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Su “LA LETTURA” DEL CORRIERE DELLA SERA, FRANCO MANZONI APPUNTA DELLE BELLE PAROLE SUL LIBRO DI CARLOTTA CICCI, “SUL BANCO DEI PESCI”. COLLANA CODICI DEL ‘900. PREFAZIONE DI ALBERTO BERTONI.

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CORRIERE DELLA SERA / LA LETTURA / SOGLIE

DI FRANCO MANZONI

Deliri e carezze in bilico

L’esistenza corre in bilico fra eros e thanatos, deliri e carezze, deserti e sentenze, tunnel e benedizione dolente del parto. In versi densi e multiformi Carlotta Cicci (Roma, 1984) osserva con partecipazione la sacralità della vita, fiuta come una bestiola il rovinoso tempo che avanza nei destini biforcati di ognuno, marca il territorio di chiarore prima del diluvio, mentre tutto resta provvisorio.

(Sul banco dei pesci, L’arcolaio, pp. 124 euro 14).

INIZIA QUEST’OGGI LA PRODUZIONE 2023. PRESENTIAMO MICHELE MICCIA E IL SUO “IL CICLO DELL’ACQUA-PARTE DELLA CADUTA”, IL PENULTIMO VOLUME DEDICATO A QUESTA VASTA OPERA ALLA QUALE L’AUTORE LAVORA DA DIVERSI ANNI. COLLANA L’ARCOLAIO GIALLA.

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Inizia oggi la nuova stagione 2023 con un autore fedele al catalogo Arcolaio. Ci visita questa volta con l’ottavo volume della serie “Il ciclo dell’acqua”. Il titolo completo di questo nuovo libro è. “Il ciclo dell’acqua-Parte della caduta“. La prefazione è opera di Fabrizio Azzali. Chiediamo aiuto al valido prefatore di spiegare il proprio punto di vista su questa nuova creatura di Miccia. Seguiranno poi alcuni brani della raccolta.

Una buona lettura!

La Redazione de L’arcolaio.

Prefazione

L’infanzia è una concomitanza inestricabile di tempo e di spazi. Potremmo tentarne una provvisoria definizione come luogo in cui l’adulto sente oscuramente di essere stato ma a cui non sa tornare, perché ha dimenticato la strada o perché il sentiero è da tempo franato e interrotto. Nel ricordo infatti niente prova che si tratti di un passato effettivamente vissuto e non, ad esempio, del materiale di un antico sogno.

La memoria, lo sappiamo, è infatti una facoltà instabile, insidiata dal vuoto, sprofondata nella voragine del tempo, la cui forma prima è l’oscurità dell’oblio. E ciò è particolarmente vero per le epoche lontane della nostra vita. Se ci capita di ricordare gli anni remoti dell’infanzia o della prima giovinezza (e spesso questo viaggio a ritroso della mente adulta è legato ad un principio mimetico connesso alla memoria involontaria), quei ricordi sembrano scuotersi dal loro profondo sonno e, come un nugolo di passeri sospinto da un improvviso fragore, si alzano in un volo confuso davanti ai nostri occhi per un momento poi si disperdono in frammenti. E, forse proprio per la sua natura iridescente e fragile, quell’età giovane, svincolata dalla fuga degli anni e mondata da ogni incrostazione, allo sguardo dell’anziano diventa una sorta di Eden scomparso al pari dell’età dell’oro, il secolo innocente nella iniziale utopia della storia umana.

Ma questo paradiso sognato e perduto è frutto in gran parte di un’illusione ottica originata dalla distanza e dal pathos. Quello che ora ci appare come un tempo magico, composto di tinte e momenti mai più vissuti né veduti in seguito, la bella estate, è tale solo nella rappresentazione ingannevole del vecchio. Come aveva ben compreso Pavese, non è la fanciullezza l’età sognante bensì la vecchiaia. Il fanciullo è figlio prediletto della vita, non sogna, semplicemente abita un sogno, l’anziano è ormai soltanto un «viaggiatore incantato» e il suo viaggio, il suo navigare, si svolge il più delle volte, e sterilmente, a ritroso, verso le acque maternali. Nella nostra prima età infatti l’adesione alla vita è così intimamente fusa col nostro io infantile che tutto ciò che siamo e viviamo se ne vola via nell’istante in cui si consuma, non sappiamo comprendere quel tempo non ancora sedimentato, dunque paradossalmente vi siamo stati immersi ma non è mai stato nostro veramente. Questo perché ogni conoscenza è memoria: non conosciamo mai le cose la prima volta, solamente alla seconda. Solo con uno sguardo retroattivo ci è dato veder baluginare istanti sconnessi di realtà e conoscere dunque equivale a ricordare. Però, appunto, si tratta di una memoria (e dunque di una conoscenza) ingannevole, alterata dal fatto che chi conosce e chi è conosciuto sono sì la stessa persona ma nel tempo sono divenuti ontologicamente estranei.

Di quell’esperienza vissuta il segreto sfugge al ricordo cosciente poiché la sua immagine è stata «sviluppata nella camera oscura dell’attimo vissuto», come dice Benjamin, e di essa rimangono soltanto vecchi negativi di foto accumulati in un cassetto di cui non sappiamo recuperare la chiave. Ecco perché tentare di ritrovare quella strada smarrita che dovrebbe portarci a cogliere l’enigma dell’infanzia è come cercare «un rifugio che sta soltanto nel fondo di un sogno», come avverte Miccia in un verso di questa raccolta, e la sua inafferrabilità nasce anche dal fatto che l’infanzia è l’unico luogo dove il reale e il verosimile combaciano perfettamente, dove la concretezza sfuma nella fantasia e viceversa. È per questo che tale precoce età resta un territorio confinato nel mito, il posto dell’eterno ritorno e dell’eterna nostalgia.

E questo ottavo volume del vasto, metamorfico Ciclo dell’acqua (insolitamente arioso, rispetto agli altri, libro nel quale sembra correre una brezza morbida, di primavera) nel suo viaggio onirico verso la sorgente alla ricerca del suo segreto è denso di istantanee, di pellicole, accartocciate dagli anni e dalla materia leggera di cui sono composte, che paiono fissate nella camera oscura dei sogni, meglio, dei ricordi divenuti sogni. Miccia ha composto in quadri narrativi espressi in una sorta di recitativo corale, situazioni topiche emblematiche dell’universo infantile e della sua dimensione interiore, momenti che pur nella loro apparente oggettività paiono al lettore adulto davvero ritagliati in «the such stuff / As dreams are made on», come dice Prospero ne La Tempesta. Mantengono cioè, nonostante la loro vivacità descrittiva, una particolare vicinanza alla sorgente illimitata da cui emanano, possiedono una forma di trasparenza in grado di lasciar intravedere lo sfondo di antico sogno da cui provengono. E il lettore, scorrendo il testo, avverte frequenti trasalimenti, come se leggesse una fiaba mai letta, mai narrata eppure intimamente nota.

Vi è un’immagine emblematica nella lirica che chiude il libro precedente (Parte della sospensione) del Ciclo dell’acqua. È incentrata sulla rappresentazione di un bosco in penombra da cui fluisce, come dopo un lacerante spalancarsi di acque maternali, un ruscello che, biforcandosi, smarrisce «la memoria della sua sorgente». Soltanto conserverà nel suo sinuoso scorrere l’incerta traccia «di una gioia lasciata a monte». Gioia che consiste forse nella confusa percezione di quel punto oscuro e vuoto in cui riposano tutti gli esseri prima che la nascita li consegni all’arcano dell’esistenza e al gioco del divenire.

E in questo libro la marcia del diveniredescriveun movimento apparente, un’ampia traiettoria curva in cui tutto si ripresenta sempre al punto da cui si è mosso. L’acqua, infatti, da cui, secondo Talete, ogni realtà prende inizio e che è forma e matrice di ogni cosa, «trova sempre la strada / perduta per tornare», lascia la sorgente e ad essa fa ritorno, non perché conservi ricordo del tragitto, ma per il fatto che in realtà non l’ha mai lasciata(«la sorgente è la casa mai abbandonata»). Tutto l’itinerario seguito all’«onda d’urto dell’inizio» si è svolto lungo la medesima cornice e in una sorta di immemore coazione a ripetere: la scintilla dell’esistenza illumina per un istante uno scenario che non può ricevere alcuna spiegazione, né memoria, cioè possibilità di razionalizzazione.

