuperare la chiave. Ecco perché tentare di ritrovare quella strada smarrita che dovrebbe portarci a cogliere l’enigma dell’infanzia è come cercare «un rifugio che sta soltanto nel fondo di un sogno», come avverte Miccia in un verso di questa raccolta, e la sua inafferrabilità nasce anche dal fatto che l’infanzia è l’unico luogo dove il reale e il verosimile combaciano perfettamente, dove la concretezza sfuma nella fantasia e viceversa. È per questo che tale precoce età resta un territorio confinato nel mito, il posto dell’eterno ritorno e dell’eterna nostalgia.
E questo ottavo volume del vasto, metamorfico Ciclo dell’acqua (insolitamente arioso, rispetto agli altri, libro nel quale sembra correre una brezza morbida, di primavera) nel suo viaggio onirico verso la sorgente alla ricerca del suo segreto è denso di istantanee, di pellicole, accartocciate dagli anni e dalla materia leggera di cui sono composte, che paiono fissate nella camera oscura dei sogni, meglio, dei ricordi divenuti sogni. Miccia ha composto in quadri narrativi espressi in una sorta di recitativo corale, situazioni topiche emblematiche dell’universo infantile e della sua dimensione interiore, momenti che pur nella loro apparente oggettività paiono al lettore adulto davvero ritagliati in «the such stuff / As dreams are made on», come dice Prospero ne La Tempesta. Mantengono cioè, nonostante la loro vivacità descrittiva, una particolare vicinanza alla sorgente illimitata da cui emanano, possiedono una forma di trasparenza in grado di lasciar intravedere lo sfondo di antico sogno da cui provengono. E il lettore, scorrendo il testo, avverte frequenti trasalimenti, come se leggesse una fiaba mai letta, mai narrata eppure intimamente nota.
Vi è un’immagine emblematica nella lirica che chiude il libro precedente (Parte della sospensione) del Ciclo dell’acqua. È incentrata sulla rappresentazione di un bosco in penombra da cui fluisce, come dopo un lacerante spalancarsi di acque maternali, un ruscello che, biforcandosi, smarrisce «la memoria della sua sorgente». Soltanto conserverà nel suo sinuoso scorrere l’incerta traccia «di una gioia lasciata a monte». Gioia che consiste forse nella confusa percezione di quel punto oscuro e vuoto in cui riposano tutti gli esseri prima che la nascita li consegni all’arcano dell’esistenza e al gioco del divenire.
E in questo libro la marcia del diveniredescriveun movimento apparente, un’ampia traiettoria curva in cui tutto si ripresenta sempre al punto da cui si è mosso. L’acqua, infatti, da cui, secondo Talete, ogni realtà prende inizio e che è forma e matrice di ogni cosa, «trova sempre la strada / perduta per tornare», lascia la sorgente e ad essa fa ritorno, non perché conservi ricordo del tragitto, ma per il fatto che in realtà non l’ha mai lasciata(«la sorgente è la casa mai abbandonata»). Tutto l’itinerario seguito all’«onda d’urto dell’inizio» si è svolto lungo la medesima cornice e in una sorta di immemore coazione a ripetere: la scintilla dell’esistenza illumina per un istante uno scenario che non può ricevere alcuna spiegazione, né memoria, cioè possibilità di razionalizzazione.
E in questo eterno ricadere su se stessa e nell’ultimo slancio metamorfico delritornol’acqua, carica di germi vitali, si addensa e si raggruma in possibili «forme da ricombinare», che in queste liriche assumono densità di corpi infantili all’apparenza generati a partire dalla pelle che, serrati i propri pori, avverte l’improvviso e drammatico sussultare della vita. Su questa sterminata scena, leggi arcane paiono indirizzare ogni esistente ad occupare uno spazio deputato: «Capita di allargarci / creando un cerchio con le braccia, / un girotondo di sguardi abbassati […] noi bambini / chiediamo di capire quale sia / la nostra posizione / nel coro».
Sbocciata forse insieme alla prima alba del mondo, l’infanzia comincia in forma di girotondo con la sua magia, il suo mistero e la sua felicità fragile dalla buccia sottile. La curva raffigura la gratuita circolarità del tempo, che dunque s’avvolge su se stesso e pare non scorrere che nei propri meandri: «Preferiamo che le stagioni / siano soltanto una non nascano / e finiscano sempre per ripetersi / con la sterilità del gelo».
Nel ricordo dell’adulto i bambini sono sì immersi nel tempo, forse ne sono essi stessi la misura («se esiste il tempo siamo / noi») benché abbiano abitato un’età ormai scolorita e alterata dagli anni. Contemporaneamente dimorano fuori dal tempo quando esso è riconosciuto, è rievocato come temporalità immobile, fuori dalla storia. L’infanzia infatti pare vivere uno sconfinato presente atemporale, ignaro della vita intesa come trascolorare e appassire. Forse rappresenta il nostro sogno fallito di eternità, di immortalità. Nel romanzo di Carol, Alice chiede a Bianconiglio: «per quanto tempo è per sempre? A volte, solo un secondo» è la risposta.
I bimbi, come l’acqua, non lasciano traccia del loro fluire, non lasciano«orme / che soffocano la terra». Come elfi o gnomi silvani esplorano leggeri, saltellando qua e là e non sanno nemmeno loro da cosa nasca la gioia da cui sono invasi e cosa cerchino, poiché per sapere è necessario riflettere e loro non riflettono, perché ciò implicherebbe un indugio e la vita non conosce ristagno. Ignorano le leggi della gravità, inseguono il respiro atavico e profondo della vita. Anzi, essi sono la vita, la possiedono dall’interno, vi aderiscono in maniera così totale che non sono in grado di vederla, perché per vedere, occorre prendere distanza dalle cose, il che implica un regredire da una edenica perfezione ad uno stadio imperfetto.
Il loro primo incontro col mondo è assoluto ed empatico, poiché quella del fanciullo è forse la condizione ontologica di maggiore vicinanza alla verità che l’essere umano abbia mai potuto godere e forse i bambini possiedono una facoltà demiurgica, figlia del loro possente fantasticaree dellaTerra che li abita: «quale Dio ci è necessario / se ogni giorno inventiamo / un mondo». Tramite la parola, misticamente, la realtà prende vita allorché il bambinonomina le cose, non per dominarle, come è detto nel libro della Genesi, ma«per dare inizio al loro esistere».
È quel tempo sospeso e cristallino «in cui le nubi non sono cifre o sigle / ma le belle sorelle che si guardano viaggiare», quando «il nostro mondo aveva un centro», come scrive Montale cantando la fine dell’infanzia. Come non conoscono il tempo, che pure li contiene senza all’apparenza infierire su di loro, così i bambini non conoscono la morte. A volte la osservano nelle cose, negli animali, tuttavia non la riconoscono come tale ma come vita riproposta sotto altra forma, trasfigurata(«vita che / riprende vigore da un’altra parte»), come uno dei volti con cui la onnipresente esistenza si mostra. E come non esiste la morte, così non ha significato la nascita, di cui non vi è coscienza: ai bambini pare di essere «senza / una nascita che ci avrebbe / collocati nel tempo»: nascita e morte coincidono nella danza lenta e sempre uguale dell’essere:«Non possiamo morire / forse non siamo ancora nati».
È solo nell’età adulta che si afferma l’idea del morire come scandalo, come altro dalla vita. Nel mondo infantile stati estremi come sonno e morte possono intrecciarsi e confondersi, addirittura scambiarsi di ruolo, di segno, in una sorta di gioco tragico e ineluttabile. Così è pure in un enigmatico frammento di Eraclito: «È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi.», oppure nella lirica di Rimbaud Le dormeur du val, in cui il soldato – fanciullo dorme il suo sonno greve in una culla fiorita accarezzato dalla Natura madre. In una progressione semantica il poeta ci informa che questo suo dormire non ha ritorno. Forse la morte, il sonno e il tempo sono fatti della stessa sostanza. E forse davvero vita e morte si tengono per mano e si scambiano doni visto che insieme col nostro affacciarci al mondo accogliamo anche il nostro lasciarlo.
Si diceva di un libro insolitamente lieve e arioso, blandito dall’aura di quel tempo senza tempo. Sì, ma insieme il libro più toccato dal destino dell’intero Ciclo, perché contiene pure la narrazione struggente del procedere lento di una forma verso il suo imbrunire, del cadere e corrompersi delle cose e della ingannevole brevità della fanciullezza, anche se mai espresso in tonalità apertamente drammatica. Utilizzando la metafora dell’acqua, Hölderlin, nel bellissimo Schicksalslied (Canto del destino), già aveva narrato la differente sorte degli dèi e degli umani. I primi, «liberi dal Fato»,animati da uno spirito perenne; instabili, destinati a svanire nell’abisso del tempo come «acqua di scoglio / in scoglio gettata» i secondi.
Quando la scorza si rompe e la corolla in cui è custodita l’infanzia avvizzisce, la perfezione del girotondo si scompone, il bimbo cessa di essere bimbo e quel tempo remoto in cui forse eravamo dèi si dissolve per sempre. Di nuovo Montale: «Giungeva anche per noi l’ora che indaga. / La fanciullezza era morta in un giro a tondo». Al pari del ricadere fisico dell’acqua, si compie il precipitare del fanciullo verso l’età adulta con le sue regole incomprensibili e i suoi divieti forzatamente imposti: «Pende sui nostri capi un cielo che / non possiamo cambiare».
In questo che potremmo anche leggere come una sorta di involontario trattato in versi di pedagogia capovolta, una specie di roussoiano Emilio del Duemila con cui mettere in guardia dagli errori che la società può commettere nei confronti della paideia dei bambini, si delinea un’insanabile antinomia tra natura e cultura, già tratteggiata nel testo biblico sulla creazione del mondo.
E ai bambini che, al pari del piccolo Oskar de Il tamburo di latta, respingono la necessità del mutamento anche a costo di un radicale e vano conflitto col mondo dei grandi («siamo orfani di entrambi finalmente / possiamo smettere di crescere»), i frutti dell’albero della conoscenza paiono indigesti: «fino a quando ci chiameranno in classe, / che bisogno c’è di studiare», come se l’albero non fosse altro che la cifra del serpente, prodromo all’addio fatale «alla terra che molle / vuole trattenerci con la promessa / di non tradirla mai.» Che necessità c’è di acquisire, con la visione critica e problematica che si instaurerà nell’età matura, l’amara certezza, insinuata «per invidia», della sterilità della fantasia e dell’ineluttabilità della morte? I bambini non conoscono risposta, forse al pari degli adulti.
Solo l’acqua «riprende il nome che aveva tradito quando è partita», tornando a se stessa nel suo perpetuo cadere e risalire; ciò che invece era nato per mutare, muta, secondo il proprio nome e il proprio destino.
“Quest’ora dell’estate” di Carla Saracino, «tempo miracolosamente illeso dentro l’altro tempo».
INTERVISTE
Grazia Calanna
Marzo 28, 2023
«Pacifica, stordita dalla fedeltà,/ suo era il piacere di lenire/ la stoffa dell’iride, il fazzoletto sull’occhio./ Dal vento alla porta ogni giorno più finita». Versi di Carla Saracino scelti per introdurre la lettura del libro “Quest’ora dell’estate”, edito da “L’arcolaio”, nella collana “I codici del ‘900”, diretta da Gian Franco Fabbri. Sulle pagine vibrano stagioni d’eternità, come “l’ora del parto di una nuova chiarezza”, sovviene Rilke, come «sostanza d’aria», un periplo che abbraccia il mondo terreno spazio-temporale e quello dell’immaterialità, come la luminosa «malinconia del sud». Con la riconoscibilità di una scrittura d’elegante esattezza, esperienziale, la Saracino concepisce immagini che riflettono «l’incipiente tempo/ miracolosamente illeso dentro l’altro tempo».
Qual è stata (dalle tue parole) la scintilla che ha portato il tuo “Quest’ora dell’estate”?
Si è trattato di un fuoco lento, acceso da una fiamma la cui origine non saprei puntualizzare nel tempo. Quest’opera si è fatta a piccoli passi, è venuta a galla come un corpo ingombrante che era sprofondato e che è risalito piano, da un fondo impaziente di alleggerirsi. Non so se sia occorso un guizzo di maggiore attenzione per elevarla a raccolta poetica. So che è valsa il tempo di una risalita dal profondo di me stessa e che le parole sono state una conseguenza naturale.