E in questo eterno ricadere su se stessa e nell’ultimo slancio metamorfico delritornol’acqua, carica di germi vitali, si addensa e si raggruma in possibili «forme da ricombinare», che in queste liriche assumono densità di corpi infantili all’apparenza generati a partire dalla pelle che, serrati i propri pori, avverte l’improvviso e drammatico sussultare della vita. Su questa sterminata scena, leggi arcane paiono indirizzare ogni esistente ad occupare uno spazio deputato: «Capita di allargarci / creando un cerchio con le braccia, / un girotondo di sguardi abbassati […] noi bambini / chiediamo di capire quale sia / la nostra posizione / nel coro».

Sbocciata forse insieme alla prima alba del mondo, l’infanzia comincia in forma di girotondo con la sua magia, il suo mistero e la sua felicità fragile dalla buccia sottile. La curva raffigura la gratuita circolarità del tempo, che dunque s’avvolge su se stesso e pare non scorrere che nei propri meandri: «Preferiamo che le stagioni / siano soltanto una non nascano / e finiscano sempre per ripetersi / con la sterilità del gelo».

Nel ricordo dell’adulto i bambini sono sì immersi nel tempo, forse ne sono essi stessi la misura («se esiste il tempo siamo / noi») benché abbiano abitato un’età ormai scolorita e alterata dagli anni. Contemporaneamente dimorano fuori dal tempo quando esso è riconosciuto, è rievocato come temporalità immobile, fuori dalla storia. L’infanzia infatti pare vivere uno sconfinato presente atemporale, ignaro della vita intesa come trascolorare e appassire. Forse rappresenta il nostro sogno fallito di eternità, di immortalità. Nel romanzo di Carol, Alice chiede a Bianconiglio: «per quanto tempo è per sempre? A volte, solo un secondo» è la risposta.

I bimbi, come l’acqua, non lasciano traccia del loro fluire, non lasciano«orme / che soffocano la terra». Come elfi o gnomi silvani esplorano leggeri, saltellando qua e là e non sanno nemmeno loro da cosa nasca la gioia da cui sono invasi e cosa cerchino, poiché per sapere è necessario riflettere e loro non riflettono, perché ciò implicherebbe un indugio e la vita non conosce ristagno. Ignorano le leggi della gravità, inseguono il respiro atavico e profondo della vita. Anzi, essi sono la vita, la possiedono dall’interno, vi aderiscono in maniera così totale che non sono in grado di vederla, perché per vedere, occorre prendere distanza dalle cose, il che implica un regredire da una edenica perfezione ad uno stadio imperfetto.

Il loro primo incontro col mondo è assoluto ed empatico, poiché quella del fanciullo è forse la condizione ontologica di maggiore vicinanza alla verità che l’essere umano abbia mai potuto godere e forse i bambini possiedono una facoltà demiurgica, figlia del loro possente fantasticaree dellaTerra che li abita: «quale Dio ci è necessario / se ogni giorno inventiamo / un mondo». Tramite la parola, misticamente, la realtà prende vita allorché il bambinonomina le cose, non per dominarle, come è detto nel libro della Genesi, ma«per dare inizio al loro esistere».

È quel tempo sospeso e cristallino «in cui le nubi non sono cifre o sigle / ma le belle sorelle che si guardano viaggiare», quando «il nostro mondo aveva un centro», come scrive Montale cantando la fine dell’infanzia. Come non conoscono il tempo, che pure li contiene senza all’apparenza infierire su di loro, così i bambini non conoscono la morte. A volte la osservano nelle cose, negli animali, tuttavia non la riconoscono come tale ma come vita riproposta sotto altra forma, trasfigurata(«vita che / riprende vigore da un’altra parte»), come uno dei volti con cui la onnipresente esistenza si mostra. E come non esiste la morte, così non ha significato la nascita, di cui non vi è coscienza: ai bambini pare di essere «senza / una nascita che ci avrebbe / collocati nel tempo»: nascita e morte coincidono nella danza lenta e sempre uguale dell’essere:«Non possiamo morire / forse non siamo ancora nati».

È solo nell’età adulta che si afferma l’idea del morire come scandalo, come altro dalla vita. Nel mondo infantile stati estremi come sonno e morte possono intrecciarsi e confondersi, addirittura scambiarsi di ruolo, di segno, in una sorta di gioco tragico e ineluttabile. Così è pure in un enigmatico frammento di Eraclito: «È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi.», oppure nella lirica di Rimbaud Le dormeur du val, in cui il soldato – fanciullo dorme il suo sonno greve in una culla fiorita accarezzato dalla Natura madre. In una progressione semantica il poeta ci informa che questo suo dormire non ha ritorno. Forse la morte, il sonno e il tempo sono fatti della stessa sostanza. E forse davvero vita e morte si tengono per mano e si scambiano doni visto che insieme col nostro affacciarci al mondo accogliamo anche il nostro lasciarlo.

Si diceva di un libro insolitamente lieve e arioso, blandito dall’aura di quel tempo senza tempo. Sì, ma insieme il libro più toccato dal destino dell’intero Ciclo, perché contiene pure la narrazione struggente del procedere lento di una forma verso il suo imbrunire, del cadere e corrompersi delle cose e della ingannevole brevità della fanciullezza, anche se mai espresso in tonalità apertamente drammatica. Utilizzando la metafora dell’acqua, Hölderlin, nel bellissimo Schicksalslied (Canto del destino), già aveva narrato la differente sorte degli dèi e degli umani. I primi, «liberi dal Fato»,animati da uno spirito perenne; instabili, destinati a svanire nell’abisso del tempo come «acqua di scoglio / in scoglio gettata» i secondi.

Quando la scorza si rompe e la corolla in cui è custodita l’infanzia avvizzisce, la perfezione del girotondo si scompone, il bimbo cessa di essere bimbo e quel tempo remoto in cui forse eravamo dèi si dissolve per sempre. Di nuovo Montale: «Giungeva anche per noi l’ora che indaga. / La fanciullezza era morta in un giro a tondo». Al pari del ricadere fisico dell’acqua, si compie il precipitare del fanciullo verso l’età adulta con le sue regole incomprensibili e i suoi divieti forzatamente imposti: «Pende sui nostri capi un cielo che / non possiamo cambiare».

In questo che potremmo anche leggere come una sorta di involontario trattato in versi di pedagogia capovolta, una specie di roussoiano Emilio del Duemila con cui mettere in guardia dagli errori che la società può commettere nei confronti della paideia dei bambini, si delinea un’insanabile antinomia tra natura e cultura, già tratteggiata nel testo biblico sulla creazione del mondo.

E ai bambini che, al pari del piccolo Oskar de Il tamburo di latta, respingono la necessità del mutamento anche a costo di un radicale e vano conflitto col mondo dei grandi («siamo orfani di entrambi finalmente / possiamo smettere di crescere»), i frutti dell’albero della conoscenza paiono indigesti: «fino a quando ci chiameranno in classe, / che bisogno c’è di studiare», come se l’albero non fosse altro che la cifra del serpente, prodromo all’addio fatale «alla terra che molle / vuole trattenerci con la promessa / di non tradirla mai.» Che necessità c’è di acquisire, con la visione critica e problematica che si instaurerà nell’età matura, l’amara certezza, insinuata «per invidia», della sterilità della fantasia e dell’ineluttabilità della morte? I bambini non conoscono risposta, forse al pari degli adulti.

Solo l’acqua «riprende il nome che aveva tradito quando è partita», tornando a se stessa nel suo perpetuo cadere e risalire; ciò che invece era nato per mutare, muta, secondo il proprio nome e il proprio destino.

Alcuni brani:

Fabrizio Azzali

                                                                                                                             

L’acqua si lascia andare

si mostra per quello che è

senza essere incitata, non

ha nulla da spiegare

quando torna apre varchi con

fughe in avanti e indietro

un prima o un dopo rispetto a che cosa,

sensi moltiplicati

per vertigini si confondono

rispondono solo a se stessi.

Nello slancio estremo si tende

la pelle si serrano i pori

tentiamo di consolidare

le falle siamo impermeabili

anche all’acqua, con lei scopriamo

che la nostra presenza

viene evocata da un’immagine

che portiamo sempre con noi,

se un inizio è stato acceso

ne risentiamo ancora l’onda d’urto

che ha abbandonato per strada

cocci di forme da ricombinare.

**

Il rischio è la nostra arma

migliore per non scomparire

ogni momento aneliamo alla luce

del mezzogiorno spogliata dell’ombra,

gli stagni si confanno

alle nostre incursioni,

le famiglie delle rane hanno

la loro acqua da spendere

noi invece possediamo

le sponde, con bastoni

interferiamo sulle

loro traiettorie così

le induciamo a comportarsi oltre

il loro retaggio, chi ci imporrà

un percorso diverso.

**

Qualcuno prima o poi

approderà alla sponda

sarà la bambina con il vestito

da sposa l’uomo che

vende i ceci, aspettiamo

bivaccando coi nostri fuochi sparsi

forse si desteranno

le fiamme dal torpore

di guardia, basta che non sia

un orco a spegnerci la luce.

**

Non è ancora sottomessa la parte

rettile del nostro cervello

siamo padroni di ogni nome

finché qualcuno inizierà a rubarceli,

li estraiamo da un mazzo

di carte, scegliamo quello che per

folgorazione ci sembra più giusto

e che non fa male, ora

soltanto noi possiamo entrare

negli interstizi degli oggetti,

decidere quale di questi avrà

il potere di decifrarci

nominiamo le cose per salvarle.

**

La pioggia tracima dalla grondaia

già lavora per dare

un senso all’autunno,

ci disponiamo a bocca aperta

sotto l’acqua stillante,

il cielo fluisce sbilenco

sulle teste pronto a cadere

gravido ai nostri piedi,

la ruggine è una riserva

di ferro per le nostre

armature future.

**

Quando le bruciamo con i fiammiferi

le formiche si arrotolano su

se stesse si mettono a scoppiettare,

spruzzandole d’acqua crediamo

di rivitalizzarle

con uno schiocco delle dita, tutto

ci sembra elastico va avanti

e indietro senza confini, anche

nella morte si può

ritornare alla vita,

non siamo crudeli eseguiamo solo

le prove di quello che siamo.

**

L’acqua spoglia le cose

dai nomi le svuota perché

riprendano fiato, stipulino

un’intesa di sangue con la carne

allo stadio alveare, ha nostalgia

di sé trova sempre la strada

perduta per tornare

indietro senza smettere

nulla della sua sostanza, si lascia

alle spalle un percorso d’incertezze

revisioni dell’alveo, la sorgente

ne è la casa mai abbandonata

riprende il nome che

aveva tradito quando è partita.

GRAZIA CALANNA, NEL SITO L’ESTROVERSO, INTERVISTA CARLA SARACINO IN MERITO AL SUO ULTIMO LIBRO “QUEST’ORA DELL’ESTATE”. COLLANA “I CODICI DEL ‘900”, DIRETTA DA GIAN FRANCO FABBRI.

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Quest’ora dell’estate” di Carla Saracino, «tempo miracolosamente illeso dentro l’altro tempo». 

INTERVISTE

Grazia Calanna

Marzo 28, 2023

«Pacifica, stordita dalla fedeltà,/ suo era il piacere di lenire/ la stoffa dell’iride, il fazzoletto sull’occhio./ Dal vento alla porta ogni giorno più finita». Versi di Carla Saracino scelti per introdurre la lettura del libro “Quest’ora dell’estate”, edito da “L’arcolaio”, nella collana “I codici del ‘900”, diretta da Gian Franco Fabbri. Sulle pagine vibrano stagioni d’eternità, come “l’ora del parto di una nuova chiarezza”, sovviene Rilke, come «sostanza d’aria», un periplo che abbraccia il mondo terreno spazio-temporale e quello dell’immaterialità, come la luminosa «malinconia del sud». Con la riconoscibilità di una scrittura d’elegante esattezza, esperienziale, la Saracino concepisce immagini che riflettono «l’incipiente tempo/ miracolosamente illeso dentro l’altro tempo».                                                                                 

Qual è stata (dalle tue parole) la scintilla che ha portato il tuoQuest’ora dell’estate”?

Si è trattato di un fuoco lento, acceso da una fiamma la cui origine non saprei puntualizzare nel tempo. Quest’opera si è fatta a piccoli passi, è venuta a galla come un corpo ingombrante che era sprofondato e che è risalito piano, da un fondo impaziente di alleggerirsi. Non so se sia occorso un guizzo di maggiore attenzione per elevarla a raccolta poetica. So che è valsa il tempo di una risalita dal profondo di me stessa e che le parole sono state una conseguenza naturale.

 In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Vivendo me stessa, quanto più fedelmente è possibile. Soprattutto la me del quotidiano, la me della difficile, banale e conforme realtà. Detto così, potrebbe risuonare come cosa ovvia, ma il linguaggio si muove all’unisono con l’esistenza stessa che ci attraversa. Non ci sono scarti né tradimenti in questa corrispondenza. Il linguaggio è fatto di eventi ed emanazioni: allo stesso modo la vita, all’atto del suo manifestarsi, si compone di un sostrato di espressioni che giungono a compimento. Se si vive rispettando la propria natura, immergendosi pure negli aspetti più prevedibili o elementari dello stare al mondo, anche il linguaggio si fa chiaro, diventando assiduo compagno di viaggio, in qualsiasi forma artistica o affare umano lo si voglia leggere.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

La poesia, come tutte le cose eccezionali e le creature dotate di grazia e visionarietà, abita le soglie, le piccole tracce ai confini, i passaggi schivi. Se per invalicabile intendiamo l’azzardo sul non detto, la parola agognata, il sogno cercato, il desiderio perpetuato, la poesia con le sue immagini rivelatorie certamente agisce: presso il suo varco, valicabile e invalicabile possono convivere, persino unirsi. C’è però un altro tipo di invalicabile. È quella zona informe in cui vanno a finire le povertà dell’immaginario quotidiano, le limitazioni o le imposizioni sociali a cui siamo chiamati senza sensate giustificazioni, le milioni di offese alla vita battute al ritmo di cinismi imperanti e un po’ vili: anche in questo caso la poesia diventa strumento che trasforma e affranca; realizzandosi in lingua, si autolegittima a esistere: non vuole insegnare niente a nessuno, eppure c’è ed è lì a disposizione per chi sa leggerla.

La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può colmare l’irredimibile?

Credo di no, soprattutto perché la solitudine del poeta è la solitudine di ogni uomo. Il poeta, forse, sente più consapevolmente di doverla affrontare o farsene distruggere, a seconda della sua disposizione; a volte decide di farci i conti, sobbarcandosi anche quelle altrui. Esistono infinite maglie di solitudini dentro l’unica parola che le racchiude. Certamente la poesia può lenire. È una forma non richiesta di conforto, pertanto è concreta, a tratti salvifica. Aiuta a tollerare l’inevitabile disfatta del tempo, la precarietà di ogni bene, la casualità degli eventi della vita. Leggerla, scriverla, aiuta a misurarsi col tempo, a non andargli troppo contro, se possibile.

E, ancora, con uno dei tuoi versi, «L’infelice vita di un passo verso l’alto», ti chiedo: le parole bastano alla poesia?

Non bastano. Occorre che la poesia faccia un passo verso un altrove ulteriore, sempre. Cosa sia questo “altrove” lo sa chi sente e soppesa la lealtà del suo scrivere versi. Senza una spinta alla fuga non c’è alterità: non c’è andata, non c’è ritorno. In poche parole, non c’è il viaggio terrestre.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?