In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Vivendo me stessa, quanto più fedelmente è possibile. Soprattutto la me del quotidiano, la me della difficile, banale e conforme realtà. Detto così, potrebbe risuonare come cosa ovvia, ma il linguaggio si muove all’unisono con l’esistenza stessa che ci attraversa. Non ci sono scarti né tradimenti in questa corrispondenza. Il linguaggio è fatto di eventi ed emanazioni: allo stesso modo la vita, all’atto del suo manifestarsi, si compone di un sostrato di espressioni che giungono a compimento. Se si vive rispettando la propria natura, immergendosi pure negli aspetti più prevedibili o elementari dello stare al mondo, anche il linguaggio si fa chiaro, diventando assiduo compagno di viaggio, in qualsiasi forma artistica o affare umano lo si voglia leggere.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
La poesia, come tutte le cose eccezionali e le creature dotate di grazia e visionarietà, abita le soglie, le piccole tracce ai confini, i passaggi schivi. Se per invalicabile intendiamo l’azzardo sul non detto, la parola agognata, il sogno cercato, il desiderio perpetuato, la poesia con le sue immagini rivelatorie certamente agisce: presso il suo varco, valicabile e invalicabile possono convivere, persino unirsi. C’è però un altro tipo di invalicabile. È quella zona informe in cui vanno a finire le povertà dell’immaginario quotidiano, le limitazioni o le imposizioni sociali a cui siamo chiamati senza sensate giustificazioni, le milioni di offese alla vita battute al ritmo di cinismi imperanti e un po’ vili: anche in questo caso la poesia diventa strumento che trasforma e affranca; realizzandosi in lingua, si autolegittima a esistere: non vuole insegnare niente a nessuno, eppure c’è ed è lì a disposizione per chi sa leggerla.
La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può colmare l’irredimibile?
Credo di no, soprattutto perché la solitudine del poeta è la solitudine di ogni uomo. Il poeta, forse, sente più consapevolmente di doverla affrontare o farsene distruggere, a seconda della sua disposizione; a volte decide di farci i conti, sobbarcandosi anche quelle altrui. Esistono infinite maglie di solitudini dentro l’unica parola che le racchiude. Certamente la poesia può lenire. È una forma non richiesta di conforto, pertanto è concreta, a tratti salvifica. Aiuta a tollerare l’inevitabile disfatta del tempo, la precarietà di ogni bene, la casualità degli eventi della vita. Leggerla, scriverla, aiuta a misurarsi col tempo, a non andargli troppo contro, se possibile.
E, ancora, con uno dei tuoi versi, «L’infelice vita di un passo verso l’alto», ti chiedo: le parole bastano alla poesia?
Non bastano. Occorre che la poesia faccia un passo verso un altrove ulteriore, sempre. Cosa sia questo “altrove” lo sa chi sente e soppesa la lealtà del suo scrivere versi. Senza una spinta alla fuga non c’è alterità: non c’è andata, non c’è ritorno. In poche parole, non c’è il viaggio terrestre.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?
Moltissimo. La forma di una poesia è già la sua verità. Vi aderisce talmente tanto da esserne parte. Se c’è stata lealtà nel sentire, la forma lo dice. Se c’è stata finzione, smaschera. In questo senso, è fedele e trasparente. Una sorta di vetro finissimo, eppure fondamentale, in mezzo al quale si iscrivono i movimenti del sentire. Così è il suono, o meglio l’anteprima del suono, quel che anticipa la visione che genererà le parole. Tutti noi siamo prima o poi toccati da una combinazione di anni felici, nella vita: che siano una manciata o no, che avvengano nell’infanzia o nel corso della maturità, poco vale. Importa che quella esatta combinazione per qualche misterioso meccanismo funzioni. È in quello stato di beata coincidenza di ogni cosa che giunge il suono, il suono interiore. L’arca del nostro corpo lo incamera, siamo vivi. La scrittura poetica ne diventa conseguente e naturale testimone.
Immagina di dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Non ho strade certe da indicare. La poesia è un avvenimento così intimamente legato al destino personale da differenziarsi nelle mete, negli stili e nei periodi storici. Se posso azzardare, sosterrei semplicemente la vocazione ad essere se stessi, a riflettersi nella vita aderendo alla propria storia e alle proprie predilezioni, senza escludere chi può aiutarci a diventare migliori. Ecco, forse incentiverei l’abbandono al piacere dell’ammirazione, o del mirare verso chi merita il nostro sguardo meravigliato. Chi ammira è sempre in cammino verso l’avvenire. Come l’immagine poetica che – per dirla con Gaston Bachelard – “nella sua novità, apre un avvenire al linguaggio”.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una poesia dal tuo libro “Quest’ora dell’estate” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Anche io ho amato la vita,
senza ipotesi di scambio.
Sono stata nelle spiagge dell’adolescenza
e ho temuto per gli altri, prima che per me.
Ho seguito chi poteva restare, e sono rimasta.
Ho cenato nelle contrade più belle,
con i commensali migliori.
Avevano ragione di starmi accanto: per le loro ombre.
Le vedo oggi, allineate, nella luce della casa. Irrompono
alla vista, scadono nel perdono, irradiano i primi anniversari.
Ci sono stati dei periodi, nel decennio dei miei vent’anni, in cui uscivo quasi ogni sera, finivo in posti improbabili, vecchie contrade di paese o posti del sud d’Italia zeppi di meraviglie, in giro o a cena con varie persone, amici cari e conoscenti. Ho respirato la convivialità semplice degli istanti: il mio adolescere è stato questo scavo nelle archeologie delle biografie degli altri. La poesia che ho scelto è la sintesi di quelle esperienze. Le sono molto affezionata perché esprime anche il mio spavento verso lo scorrere del tempo, che talvolta esorcizzo anticipando il sentimento della nostalgia. Rivedendomi nel passato, nel passato prossimo al ricordo, argino la paura del deperimento delle persone care e dei luoghi. Questa poesia è come una vecchia cartolina spedita dal futuro di una me stessa che si concede a una posa di infantile vanità. Un certo tipo di vanità mi piace, fin da quando ero una bambina. Al contrario di quanto si pensi, permette di prendersi poco sul serio e di abbandonarsi; induce alla resa, è una forza che cavalca contraria al possesso: disperde. In ultimo, il testo celebra le mie amicizie. Ne ho avute di straordinarie: con persone epiche, fiabesche, non comuni. In questo senso sono e resto antica, anticamente credo al tesoro del sodalizio con gli altri.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 26.02.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).
L’arcolaio accoglie festosamente il poeta Massimo Palazzi con il suo “Breve compendio di scenografia e prestidigitazione“. Egli esordisce nella collana “riverniciata” del Il laboratorio, lo spazio editoriale curato da Luciano Neri. Il progetto grafico è opera di Michele Zaffarano.
Sentiamo dalle parole del direttore di collana la tematica e lo stile di questa scrittura. Una prosa poesia che tenta nuove formule sulla ricerca letterario.
La parola, adesso, a Luciano Neri:
Con Breve compendio di scenografia e prestidigitazione di Massimo Palazzi, autore genovese, la collana Il Laboratorio diretta da Luciano Neri inaugura una nuova serie di pubblicazioni che guarda alle scritture di ricerca contemporanee e riprende il proprio progetto editoriale rinnovandondosi nella veste grafica (a cura di Michele Zaffarano).
Il testo di Massimo Palazzi, in linea con le aspettative testuali e creative della collana sfugge fin da subito a una definizione di genere, risultando un testo stratificato, pur nella limpidezza della prosa che lo caratterizza. Non si tratta né di un romanzo né di una raccolta di racconti, pur non essendo un saggio a tratti riesce ad assumere un registro saggistico; non si tratta neppure di un resoconto di viaggio né di un libro d’arte monografico, di certo strizza l’occhio alla letteratura ecfrastica. La descrizione è, a un primo colpo d’occhio, la sua caratteristica peculiare, o almeno sembrerebbe. Di certo il Breve compendio sfugge a un certo enciclopedismo, che qui viene contraddetto rispetto alla sua brevità, attingendo invece a un’enciclopedia delle culture orientali, a ipotesti “sapienziali” da cui scaturiscono quelle linee che l’autore intende percorrere mescolandole alle tante immagini che appaiono ad ogni pagina. Di certo il libro è uno spazio di luoghi, di una specie non definibile, dove fotografia e memoria si compenetrano, dove impressioni e figure si avvicendano. Oppure, il testo, sembra dirci Palazzi, altro non è che un modo per divulgare un mondo illusorio contemporaneamente alla sua parte in ombra, per uno sguardo che, aggiungendo pezzo dopo pezzo, si voglia prestare, come in un gioco di prestigio, alla costruzione scenografica che lo va sorreggendo, per il tramite di una scrittura raffinata e mai leziosa.
testi:
Buio
C’era una volta un tempo in cui il prodigio dell’immagine non poteva avverarsi se non in condizioni di completa oscurità, quasi che la visione necessitasse di essere negata, dando luogo a un rapporto di paradossale coesistenza che la separazione tra il giorno e la notte, nella chiarezza della sua distinzione, proprio non può spiegare. L’ambiente preposto a quegli accadimenti era il luogo dove il buio assoluto si manifestava nella sua entità apparentemente gigantesca, dotata di una concretezza possente come la muscolatura di un toro. Al suo interno, l’oscurità veniva percepita con una sensazione quasi claustrofobica, ma al tempo stesso sembrava capace di espandere i confini dello spazio fino a un’enormità insondabile. Non appena spenta la luce, il buio, materia proteiforme e gioia dei timidi, allagava l’ambiente e, irrispettoso di qualsiasi muro, pavimento o soffitto che ne limitasse la dimensione, arrivava subito dappertutto, spingendosi ben oltre i confini della stanza che ne era piena. Impossibile da quantificare in termini di coordinate cartesiane, l’oscurità ha il peso dello spazio vuoto, un peso imponderabile nonostante il carico di tentazioni suggerite dall’azione nascosta e dall’occasione del facile sotterfugio che tanto spontaneamente si legano a esso. Per quanto possa sembrare incredibile, nella maggioranza dei casi tanta enormità finiva per esser contenuta in stanzini angusti, sottoscala obliqui, ripostigli e seminterrati, costretta in bagnetti e lavatoi e in ogni altro locale di servizio appositamente parato per far sì che l’assenza di luce si materializzasse in tutta la sua grandezza, non solo la notte, ma anche nel pieno splendore del giorno. Nonostante l’ampia casistica delle possibilità, quegli ambienti erano tutti angoli in cui era bello rifugiarsi o nascondersi, come quando, per giocare, i bambini si rintanano sotto i tavoli o sotto il peso delle coperte del letto e inventano capanne e castelli per il gusto di entrare e uscire da quelle loro proprietà, forse rievocando inconsciamente una sensazione di sicurezza prenatale. Curioso era anche il modo in cui l’esigenza di ottenere la totale oscurità determinava l’aspetto di quelle stanze che oggi, agli occhi di chi non fosse al corrente della loro funzione rispetto allo sviluppo delle pellicole e alla stampa di fotografie, potrebbero apparire costruzioni bizzarre e perfino un po’ inquietanti. Erano soprattutto la porta e le eventuali finestre, sigillate perfettamente, a evidenziare l’ingegnosa casistica della fabbricazione artigianale del buio. Frequente era l’uso di pannelli di cartoncino, polistirolo o compensato leggero, che venivano usati per coprire le fonti di luce senza indugiare nell’estetica del risultato. Chiodi e strisce di nastro adesivo erano lasciati in piena evidenza e resi ancora più visibili sulle pareti chiare della stanza dall’uso prevalentemente del nero, il colore caro all’oscurità che sembra volerla invocare omaggiandola. Guardare oggi i densi strati di pittura opaca, i fogli di plastica nera e i pesanti tendaggi di una vecchia camera oscura suscita fantasie che contemplano la relazione tra simili paramenti e l’apparizione delle immagini. Viene da pensare ai drappeggi che accompagnavano la mostra dei quadri nelle esposizioni Ottocentesche, ai baldacchini sotto ai quali negli stessi anni sedeva, tra velluti e broccati, la carismatica figura di chi si faceva tramite degli spiriti dei defunti e, ancora, all’arredamento delle sale teatrali e cinematografiche. Attraverso la fenomenologia degli apparati scenografici che sono stati costruiti come premessa e corollario all’apparizione di immagini statiche e in movimento si potrebbe scrivere una storia del buio come condizione necessaria al manifestarsi della visione. Lasciandosi trasportare dalla suggestione di tutto questo nero, affiorerebbero alla mente altre camere molto più oscure, sotterranee, senza finestre. Camere in cui si viene introdotti aprendo una robusta portiera, borchiata come la pelle di una sella e pesante sui cardini, camere che hanno pareti di controllata morbidezza, completamente foderate di gomma nera imbottita. Alcune sono state costruite per il diletto di chi le frequenta altre, purtroppo, no. Ecco una cella di contenzione per i prigionieri della Stasi a Berlino, luogo dove l’esercizio del potere si espleta nel provocare rivelazioni improvvise e confessioni inaspettate di colpe neanche vagamente immaginabili altrove. Teatro, niente altro che teatro. A proposito di costruzione