Moltissimo. La forma di una poesia è già la sua verità. Vi aderisce talmente tanto da esserne parte. Se c’è stata lealtà nel sentire, la forma lo dice. Se c’è stata finzione, smaschera. In questo senso, è fedele e trasparente. Una sorta di vetro finissimo, eppure fondamentale, in mezzo al quale si iscrivono i movimenti del sentire. Così è il suono, o meglio l’anteprima del suono, quel che anticipa la visione che genererà le parole. Tutti noi siamo prima o poi toccati da una combinazione di anni felici, nella vita: che siano una manciata o no, che avvengano nell’infanzia o nel corso della maturità, poco vale. Importa che quella esatta combinazione per qualche misterioso meccanismo funzioni. È in quello stato di beata coincidenza di ogni cosa che giunge il suono, il suono interiore. L’arca del nostro corpo lo incamera, siamo vivi. La scrittura poetica ne diventa conseguente e naturale testimone.

Immagina di dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Non ho strade certe da indicare. La poesia è un avvenimento così intimamente legato al destino personale da differenziarsi nelle mete, negli stili e nei periodi storici. Se posso azzardare, sosterrei semplicemente la vocazione ad essere se stessi, a riflettersi nella vita aderendo alla propria storia e alle proprie predilezioni, senza escludere chi può aiutarci a diventare migliori. Ecco, forse incentiverei l’abbandono al piacere dell’ammirazione, o del mirare verso chi merita il nostro sguardo meravigliato. Chi ammira è sempre in cammino verso l’avvenire. Come l’immagine poetica che – per dirla con Gaston Bachelard – “nella sua novità, apre un avvenire al linguaggio”.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una poesia dal tuo libro “Quest’ora dell’estate” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Anche io ho amato la vita,

senza ipotesi di scambio.

Sono stata nelle spiagge dell’adolescenza

e ho temuto per gli altri, prima che per me.

Ho seguito chi poteva restare, e sono rimasta.

Ho cenato nelle contrade più belle,

con i commensali migliori.

Avevano ragione di starmi accanto: per le loro ombre.

Le vedo oggi, allineate, nella luce della casa. Irrompono

alla vista, scadono nel perdono, irradiano i primi anniversari.

Ci sono stati dei periodi, nel decennio dei miei vent’anni, in cui uscivo quasi ogni sera, finivo in posti improbabili, vecchie contrade di paese o posti del sud d’Italia zeppi di meraviglie, in giro o a cena con varie persone, amici cari e conoscenti. Ho respirato la convivialità semplice degli istanti: il mio adolescere è stato questo scavo nelle archeologie delle biografie degli altri. La poesia che ho scelto è la sintesi di quelle esperienze. Le sono molto affezionata perché esprime anche il mio spavento verso lo scorrere del tempo, che talvolta esorcizzo anticipando il sentimento della nostalgia. Rivedendomi nel passato, nel passato prossimo al ricordo, argino la paura del deperimento delle persone care e dei luoghi. Questa poesia è come una vecchia cartolina spedita dal futuro di una me stessa che si concede a una posa di infantile vanità. Un certo tipo di vanità mi piace, fin da quando ero una bambina. Al contrario di quanto si pensi, permette di prendersi poco sul serio e di abbandonarsi; induce alla resa, è una forza che cavalca contraria al possesso: disperde. In ultimo, il testo celebra le mie amicizie. Ne ho avute di straordinarie: con persone epiche, fiabesche, non comuni. In questo senso sono e resto antica, anticamente credo al tesoro del sodalizio con gli altri.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 26.02.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

LA COLLANA “IL LABORATORIO” ESCE QUEST’OGGI RINNOVATA NELLA LIVREA E NELLE DIMENSIONI. ESORDISCE IN QUESTO NUMERO “BREVE COMPENDIO DI SCENOGRAFIA E PRESTIDIGITAZIONE” DEL GENOVESE MASSIMO PALAZZI.

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L’arcolaio accoglie festosamente il poeta Massimo Palazzi con il suo “Breve compendio di scenografia e prestidigitazione“. Egli esordisce nella collana “riverniciata” del Il laboratorio, lo spazio editoriale curato da Luciano Neri. Il progetto grafico è opera di Michele Zaffarano.

Sentiamo dalle parole del direttore di collana la tematica e lo stile di questa scrittura. Una prosa poesia che tenta nuove formule sulla ricerca letterario.

La parola, adesso, a Luciano Neri:

Con Breve compendio di scenografia e prestidigitazione di Massimo Palazzi, autore genovese, la collana Il Laboratorio diretta da Luciano Neri inaugura una nuova serie di pubblicazioni che guarda alle scritture di ricerca contemporanee e riprende il proprio progetto editoriale rinnovandondosi nella veste grafica (a cura di Michele Zaffarano).

Il testo di Massimo Palazzi, in linea con le aspettative testuali e creative della collana sfugge fin da subito a una definizione di genere, risultando un testo stratificato, pur nella limpidezza della prosa che lo caratterizza. Non si tratta né di un romanzo né di una raccolta di racconti, pur non essendo un saggio a tratti riesce ad assumere un registro saggistico; non si tratta neppure di un resoconto di viaggio né di un libro d’arte monografico, di certo strizza l’occhio alla letteratura ecfrastica. La descrizione è, a un primo colpo d’occhio, la sua caratteristica peculiare, o almeno sembrerebbe. Di certo il Breve compendio sfugge a un certo enciclopedismo, che qui viene contraddetto rispetto alla sua brevità, attingendo invece a un’enciclopedia delle culture orientali, a ipotesti “sapienziali” da cui scaturiscono quelle linee che l’autore intende percorrere mescolandole alle tante immagini che appaiono ad ogni pagina. Di certo il libro è uno spazio di luoghi, di una specie non definibile, dove fotografia e memoria si compenetrano, dove impressioni e figure si avvicendano. Oppure, il testo, sembra dirci Palazzi, altro non è che un modo per divulgare un mondo illusorio contemporaneamente alla sua parte in ombra, per uno sguardo che, aggiungendo pezzo dopo pezzo, si voglia prestare, come in un gioco di prestigio, alla costruzione scenografica che lo va sorreggendo, per il tramite di una scrittura raffinata e mai leziosa.

testi:

Buio


C’era una volta un tempo
in cui il prodigio dell’immagine non poteva avverarsi
se non in condizioni di completa oscurità,
quasi che la visione necessitasse di essere negata,
dando luogo a un rapporto di paradossale coesistenza
che la separazione tra il giorno e la notte,
nella chiarezza della sua distinzione, proprio non
può spiegare.
L’ambiente preposto a quegli
accadimenti era il luogo dove il buio assoluto si
manifestava nella sua entità apparentemente gigantesca,
dotata di una concretezza possente come la
muscolatura di un toro. Al suo interno, l’oscurità
veniva percepita con una sensazione quasi claustrofobica,
ma al tempo stesso sembrava capace di
espandere i confini dello spazio fino a un’enormità
insondabile. Non appena spenta la luce, il buio,
materia proteiforme e gioia dei timidi, allagava
l’ambiente e, irrispettoso di qualsiasi muro, pavimento
o soffitto che ne limitasse la dimensione,
arrivava subito dappertutto, spingendosi ben oltre i
confini della stanza che ne era piena.
Impossibile da quantificare
in termini di coordinate cartesiane, l’oscurità ha
il peso dello spazio vuoto, un peso imponderabile
nonostante il carico di tentazioni suggerite dall’azione
nascosta e dall’occasione del facile sotterfugio
che tanto spontaneamente si legano a esso. Per
quanto possa sembrare incredibile, nella maggioranza
dei casi tanta enormità finiva per esser contenuta
in stanzini angusti, sottoscala obliqui, ripostigli
e seminterrati, costretta in bagnetti e lavatoi
e in ogni altro locale di servizio appositamente
parato per far sì che l’assenza di luce si materializzasse
in tutta la sua grandezza, non solo la notte,
ma anche nel pieno splendore del giorno. Nonostante
l’ampia casistica delle possibilità, quegli
ambienti erano tutti angoli in cui era bello rifugiarsi
o nascondersi, come quando, per giocare,
i bambini si rintanano sotto i tavoli o sotto il
peso delle coperte del letto e inventano capanne
e castelli per il gusto di entrare e uscire da quelle
loro proprietà, forse rievocando inconsciamente
una sensazione di sicurezza prenatale.
Curioso era anche il modo
in cui l’esigenza di ottenere la totale oscurità determinava
l’aspetto di quelle stanze che oggi, agli
occhi di chi non fosse al corrente della loro funzione
rispetto allo sviluppo delle pellicole e alla
stampa di fotografie, potrebbero apparire costruzioni
bizzarre e perfino un po’ inquietanti. Erano
soprattutto la porta e le eventuali finestre, sigillate
perfettamente, a evidenziare l’ingegnosa casistica
della fabbricazione artigianale del buio. Frequente
era l’uso di pannelli di cartoncino, polistirolo o
compensato leggero, che venivano usati per coprire
le fonti di luce senza indugiare nell’estetica del
risultato. Chiodi e strisce di nastro adesivo erano
lasciati in piena evidenza e resi ancora più visibili
sulle pareti chiare della stanza dall’uso prevalentemente
del nero, il colore caro all’oscurità che sembra
volerla invocare omaggiandola.
Guardare oggi i densi strati
di pittura opaca, i fogli di plastica nera e i pesanti
tendaggi di una vecchia camera oscura suscita
fantasie che contemplano la relazione tra simili
paramenti e l’apparizione delle immagini. Viene
da pensare ai drappeggi che accompagnavano la
mostra dei quadri nelle esposizioni Ottocentesche,
ai baldacchini sotto ai quali negli stessi anni
sedeva, tra velluti e broccati, la carismatica figura
di chi si faceva tramite degli spiriti dei defunti e,
ancora, all’arredamento delle sale teatrali e cinematografiche.
Attraverso la fenomenologia degli
apparati scenografici che sono stati costruiti come
premessa e corollario all’apparizione di immagini
statiche e in movimento si potrebbe scrivere una
storia del buio come condizione necessaria al manifestarsi
della visione. Lasciandosi trasportare dalla
suggestione di tutto questo nero, affiorerebbero alla
mente altre camere molto più oscure, sotterranee,
senza finestre. Camere in cui si viene introdotti
aprendo una robusta portiera, borchiata come la
pelle di una sella e pesante sui cardini, camere che
hanno pareti di controllata morbidezza, completamente
foderate di gomma nera imbottita. Alcune
sono state costruite per il diletto di chi le frequenta
altre, purtroppo, no. Ecco una cella di contenzione
per i prigionieri della Stasi a Berlino, luogo dove
l’esercizio del potere si espleta nel provocare rivelazioni
improvvise e confessioni inaspettate di colpe
neanche vagamente immaginabili altrove.
Teatro, niente altro che
teatro. A proposito di costruzione dell’oscurità e
apparizioni, viene da pensare che l’affermarsi dello
spazio nero che tanta fortuna avrebbe avuto sul
palcoscenico contemporaneo, luogo delle apparizioni
per eccellenza, possa risalire all’epoca nella
quale un trucco noto come “Black Art” si affacciò
sulle scene degli Stati Uniti. La preparazione dello
spettacolo prevedeva che l’intera cavità del palco
fosse foderata di velluto nero e che l’assito fosse
coperto di feltro in modo che alla totale assenza
di elementi visibili corrispondesse una altrettanto
totale assenza di rumore. La regolare illuminazione
del palco veniva sostituita da una serie di lampade
a gas, disposte lungo il limite del pavimento e i due
stipiti del boccascena per abbagliare leggermente
il pubblico e rendere il retrostante spazio ancora
più nero. Il prestigiatore, in abiti chiari, stupiva gli
spettatori facendo apparire e scomparire dal nulla
tavolini e grandi vasi, all’interno dei quali, come
alcuni ritengono che le anime dei defunti si reincarnino
in animali e corpi diversi, trasmigravano
arance e altri oggetti prestati dal pubblico. Solitamente
il numero terminava con l’apparizione di
uno scheletro danzante le cui membra si scomponevano
muovendosi liberamente sul palco, infondendo
stimolanti brividi di terrore nella platea per
poi ricomporsi e scomparire definitivamente con la
stessa velocità con cui era comparso. Il trucco c’era
e come ogni buon trucco era facilmente spiegato:
invisibili al pubblico, ma sotto gli occhi di tutti fin
dall’inizio dello spettacolo, gli assistenti del prestigiatore
erano responsabili delle apparizioni e delle
sparizioni. Completamente vestiti di nero, provvisti
di guanti e un cappuccio di velluto che consentiva
la loro totale scomparsa, coprivano e scoprivano
gli oggetti con panni neri e li trasportavano
da un punto all’altro del palcoscenico, muovendosi
agili e silenziosi come gatti nudi nella notte.
Negli stessi anni in cui si
diffusero simili spettacoli notturni, le prime indagini
cronofotografiche avevano affrontato la difficoltà
di ottenere in pieno giorno uno sfondo
perfettamente buio su cui scomporre in singole
posizioni il movimento di un determinato soggetto
scelto per lo studio. Per evitare che imprevisti
riflessi di luce generassero involontarie esposizioni
della lastra sensibile e fastidiosi offuscamenti
sulla figura ripresa, lo sfondo doveva essere privo
di superfici riflettenti, impresa non facile dato che
perfino una parete dipinta di nero o coperta di velluto
sarebbe risultata inadatta se usata in piena luce
diurna come era necessario che fosse. Anche in
questo caso, come sul palco, la soluzione fu lo spazio
di una cavità, la costruzione di un contenitore
dove imprigionare il buio e tenerlo al riparo da
ogni fonte luminosa. Fu così che il bisogno di ottenere
la totale assenza di luce determinò la trasformazione
della superficie del fondale in uno spazio
tridimensionale che aveva l’ingombro di un fabbricato
di circa dieci metri per dieci, completamente
oscurato con velluto nero e catrame sul pavimento
e aperto in corrispondenza della parete che doveva
fare da sfondo. Tale era la misura del buio, il trucco
di un’illusione simile a quella della “Black Art”,
non più rivolta a stupire agli occhi del pubblico
spalancati nel silenzio della sala, ma architettata
per ottenere una corretta impressione della luce
sulla lastra fotografica attraverso l’occhio di vetro
dell’obiettivo.
Il prodigio che si verificava
nella camera oscura, madre di tutte le immagini,
apparentemente non contemplava trucchi o
inganni. Tutte quelle che oggi potrebbero sembrare
costruzioni scenotecniche erano in realtà interventi
mirati a vincere un’unica grande sfida che rientrava
nell’oggettività delle leggi fisiche di propagazione
della luce. La sfida era quella di evitare ogni
minima infiltrazione luminosa proveniente dall’esterno
pur garantendo un’adeguata ventilazione
dell’ambiente e una limitata circolazione di polvere
nell’aria. All’interno della camera oscura, non
appena trascorsi i pochi minuti necessari all’occhio
per adattarsi all’oscurità, un buio falso si sarebbe
rivelato con l’evidenza della presunta aurea psichica
visualizzata dalla fotografia Kirlian: a poco a poco
il tracciato luminoso di un mondo insospettato di
fessure e spiragli avrebbe disegnato i contorni della
stanza e di fatto compromesso il paziente lavoro
svolto dall’operatore nell’intimità di quel suo rifugio
segreto. Tuttavia, chiunque si sia trovato ad
allestire una camera oscura, anche solo per provare
a sviluppare e stampare le proprie foto delle
vacanze al mare trasformando i gioiosi colori delle
giornate estive in un malinconico bianco e nero, sa
che in realtà anche in questo luogo, proprio come
sul palcoscenico, un piccolo gioco di prestigio era
concesso. La costruzione delle cosiddette trappole
di luce che, in una grande varietà di soluzioni,
coniugavano l’esigenza di lasciar passare l’aria con
quella di bloccare la luce proveniente dall’esterno
della stanza, necessitava infatti tutto l’ingegno di
un trucco sofisticato. Il segreto era spezzare la propagazione
rettilinea dei raggi luminosi convogliandoli
nei meandri di un labirinto, piccolo o grande
che fosse, le cui superfici interne venivano dipinte
di nero opaco per prevenire gli effetti della riflessione
della luce sulle superfici. Talvolta, c’era anche
un filtro, posizionato all’ingresso della trappola,
per limitare la quantità di pulviscolo presente nella
stanza. Nelle camere oscure più esoteriche e professionali,
l’ingresso era del tutto privo di porta,
sostituita da una di queste trappole in versione
gigante.
Oggi conosciamo il mondo
principalmente attraverso le immagini fotografiche.
Dai tempi dell’invenzione della camera oscura
queste prove dell’esistenza delle cose si sono moltiplicate
a dismisura diventando tanto pervasive
da inseguirci ovunque noi siamo e restituirci l’esperienza
del mondo con tanta apparente fedeltà
da sostituirsi a essa e rendere sempre meno rilevante
la distinzione tra realtà e illusione. La questione
della differenza della verità dal simulacro si
è evoluta al punto da ridursi a una sterile e cap-
ziosa speculazione, invero inutile e obsoleta. Come
la caverna di Platone per l’ontologia e la gnoseologia
del pensiero occidentale, la camera oscura, di
cui probabilmente molto presto non resterà memoria,
è l’inconscio arcaico dell’immagine fotografica.
Rispetto alla luce, questa gioca lo stesso ruolo che,
nella seduta spiritica, la rappresentazione teatrale
assume rispetto all’invisibile.