dell’oscurità e apparizioni, viene da pensare che l’affermarsi dello spazio nero che tanta fortuna avrebbe avuto sul palcoscenico contemporaneo, luogo delle apparizioni per eccellenza, possa risalire all’epoca nella quale un trucco noto come “Black Art” si affacciò sulle scene degli Stati Uniti. La preparazione dello spettacolo prevedeva che l’intera cavità del palco fosse foderata di velluto nero e che l’assito fosse coperto di feltro in modo che alla totale assenza di elementi visibili corrispondesse una altrettanto totale assenza di rumore. La regolare illuminazione del palco veniva sostituita da una serie di lampade a gas, disposte lungo il limite del pavimento e i due stipiti del boccascena per abbagliare leggermente il pubblico e rendere il retrostante spazio ancora più nero. Il prestigiatore, in abiti chiari, stupiva gli spettatori facendo apparire e scomparire dal nulla tavolini e grandi vasi, all’interno dei quali, come alcuni ritengono che le anime dei defunti si reincarnino in animali e corpi diversi, trasmigravano arance e altri oggetti prestati dal pubblico. Solitamente il numero terminava con l’apparizione di uno scheletro danzante le cui membra si scomponevano muovendosi liberamente sul palco, infondendo stimolanti brividi di terrore nella platea per poi ricomporsi e scomparire definitivamente con la stessa velocità con cui era comparso. Il trucco c’era e come ogni buon trucco era facilmente spiegato: invisibili al pubblico, ma sotto gli occhi di tutti fin dall’inizio dello spettacolo, gli assistenti del prestigiatore erano responsabili delle apparizioni e delle sparizioni. Completamente vestiti di nero, provvisti di guanti e un cappuccio di velluto che consentiva la loro totale scomparsa, coprivano e scoprivano gli oggetti con panni neri e li trasportavano da un punto all’altro del palcoscenico, muovendosi agili e silenziosi come gatti nudi nella notte. Negli stessi anni in cui si diffusero simili spettacoli notturni, le prime indagini cronofotografiche avevano affrontato la difficoltà di ottenere in pieno giorno uno sfondo perfettamente buio su cui scomporre in singole posizioni il movimento di un determinato soggetto scelto per lo studio. Per evitare che imprevisti riflessi di luce generassero involontarie esposizioni della lastra sensibile e fastidiosi offuscamenti sulla figura ripresa, lo sfondo doveva essere privo di superfici riflettenti, impresa non facile dato che perfino una parete dipinta di nero o coperta di velluto sarebbe risultata inadatta se usata in piena luce diurna come era necessario che fosse. Anche in questo caso, come sul palco, la soluzione fu lo spazio di una cavità, la costruzione di un contenitore dove imprigionare il buio e tenerlo al riparo da ogni fonte luminosa. Fu così che il bisogno di ottenere la totale assenza di luce determinò la trasformazione della superficie del fondale in uno spazio tridimensionale che aveva l’ingombro di un fabbricato di circa dieci metri per dieci, completamente oscurato con velluto nero e catrame sul pavimento e aperto in corrispondenza della parete che doveva fare da sfondo. Tale era la misura del buio, il trucco di un’illusione simile a quella della “Black Art”, non più rivolta a stupire agli occhi del pubblico spalancati nel silenzio della sala, ma architettata per ottenere una corretta impressione della luce sulla lastra fotografica attraverso l’occhio di vetro dell’obiettivo. Il prodigio che si verificava nella camera oscura, madre di tutte le immagini, apparentemente non contemplava trucchi o inganni. Tutte quelle che oggi potrebbero sembrare costruzioni scenotecniche erano in realtà interventi mirati a vincere un’unica grande sfida che rientrava nell’oggettività delle leggi fisiche di propagazione della luce. La sfida era quella di evitare ogni minima infiltrazione luminosa proveniente dall’esterno pur garantendo un’adeguata ventilazione dell’ambiente e una limitata circolazione di polvere nell’aria. All’interno della camera oscura, non appena trascorsi i pochi minuti necessari all’occhio per adattarsi all’oscurità, un buio falso si sarebbe rivelato con l’evidenza della presunta aurea psichica visualizzata dalla fotografia Kirlian: a poco a poco il tracciato luminoso di un mondo insospettato di fessure e spiragli avrebbe disegnato i contorni della stanza e di fatto compromesso il paziente lavoro svolto dall’operatore nell’intimità di quel suo rifugio segreto. Tuttavia, chiunque si sia trovato ad allestire una camera oscura, anche solo per provare a sviluppare e stampare le proprie foto delle vacanze al mare trasformando i gioiosi colori delle giornate estive in un malinconico bianco e nero, sa che in realtà anche in questo luogo, proprio come sul palcoscenico, un piccolo gioco di prestigio era concesso. La costruzione delle cosiddette trappole di luce che, in una grande varietà di soluzioni, coniugavano l’esigenza di lasciar passare l’aria con quella di bloccare la luce proveniente dall’esterno della stanza, necessitava infatti tutto l’ingegno di un trucco sofisticato. Il segreto era spezzare la propagazione rettilinea dei raggi luminosi convogliandoli nei meandri di un labirinto, piccolo o grande che fosse, le cui superfici interne venivano dipinte di nero opaco per prevenire gli effetti della riflessione della luce sulle superfici. Talvolta, c’era anche un filtro, posizionato all’ingresso della trappola, per limitare la quantità di pulviscolo presente nella stanza. Nelle camere oscure più esoteriche e professionali, l’ingresso era del tutto privo di porta, sostituita da una di queste trappole in versione gigante. Oggi conosciamo il mondo principalmente attraverso le immagini fotografiche. Dai tempi dell’invenzione della camera oscura queste prove dell’esistenza delle cose si sono moltiplicate a dismisura diventando tanto pervasive da inseguirci ovunque noi siamo e restituirci l’esperienza del mondo con tanta apparente fedeltà da sostituirsi a essa e rendere sempre meno rilevante la distinzione tra realtà e illusione. La questione della differenza della verità dal simulacro si è evoluta al punto da ridursi a una sterile e cap- ziosa speculazione, invero inutile e obsoleta. Come la caverna di Platone per l’ontologia e la gnoseologia del pensiero occidentale, la camera oscura, di cui probabilmente molto presto non resterà memoria, è l’inconscio arcaico dell’immagine fotografica. Rispetto alla luce, questa gioca lo stesso ruolo che, nella seduta spiritica, la rappresentazione teatrale assume rispetto all’invisibile.
Massimo Palazzi è nato a Genova nel 1969. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, Herbarium Vietnamensis (979-12-200-3857-7), autoprodotto e stampato in 100 copie tramite una fortunata campagna di crowdfounding.
Federico Migliorati recensisce “Sul banco dei pesci” di Carlotta Cicci.
Presentato in precedenza sul blog Spazio libri. Prefazione di Alberto Bertoni.
L’AMORE COME LUNGO RIPOSO: ECCO “SUL BANCO DEI PESCI”,
ESORDIO POETICO DI CARLOTTA CICCI
di Federico Migliorati
La poesia fluida e frastagliata al tempo stesso della romano-bolognese Carlotta Cicci si inserisce in questo nostro tempo come un originale richiamo al verseggiare profondo e costante, che nulla riserva a una facile lettura. Ideatrice insieme al marito Stefano Massari, pure lui poeta, di quella fantasiosa e originale creazione culturale di Zona Disforme che sulla scena italiana si sta facendo apprezzare per il multiforme lavoro artistico a quattro mani, Cicci ha dato alle stampe per la feconda casa editrice forlivese “L’arcolaio” di Gianfranco Fabbri “Sul banco dei pesci” (121 pagine, 14 euro), sua opera prima nel mondo della poesia, suddivisa in quattro stanze e con l’insigne e approfondita recensione di Alberto Bertoni. L’atmosfera che subito assorbe il lettore è quella dei territori dell’interiorità in cui è facile assaporare un’acribia di fondo per la parola, maneggiata con cura, necessaria per un dire sempre fondamentale, per parlare di un assoluto (“sono giovane/sono tutte le età”) che porta a perdersi per poi ritrovarsi. Se i social sono ormai diventati cassa di risonanza, effimera e spesso mefitica, di un verso volubile e vuoto, la poetessa mantiene la barra dritta e manifesta con sincerità come “in questo tempo consueto/nessuna notizia nuova/solo morfina/a buon mercato”, ficcante e incisivo passo che non può che stimolare la riflessione tenendo ben presente che “non abbiamo più tempo/per il perdono”. L’Io che parla è spesso ferito, lacerato da contrasti e contraddizioni, è una presenza-assenza (“sono latitante”) che chiede “risposte umane”, che resta “immobile a guardare” e rifugge dalla semplicità del tutto in un vortice che sembra interrogare ciascuno di noi. La verità e la menzogna, l’onore e l’infamia, la dolcezza e la crudeltà, l’immanente e il trascendente, il superfluo e l’essenziale, il caos e l’ordine, la fedeltà e il tradimento, la debolezza umana e la forza: la parola si fa voce, canto, preghiera, lamento con Cicci, senza mai abbandonare i territori di una poesia contemporanea e antica al tempo stesso e per la quale condividiamo l’opinione di Bertoni che vi accosta, senza instaurare delicati paragoni, l’esordio di Milo De Angelis a metà anni Settanta. Si assiste a una sorta di invito al lettore a prendere parte alla scommessa del viaggio, tra accelerazioni e contaminazioni, magmatico andirivieni e temerario abbandonarsi all’altro, ma anche alla conoscenza di sé e dell’oltre che ci circonda: nei versi brevi e concisi, spesso formati da una sola parola, è sigillato un “pensiero anemico” che spicca in qualità e significato. “Sul banco dei pesci” nasce da un caleidoscopio di visioni, sensazioni, ambientazioni reali e immaginarie, è figlio di una poesia “randagia” che ha cura della parola e del suo obiettivo precipuo. Nulla, in questa silloge, induce all’ozio, all’inerzia bensì richiama condivisione, partecipazione, empatia: c’è una forza centripeta e centrifuga che fa dire all’autrice come l’amore sia “un lungo riposo/nel mezzo di un incendio”, un contrasto, forse un’aporia, alla ricerca di “indizi di luce”.
Accogliamo quest’oggi nel nostro catalogo lo scrittore-poeta Daniele Gorret, autore di numerose pubblicazioni (vedi bio-biblio, in fondo all’articolo). La raccolta che ci presenta si intitola “Raccolta degli elogi“, le cui motivazioni sono ottimamente esplicate dall’autore spesso, nella “Premessa prosaica. Lode all’elogio”. L’autore è nato ad Aosta, si è laureato all’università di Torino. E’ autore di diverse raccolte di versi e di alcuni romanzi. E’ anche saggista: notevoli sono i due lavori dedicati a Vittorio Alfieri.
Ma leggiamo con attenzione e con piacere la sua personale introduzione.
Promessa prosaica. Lode dell’elogio.
Pensare l’elogio d’un qualcosa (un altro da sé, uno di fronte) vuol dire volerlo carezzare e, volendolo fare, farsene carezza.
Per questo, fare l’elogio è sconfinare: dal dentro di sé, un poco fuori; dai soliti giudizi calcolati, andare più in là, un po’ più arditi, e – anche – dentro se stessi, un poco innamorati.
A Gilead c’è il balsamo famoso? Il Libro assicura che c’è ancora ed è ambìto da noi, i disperati. Prenderne un poco e poi portarlo a casa, e stando in casa spargerlo o donarlo: azione più fraterna non si dà. Elogiando, diamo il balsamo e lo siamo: elogiante ed elogiato fanno uno, e profumo si spande, ovunque siamo.
E manna nel deserto cade ancora? Alcuni, avventurosi, hanno viaggiato, e, a sentirli, giurano di sì.
Manna e balsamo famoso: due forti alimenti per l’elogio! Possiamo partire alla ricerca: per maremorti e per deserti, sostenuti da ciò che da sempre sostiene il viaggiatore: il bisogno di credere più in là.
Pure, formulare un elogio vuole dire: stare in colloquio col silente, udire ciò che il messo a tacere o lo scordato avrebbero, dentro di sé, da far sapere…E insieme vuol dire dare la parola, fargli – da lontano – comprendere “Ti ammiro”. Avere per l’elogiato – se presente – infinito bisogno d’affezione, e – se invece per tempo o per spazi ci è lontano – forti fiammate d’antica nostalgia. Vuol dire rovesciare maggioranze, detti sicuri, larghe convinzioni; non temer di stare con i pochi, gli umili sulla terra, i sempresoli. Anche vuol dire: amare il rifiutato, il pensato immondizia, colui che per i più non vale niente.