Massimo Palazzi è nato a Genova nel 1969. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, Herbarium Vietnamensis (979-12-200-3857-7), autoprodotto e stampato in 100 copie tramite una fortunata campagna di crowdfounding.

PRESENTIAMO LA RECENSIONE DI FEDERICO MIGLIORATI AL LIBRO DI CARLOTTA CICCI, “SUL BANCO DEI PESCI”, PRECEDENTEMENTE PUBBLICATO SU “SPAZIO LIBRI”. COLLANA “I CODICI DEL ‘900”, PREFAZIONE DI ALBERTO BERTONI.

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Presentato in precedenza sul blog Spazio libri. Prefazione di Alberto Bertoni.

L’AMORE COME LUNGO RIPOSO: ECCO “SUL BANCO DEI PESCI”,

ESORDIO POETICO DI CARLOTTA CICCI

di Federico Migliorati

La poesia fluida e frastagliata al tempo stesso della romano-bolognese Carlotta Cicci si inserisce in questo nostro tempo come un originale richiamo al verseggiare profondo e costante, che nulla riserva a una facile lettura. Ideatrice insieme al marito Stefano Massari, pure lui poeta, di quella fantasiosa e originale creazione culturale di Zona Disforme che sulla scena italiana si sta facendo apprezzare per il multiforme lavoro artistico a quattro mani, Cicci ha dato alle stampe per la feconda casa editrice forlivese “L’arcolaio” di Gianfranco Fabbri “Sul banco dei pesci” (121 pagine, 14 euro), sua opera prima nel mondo della poesia, suddivisa in quattro stanze e con l’insigne e approfondita recensione di Alberto Bertoni. L’atmosfera che subito assorbe il lettore è quella dei territori dell’interiorità in cui è facile assaporare un’acribia di fondo per la parola, maneggiata con cura, necessaria per un dire sempre fondamentale, per parlare di un assoluto (“sono giovane/sono tutte le età”) che porta a perdersi per poi ritrovarsi. Se i social sono ormai diventati cassa di risonanza, effimera e spesso mefitica, di un verso volubile e vuoto, la poetessa mantiene la barra dritta e manifesta con sincerità come “in questo tempo consueto/nessuna notizia nuova/solo morfina/a buon mercato”, ficcante e incisivo passo che non può che stimolare la riflessione tenendo ben presente che “non abbiamo più tempo/per il perdono”. L’Io che parla è spesso ferito, lacerato da contrasti e contraddizioni, è una presenza-assenza (“sono latitante”) che chiede “risposte umane”, che resta “immobile a guardare” e rifugge dalla semplicità del tutto in un vortice che sembra interrogare ciascuno di noi. La verità e la menzogna, l’onore e l’infamia, la dolcezza e la crudeltà, l’immanente e il trascendente, il superfluo e l’essenziale, il caos e l’ordine, la fedeltà e il tradimento, la debolezza umana e la forza: la parola si fa voce, canto, preghiera, lamento con Cicci, senza mai abbandonare i territori di una poesia contemporanea e antica al tempo stesso e per la quale condividiamo l’opinione di Bertoni che vi accosta, senza instaurare delicati paragoni, l’esordio di Milo De Angelis a metà anni Settanta. Si assiste a una sorta di invito al lettore a prendere parte alla scommessa del viaggio, tra accelerazioni e contaminazioni, magmatico andirivieni e temerario abbandonarsi all’altro, ma anche alla conoscenza di sé e dell’oltre che ci circonda: nei versi brevi e concisi, spesso formati da una sola parola, è sigillato un “pensiero anemico” che spicca in qualità e significato. “Sul banco dei pesci” nasce da un caleidoscopio di visioni, sensazioni, ambientazioni reali e immaginarie, è figlio di una poesia “randagia” che ha cura della parola e del suo obiettivo precipuo. Nulla, in questa silloge, induce all’ozio, all’inerzia bensì richiama condivisione, partecipazione, empatia: c’è una forza centripeta e centrifuga che fa dire all’autrice come l’amore sia “un lungo riposo/nel mezzo di un incendio”, un contrasto, forse un’aporia, alla ricerca di “indizi di luce”.

FEDERICO MIGLIORATI

SALUTIAMO CON PIACERE IL POETA SCRITTORE DANIELE GORRET, CHE ENTRA IN CATALOGO ARCOLAIO CON L’ULTIMA SUA OPERA IN VERSI: “RACCOLTA DEGLI ELOGI”. COLLANA I CODICI DEL ‘900.

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Accogliamo quest’oggi nel nostro catalogo lo scrittore-poeta Daniele Gorret, autore di numerose pubblicazioni (vedi bio-biblio, in fondo all’articolo). La raccolta che ci presenta si intitola “Raccolta degli elogi“, le cui motivazioni sono ottimamente esplicate dall’autore spesso, nella “Premessa prosaica. Lode all’elogio”. L’autore è nato ad Aosta, si è laureato all’università di Torino. E’ autore di diverse raccolte di versi e di alcuni romanzi. E’ anche saggista: notevoli sono i due lavori dedicati a Vittorio Alfieri.

Ma leggiamo con attenzione e con piacere la sua personale introduzione.

Promessa prosaica. Lode dell’elogio.

Pensare l’elogio d’un qualcosa (un altro da sé, uno di fronte) vuol dire volerlo carezzare e, volendolo fare, farsene carezza.

Per questo, fare l’elogio è sconfinare: dal dentro di sé, un poco fuori; dai soliti giudizi calcolati, andare più in là, un po’ più arditi, e – anche – dentro se stessi, un poco innamorati.

A Gilead c’è il balsamo famoso?  Il Libro assicura che c’è ancora ed è ambìto da noi, i disperati. Prenderne un poco e poi portarlo a casa, e stando in casa spargerlo o donarlo: azione più fraterna non si dà. Elogiando, diamo il balsamo e lo siamo: elogiante ed elogiato fanno uno, e profumo si spande, ovunque siamo.

E manna nel deserto cade ancora?  Alcuni, avventurosi, hanno viaggiato, e, a sentirli, giurano di sì.

Manna e balsamo famoso: due forti alimenti per l’elogio! Possiamo partire alla ricerca: per maremorti e per deserti, sostenuti da ciò che da sempre sostiene il viaggiatore: il bisogno di credere più in là.

Pure, formulare un elogio vuole dire: stare in colloquio col silente, udire ciò che il messo a tacere o lo scordato avrebbero, dentro di sé, da far sapere…E insieme vuol dire dare la parola, fargli – da lontano – comprendere “Ti ammiro”. Avere per l’elogiato – se presente – infinito bisogno d’affezione, e – se invece per tempo o per spazi ci è lontano – forti fiammate d’antica nostalgia. Vuol dire rovesciare maggioranze, detti sicuri, larghe convinzioni; non temer di stare con i pochi, gli umili sulla terra, i sempresoli. Anche vuol dire: amare il rifiutato, il pensato immondizia, colui che per i più non vale niente.

Per questo, a chi voglia farsi elogiatore si chiede coraggio e libertà totale. Prima di farlo, prima d’iniziare, consigliamo a chiunque d’essere informato: come nelle confezioni dei medicamenti, leggere le precauzioni è necessario: “Sconsigliato ai convinti che i più numerosi hanno ragione, che legge d’uomo è legge di creato, che progresso sia vero universale… A tutti costoro i nostri elogi potrebbero causare irritazioni, perdita di controllo, svenimenti. Che pertanto si tengano lontani dalla raccolta che qui noi proponiamo”.

L’elogio di qualcosa prevede che si diventi un po’ la cosa. Quindi, c’è anche la carezza a se stesso in quel qualcosa. Come alla fine dell’opera Bohème, io sono un po’ Mimì che canta del suo amore e del suo amore in quel suo letto muore, io spettatore avverto un male acuto al petto, per Rodolfo sento immenso inappagato amore, spalanco gli occhi stesa sul mio letto, li richiudo per sempre, ammutolisco e muoio…

ALCUNI TESTI

La fatica del fiore

Osservo penso esalto la fatica

fatta dal seme di fiore per spuntare.

Seme è nel vaso; io gli sono in piedi

qui sul terrazzo in cieca primavera.

Pur avendone forte desiderio

(desiderio di viscere e cervello),

so che non posso dargli aiuto alcuno:

umano non può costringere la vita

a farsi vita, fuori dalla terra.

Quello che posso è porgergli dell’acqua

e gliela porgo: dal mio bicchiere al vaso.

Prego soprattutto si trasmetta

a lui, se sarà fiore, questa mia

riconoscenza per la sua fatica:

ecco, l’ammiro, di lui sono saziato.

Pieno di riconoscenza per lo sforzo.

Busta in cui era conservato riproduce

immagine che sarà quella del fiore:

fior di tagete rosso, fioritura

da maggio a ottobre, sempre che la terra

sia della buona, fresca e sufficiente.

Prima pianissimo poi forte poi più forte

arriva un vento che pare contraddire

l’aprile caldo in cui seme ed io siamo:

augurio al seme, carezza greve all’uomo.

***

La veranda dello zio

Veranda veneranda con tenda un po’ strappata,

stando seduti in te si vede bene il borgo

ma dal borgo in su non possono vederci:

tenuti al riparo, difesi come siamo…

Passano i pomeriggi lentissimi in veranda:

pensieri, andando adagio, sembrano migliori

(più calmi, in ogni caso, più tondi, più beati):

pensieri in rassegna, pensieri rassegnati.

Pensieri – noi pensiamo – che ha avuto la veranda

nel tempo della storia che è stata la sua vita:

due secoli e mezzo?  tre secoli compiuti?

Neppure chiedendo allo zio padrone di veranda

sapremmo di più attorno alla sua vita:

tutto è remoto attorno alla veranda!

A differenza nostra, però, lo zio sostiene

che stando in silenzio seduti su veranda

(non visti da nessuno se non da noi nipoti)

vengono voci (pianissime, sussurri)

e ad ascoltarle bene dicono qualcosa…

Lui dice che ier l’altro ha inteso chiaramente

“Rimetti a noi i debiti, perdona…”

ed ha risposto per non parer sgarbato

“Come anche noi, vedrai, li rimettiamo…”

Lo zio non chiede mai, ma noi alla veranda

vogliamo un bene difficile da dire.

***

La resina del ciliegio

È piantato in questa piazza un ciliegio   

(ormai, invero, piazza-parcheggio 

da che supermarket funziona):

qui, tra un’auto e l’altra si sente

il vento che arriva, la pioggia se è fresca…

Al ciliegio in verità non bada nessuno:

non le auto in arrivo o partenza

non comari con borse e carrelli

non bambini intenti agli acquisti

neppure, snervati sui camion, gli autisti.

Il ciliegio, se pure attorniato

ogni ora da moti e persone

da rumori da strilli da voci,

sta solitario. Molti anzi non sanno

a dire il vero nemmeno il suo nome;

per loro è una pianta, fastidio

tra un’automobile e l’altra:

alberello-fastidio: attenzione!

Se mai, più accosto al ciliegio,

vedrebbero che il tronco gli cola:

sentirebbero forse che vive

e questo suo sudore che dice “io vivo!”:

si forma in certi punti del fusto,

è colla che profuma in canali,

s’unisce in groppi che si fanno più duri…

È segreto di vita pur parendo tumore.

Contro l’affanno di tutta la gente,

ciliegio lento produce alchimia;

contro la corsa che è supermercato

(corsa ad indurre, corsa a guadagnare),

scorza con antica pazienza di ciliegio

manifesta all’aperto il lavorio;

contro devastazione che vuole novità,

resina, piano, parla in umiltà.

***

Il gatto e la bibbia

Mentre leggo esposto alla finestra

– son libri da leggere all’aperto –  

la bibbia in volume poderoso,

il gatto Puff mi salta sulla sedia,

s’insedia tra la bibbia e le ginocchia.

L’accarezzo e distraggo al tempo stesso:

postura è comoda per lui, per me un po’ meno.

Da qualche settimana navighiamo

– a seconda dei giorni e delle ore – 

da Sansone e Dalila a Tobia

e all’angelo che Tobia rifece sano.

Poi – se vento alla finestra è quello giusto –  

siamo capaci di risalire a Adamo,

di passare ai due fratelli opposti,

di chiederci il perché del contadino

e la ragione contraria del pastore.

Una volta – è accaduto il mese scorso – 

ci fermammo due ore nel deserto:

dopo l’esodo, il mar rosso e la salita

sul Sinai scendevamo trafelati…

Puff lascia spesso qualche pelo:

sulla pagina restano segnali:

son passato di qua, ho traversato

le guerre coi Filistei, la prigionia

in Babilonia, ho letto Salomone…

Se mai ritornerò su questo libro,

ritroverò i segni di lettura:

come un domestico o come un segretario

pensa a lasciare un’orma per la storia…

Mi chiedo talvolta se qualcosa

di ciò che leggo sempre ad alta voce

entri nel gatto, gli resti in qualche modo:

si faccia corpo, se penetri nei sogni,

e, se fosse così, con quale forza

quale séguito avrà nella sua vita…

Bellissimo, è certo, è già che ascolti e volti

il capo ora al libro, a volte verso il vento.

***

Daniele Gorret (Aosta, 1951) ha esordito come narratore nel 1984 con Sopra campagne e acque (Guanda) cui ha fatto seguito una quindicina di testi in prosa tra i quali Avventure di vita e avventure di morte di Silvano Ligéri (Manni,1998), Eventi in un giorno di Emilio Tissot (Mobydick,2000) e la trilogia dedicata al personaggio di Anselmo Secòs: Malattie infantili (Pendragon,2010), Errori giovanili e Disinganni senili (Pequod, 2015 e 2018).

Negli ultimi anni sono apparsi anche i suoi libri in versi fra cui Ballata dei tredici mesi (Garzanti, 2003), Che volto hanno (LietoColle,2011, Premio Il Meleto-Guido Gozzano), Quaranta citazioni per Anselmo Secòs (LietoColle,2015, Premi Carducci e Rubiana-Dino Campana) e Carni (Pequod,2021).

Suoi racconti sono compresi nelle antologie Narratori delle riserve (Feltrinelli,1992) e Racconti italiani del Novecento (Meridiani Mondadori,2001).

È autore di testi teatrali e del radiodramma Due.

Studioso dell’Alfieri cui ha dedicato due saggi.

Intensa la sua attività di traduttore di classici francesi del Sette e del Novecento da Sade a Céline, Gide, Caillois, Malraux, Blanchot.

ANNA K. VALERIO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI GABRIEL DEL SARTO, “SONETTI BIANCHI”, COLLANA PHI.

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ANTONIO FIORI RECENSISCE “SUL BANCO DEI PESCI” DI CARLOTTA CICCI. COLLANA I CODICI DEL ‘900. PREFAZIONE DI ALBERTO BERTONI.