Per questo, a chi voglia farsi elogiatore si chiede coraggio e libertà totale. Prima di farlo, prima d’iniziare, consigliamo a chiunque d’essere informato: come nelle confezioni dei medicamenti, leggere le precauzioni è necessario: “Sconsigliato ai convinti che i più numerosi hanno ragione, che legge d’uomo è legge di creato, che progresso sia vero universale… A tutti costoro i nostri elogi potrebbero causare irritazioni, perdita di controllo, svenimenti. Che pertanto si tengano lontani dalla raccolta che qui noi proponiamo”.
L’elogio di qualcosa prevede che si diventi un po’ la cosa. Quindi, c’è anche la carezza a se stesso in quel qualcosa. Come alla fine dell’opera Bohème, io sono un po’ Mimì che canta del suo amore e del suo amore in quel suo letto muore, io spettatore avverto un male acuto al petto, per Rodolfo sento immenso inappagato amore, spalanco gli occhi stesa sul mio letto, li richiudo per sempre, ammutolisco e muoio…
Daniele Gorret (Aosta, 1951) ha esordito come narratore nel 1984 con Sopra campagne e acque (Guanda) cui ha fatto seguito una quindicina di testi in prosa tra i quali Avventure di vita e avventure di morte di Silvano Ligéri (Manni,1998), Eventi in un giorno di Emilio Tissot (Mobydick,2000) e la trilogia dedicata al personaggio di Anselmo Secòs: Malattie infantili (Pendragon,2010), Errori giovanili e Disinganni senili (Pequod, 2015 e 2018).
Negli ultimi anni sono apparsi anche i suoi libri in versi fra cui Ballata dei tredici mesi (Garzanti, 2003), Che volto hanno (LietoColle,2011, Premio Il Meleto-Guido Gozzano), Quaranta citazioniper Anselmo Secòs (LietoColle,2015, Premi Carducci e Rubiana-Dino Campana) e Carni (Pequod,2021).
Suoi racconti sono compresi nelle antologie Narratori delle riserve (Feltrinelli,1992) e Raccontiitaliani del Novecento (Meridiani Mondadori,2001).
È autore di testi teatrali e del radiodramma Due.
Studioso dell’Alfieri cui ha dedicato due saggi.
Intensa la sua attività di traduttore di classici francesi del Sette e del Novecento da Sade a Céline, Gide, Caillois, Malraux, Blanchot.
I sonetti di Gabriel Del Sarto, quel “bianco di luce” attraversato dal padre Recensione Anna K. Valerio sul blog OFF
“Pari a te, questa notte,/ che dormi trasparente nel mio abbraccio.” Quello bianco di luce fino alla trasparenza è Giona, appena nato. Lui, suo padre, Gabriel, non è che densità: di vita, fatti, circostanze, pensieri, ricordi, e ancora pensieri, quelli degli altri, la confusione assordante accecante nera che vorrebbe sostituirsi ai suoi. Invece il poeta che è in lui resiste – ed ecco un libro di sonetti e prose liriche esilissimo, quintessenziato, fermo, estatico, libero, originario, vivo delle fonti stesse della vita. Sonetti bianchi (L’Arcolaio 2022, pp. 59, € 8) è la raccolta con cui Gabriel Del Sarto canta il suo quarto figlio. Lo stupore di scoprirsi libero nel dirgli sì, nel dire sì al flusso di cose da dirgli, rese bianche di luce e trasparenti dalla bellezza di quel suo atto di devoto coraggio verso la vita che arriva, non si sa da dove e con quali perché.
È tutto trasfigurato quando hai un motivo, un’occasione di amore e l’universo hai la fortuna di guardarlo come per offrirlo. È l’unica volta in cui entri nella metafora del giardino e la capisci. Le cose belle che spuntano come fiori, dalle macerie, dalle distese di tombe coperte di muschio, dai referti medici, dalla vecchiaia, dalla miseria, dal disordine del rimbombo di ogni giorno e strada. “La fine dell’inverno non riguarda/ chi è amato”.
Di solito sono le madri, solo loro, a “farsi attraversare/ dai figli, dalle correnti enormi/ dei cieli”, perché risucchiate nell’urgenza terribile di quel nascere, e poi, in un istante infinito, nello stupore, nella trasparenza, quando il figlio non è più mistero, ma è lì davanti, finalmente, veramente compiuto e nuovo. Le vene azzurre che scaldano quella pelle ancora liquida nel bianco.
E dove può andare un pensiero in equilibrio prima di ogni contenuto, la parola che è solo e totalmente un nome – Giona – (che nome immenso!) stupefatto? Oscilla tra Eden e il lago di Tiberiade, come dondolano al vento gli amenti di un nocciolo, i tralci di una vite. Raggiunge “gli orli del cosmo”. Si ritrova davanti “il mondo com’è, guardato/ per sempre”. Ascolta “una musica grande che piega/ i calendari”, “il salmo purissimo che ora tiene/ la mia mente viva”. E conosce “la vita inerme e più debole”. Capisce che “questa trasparenza/ è tutto”. Che Giona non farà altro che nascere.
L’esordiente Carlotta Cicci ha posto tre versi visionari del gallese Kavanagh in apertura di questa raccolta – E Cristo viene/ come un fiore/ di gennaio – fondando così questa poesia sulla sua imprevedibilità, come quell’apparire inatteso di un fiore a gennaio. La scrittura è fortemente metapoetica, continuamente attraversata dalla necessità di dar conto di sé, della sua germinazione, del suo esserci nel dolore, nell’amore, nell’abbandono e nell’oblio. L’autrice è disorientata ma sensibilissima, sente la vita ma sa che la poesia la precede – inseguo vertigini/ come un uccello cieco/ che mangia il vuoto// sono preistoria. Avvertiamo nei testi quasi un travaglio, la fatica che si ripete del vero parto della figlia, a cui Carlotta Cicci dedica la sua silloge – il sangue mi è sfuggito/ tutto è già accaduto/…/ mi lecco le ferite/ chiedo asilo.
L’io è inafferrabile, metamorfico, teso alla pietas ma anche in polemos, tra accettazioni totali e rifiuti radicali. C’è un poeta spettatore (e io che rimango/ immobile a guardare) e un poeta speculatore (esistere a tratti/ prima del mondo/ prima del caos) ; ed ancora, un poeta del corpo – Voglio ballare/ finalmente sudare – e un poeta dell’anima – In attesa del sangue/ reclamo il fondo del lago/…/ la mia anima è svanita/ tra i seni/ nelle città mutilate/ nelle acque mescolate/ in frammenti di stoffe/ e vortici di silenzio.
Alberto Bertoni, nella prefazione, parla di “un libro generoso e multiforme” e spende il nome di Milo De Angelis per porre l’accento “sulla spinta comune all’inclusività e alla multanimità delle prospettive di rappresentazione”, nonostante la differenza di peso e di personalità tra i due poeti; parla di “scrittura istintivamente fenomenologica”, di “metrica flessuosa e flessibile, come un giunco”, di poeta che preferisce alla metafora “una liberissima associatività d’eco surrealista” – spunti molto interessanti, davvero rari per una poesia d’esordio.
Antonio Fiori
.
Testi
Torna un qualunque mattino
batte il fegato del mondo
insopportabile
nessun presagio
sul palmo delle mani
in un passaggio
di vortici e soglie
con l’anima capovolta
in un improvviso odore
di fieno e sale
nel delirio
lei nasce
il suo respiro
come una carezza
assoluta
un suono
piccolo
*
Nei silenzi vicinissimi
ho la bocca macchiata di reato
rigo muri col pollice
scortico tavoli e sedie
mi sposto di continuo
tocco fondi
riemergo.
sola sono tutta mia.
*
Le voci registrate
il suono delle campane
la domenica nei labirinti in fiore
in quei giardini spalancati
tiravo su le pieghe dei vestiti
correvo sulle punte
allontanandomi dal tuo grido
Carlotta Cicci videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato numerosi progetti video e documentari (http://www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.
Marco Furia recensisce sul blog “Perìgeion” l’ultima silloge di liriche di Gabriele Gabbia — L’arresto (L’arcolaio, 2020).
Un non definitivo arresto?
L’arresto, seconda raccolta data alle stampe da Gabriele Gabbia, si presenta quale sequenza di accurate cadenze in cui riflessive immagini si susseguono secondo eleganti ritmi.
Leggo a pagina 20:
“(…)
Poi v’è quel modo
di star dentro alle cose
– di starvi poggiato
fra valichi e case –;”.
Emerge qui, introdotta da tre punti chiusi tra parentesi, una quasi noncurante, sospesa, consapevolezza: stare davvero “dentro le cose” è impresa non sempre facile e, forse, oltre certi limiti, nemmeno possibile.
Non resta, allora, che descrivere
“l’immane
movimento della vita”.
Attento a evitare il rischio di chiudersi nella propria esclusiva intimità (i cui esiti espressivi potrebbero risultare alquanto incerti), Gabriele si apre al mondo del consueto, del quotidiano, attento a illuminanti tratti soltanto a prima vista banali:
“Lo stesso sole del cardigan di quel giorno
la stessa tenue, disparata apertura
la stessa distanza di ieri da te”.
Un’“apertura”, pur “tenue”, assume non secondaria valenza: attraverso un piccolo squarcio si può già osservare il mondo.
C’è, poi, la “distanza”, ossia la presa d’atto di un dualismo soggetto-oggetto che, vissuto quale limite, il Nostro forse vorrebbe superare anche correndo il pericolo dell’insuccesso: tuttavia il tono della sequenza sembra tendere a una non del tutto rassegnata accettazione.
Cito, a questo punto, dal singolo componimento il cui titolo è identico a quello dell’intera silloge, i seguenti versi:
“e nessuna parola piú
da pronunziare; solo
un rintocco languido
lento, fino all’arresto […]”.
Ebbene quella “parola”, che, ridotta a “rintocco languido”, non è più capace di proseguire, mi pare potrebbe esprimere una (pur drammatica) difficoltà ma non una definitiva sconfitta: altri linguaggi emergeranno, altri modi di vedere il mondo l’umanità sarà in grado di porre in essere?
Esistono possibili aperture verso territori fisici e idiomatici in cui, senza perdere noi stessi, potremo continuare a vivere?
È questo l’interrogativo che Gabriele con i suoi intensi versi pone: evita di rispondere in maniera esplicita, ma il suo insistere scrivendo suggerisce un senso di non diffidente tensione partecipativa.
L’“arresto” è singolo evento che non esaurisce l’umano divenire?
Impegnarsi al meglio nello stare “dentro le cose” può essere una possibile via d’uscita?
L’arcolaio, nel gratificare i propri lettori, ha pensato di promuovere, con cadenza trimestrale, alcune campagne di sconti, con lo scopo di facilitare la fruizione dei nostri prodotti editoriali. Di trimestre in trimestre, la casa editrice avrà modo di fare un giro di proposte a 360 gradi su tutto il catalogo.
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LEGENDA A COLORI:
Nome poeta rosso
titolo verde
prezzo cop. giallo
quantità disponibile blu
prezzo scontato arancione
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Andrea LeoneHohenstaufen 8,00 euro 20 4,00 euro
Fabio Michieli Dire12,00 euro 17 6,00 euro
Simone ConsortiLe ore del terrore12,00 euro 156,00 euro
Rossella RenziIl seme del giorno11,00 euro9 5,00 euro
Damiano SinfonicoStorie 10,000 euro 5 5,00 euro
Damiano Sinfonico Lingualuce 10,00 euro 35,00 euro
Massimiliano Aravecchia La valigia e il nome11,00 euro5 6,00 euro
Tonino Vaan Cosmesi 11,00 euro23 5,00 euro
Antonio PibiriChiaro di terra 11,00 euro 126,00 euro
Giampaolo De Pietro Abbonati al programma delle nuvole 12,00 euro 6 6,00 euro
Maurizio Landini Hoplon 12,00 euro196 ,00 euro
Andrea Italiano La coca 8,00 euro 19 4,00 euro
Yari Bernasconi Cinque cartoline dal fronte 6,00 euro 10 4,00 euro
Luciano Neri Discorso a due 10,00 euro 14 5,00 euro
Fabio Pusterla Truganini 7,00 euro 294,00 euro
Marilena Renda Fate Morgane7,00 euro 5 4,00 euro
Francesco Scarabicchi Via crucis 6,00 euro 7 4,00 euro