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Antonio Fiori recensisce su ATELIER

Carlotta Cicci

Sul banco dei pesci

Prefazione di Alberto Bertoni

L’arcolaio, 2022

 L’esordiente Carlotta Cicci ha posto tre versi visionari del gallese Kavanagh in apertura di questa raccolta – E Cristo viene/ come un fiore/ di gennaio – fondando così questa poesia sulla sua imprevedibilità, come quell’apparire inatteso di un fiore a gennaio. La scrittura è fortemente metapoetica, continuamente attraversata dalla necessità di dar conto di sé, della sua germinazione, del suo esserci nel dolore, nell’amore, nell’abbandono e nell’oblio. L’autrice è disorientata ma sensibilissima, sente la vita ma sa che la poesia la precede – inseguo vertigini/ come un uccello cieco/ che mangia il vuoto// sono preistoria. Avvertiamo nei testi quasi un travaglio, la fatica che si ripete del vero parto della figlia, a cui Carlotta Cicci dedica la sua silloge – il sangue mi è sfuggito/ tutto è già accaduto/…/ mi lecco le ferite/ chiedo asilo.

L’io è inafferrabile, metamorfico, teso alla pietas ma anche in polemos, tra accettazioni totali e rifiuti radicali. C’è un poeta spettatore (e io che rimango/ immobile a guardare) e un poeta speculatore (esistere a tratti/ prima del mondo/ prima del caos) ; ed ancora, un poeta del corpo – Voglio ballare/ finalmente sudare – e un poeta dell’anima – In attesa del sangue/ reclamo il fondo del lago/…/ la mia anima è svanita/ tra i seni/ nelle città mutilate/ nelle acque mescolate/ in frammenti di stoffe/ e vortici di silenzio.

Alberto Bertoni, nella prefazione, parla di “un libro generoso e multiforme” e spende il nome di Milo De Angelis per porre l’accento “sulla spinta comune all’inclusività e alla multanimità delle prospettive di rappresentazione”, nonostante la differenza di peso e di personalità tra i due poeti; parla di “scrittura istintivamente fenomenologica”, di “metrica flessuosa e flessibile, come un giunco”, di poeta che preferisce alla metafora “una liberissima associatività d’eco surrealista” – spunti molto interessanti, davvero rari per una poesia d’esordio.

Antonio Fiori

.

Testi

Torna un qualunque mattino

batte il fegato del mondo

insopportabile

nessun presagio

sul palmo delle mani

in un passaggio

di vortici e soglie

con l’anima capovolta

in un improvviso odore

di fieno e sale

nel delirio

lei nasce

il suo respiro

come una carezza

assoluta

un suono

piccolo

*

Nei silenzi vicinissimi

ho la bocca macchiata di reato

rigo muri col pollice

scortico tavoli e sedie

mi sposto di continuo

tocco fondi

riemergo.

sola sono tutta mia.

*

Le voci registrate

il suono delle campane

la domenica nei labirinti in fiore

in quei giardini spalancati

tiravo su le pieghe dei vestiti

correvo sulle punte

allontanandomi dal tuo grido

Carlotta Cicci videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato numerosi progetti video e documentari (http://www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.

MARCO FURIA RECENSISCE “L’ARRESTO”, L’ULTIMO LIBRO DI GABRIELE GABBIA. COLLANA L’ARCOLAIO ROSSA DIRETTA DA GIANFRANCO FABBRI.

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Marco Furia recensisce sul blog “Perìgeion” l’ultima silloge di liriche di Gabriele GabbiaL’arresto (L’arcolaio, 2020).

Un non definitivo arresto?

L’arresto, seconda raccolta data alle stampe da Gabriele Gabbia, si presenta quale sequenza di accurate cadenze in cui riflessive immagini si susseguono secondo eleganti ritmi.

Leggo a pagina 20:

“(…)

Poi v’è quel modo

di star dentro alle cose

– di starvi poggiato

fra valichi e case –;”.

Emerge qui, introdotta da tre punti chiusi tra parentesi, una quasi noncurante, sospesa, consapevolezza: stare davvero “dentro le cose” è impresa non sempre facile e, forse, oltre certi limiti, nemmeno possibile.

Non resta, allora, che descrivere

“l’immane

                 movimento della vita”.

Attento a evitare il rischio di chiudersi nella propria esclusiva intimità (i cui esiti espressivi potrebbero risultare alquanto incerti), Gabriele si apre al mondo del consueto, del quotidiano, attento a illuminanti tratti soltanto a prima vista banali:

“Lo stesso sole del cardigan di quel giorno

la stessa tenue, disparata apertura

la stessa distanza di ieri da te”.

Un’“apertura”, pur “tenue”, assume non secondaria valenza: attraverso un piccolo squarcio si può già osservare il mondo.

C’è, poi, la “distanza”, ossia la presa d’atto di un dualismo soggetto-oggetto che, vissuto quale limite, il Nostro forse vorrebbe superare anche correndo il pericolo dell’insuccesso: tuttavia il tono della sequenza sembra tendere a una non del tutto rassegnata accettazione.

Cito, a questo punto, dal singolo componimento il cui titolo è identico a quello dell’intera silloge, i seguenti versi:

“e nessuna parola piú

da pronunziare; solo

un rintocco languido

lento, fino all’arresto […]”.

Ebbene quella “parola”, che, ridotta a “rintocco languido”, non è più capace di proseguire, mi pare potrebbe esprimere una (pur drammatica) difficoltà ma non una definitiva sconfitta: altri linguaggi emergeranno, altri modi di vedere il mondo l’umanità sarà in grado di porre in essere?

Esistono possibili aperture verso territori fisici e idiomatici in cui, senza perdere noi stessi, potremo continuare a vivere?

È questo l’interrogativo che Gabriele con i suoi intensi versi pone: evita di rispondere in maniera esplicita, ma il suo insistere scrivendo suggerisce un senso di non diffidente tensione partecipativa.

L’“arresto” è singolo evento che non esaurisce l’umano divenire?

Impegnarsi al meglio nello stare “dentro le cose” può essere una possibile via d’uscita?

                                                                                                         Marco Furia

PRESENTIAMO QUEST’OGGI LA PRIMA DELLE OFFERTE DEDICATE AGLI AFFEZIONATI LETTORI DE L’ARCOLAIO. A CADENZA TRIMESTRALE PROPORREMO UN CERTO NUMERO DI LIBRI IN VENDITA A PREZZI SPECIALI.

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L’arcolaio, nel gratificare i propri lettori, ha pensato di promuovere, con cadenza trimestrale, alcune campagne di sconti, con lo scopo di facilitare la fruizione dei nostri prodotti editoriali. Di trimestre in trimestre, la casa editrice avrà modo di fare un giro di proposte a 360 gradi su tutto il catalogo.

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LEGENDA A COLORI:

Nome poeta rosso

titolo verde

prezzo cop. giallo

quantità disponibile blu

prezzo scontato arancione

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Andrea Leone Hohenstaufen 8,00 euro 20 4,00 euro

Fabio Michieli Dire 12,00 euro 17 6,00 euro

Simone Consorti Le ore del terrore 12,00 euro 15 6,00 euro

Rossella Renzi Il seme del giorno 11,00 euro 9 5,00 euro

Damiano Sinfonico Storie 10,000 euro 5 5,00 euro

Damiano Sinfonico Lingualuce 10,00 euro 3 5,00 euro

Massimiliano Aravecchia La valigia e il nome 11,00 euro 5 6,00 euro

Tonino Vaan Cosmesi 11,00 euro 23 5,00 euro

Antonio Pibiri Chiaro di terra 11,00 euro 12 6,00 euro

Giampaolo De Pietro Abbonati al programma delle nuvole 12,00 euro 6 6,00 euro

Maurizio Landini Hoplon 12,00 euro 19 6 ,00 euro

Andrea Italiano La coca 8,00 euro 19 4,00 euro

Yari Bernasconi Cinque cartoline dal fronte 6,00 euro 10 4,00 euro

Luciano Neri Discorso a due 10,00 euro 14 5,00 euro

Fabio Pusterla Truganini 7,00 euro 29 4,00 euro

Marilena Renda Fate Morgane 7,00 euro 5 4,00 euro

Francesco Scarabicchi Via crucis 6,00 euro 7 4,00 euro

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