CAMILLA ZIGLIA RECENSISCE SUL BLOG “DI SESTA E DI SETTIMA GRANDEZZA” DI ALFREDO RIENZI L’ULTIMA SILLOGE DI LIRICHE DI GABRIELE GABBIA: L’ARRESTO (L’ARCOLAIO, 2020).

L’arresto di Gabriele Gabbia (L’arcolaio, 2020) è una raccolta compatta di una ventina di liriche, alcune delle quali, più brevi, numerate sotto un titolo; è corredata dalla prefazione di Giancarlo Pontiggia e dalla postfazione di Flavio Ermini.

Di questo libro apprezzo il lavoro di composizione che, a partire dalla lacerazione, dalla mancanza («defraudato» è il lemma di apertura della prima poesia, dal titolo Avvento; segue a p. 19 «Tu in ogni caso / percorri un calvario»), da una visione tragica dell’esistente, mantiene tuttavia un obiettivo molto preciso sulla tèchne: il linguaggio è fortemente selezionato e letterario, manipolato fino a un barocchismo retorico, fino al concettismo, dove il poeta cerca la massima forza espressiva del significante. Di solida tenuta risulta la coerenza tra forma e contenuto e una simile consapevolezza espressiva in generale è qualità imprescindibile del fare poesia, ma qui in particolare permette di osare, di forzare.
Scelta di stile non anacronistica: una felice intuizione dannunziana accosta il disorientamento epistemologico novecentesco (che non trova certo compimento o soluzioni nel nuovo millennio) a quello dell’Arte barocca. Nella lirica marinista la metafora spregiudicata si fa entimèma, sillogismo imperfetto, strumento gnoseologico rabberciato e zoppicante per la lettura di una realtà sfuggente. Anche Gabbia ha figure che si ergono a strutture di pensiero: sono diverse, mi soffermo sulle opposizioni (ossimori, antitesi) che creano esplosione e implosione, tensione e scontro («[…] è l’ossimoro la figura retorica dominante di un libro segnato in ogni suo punto dalla legge dell’urto […]» sottolinea Giancarlo Pontiggia in prefazione) tra i concetti di vita e morte (vita qui è opposta a morte, non amore: questi è un “boia” persecutore, all’apparire già nunzio della perdita), presenza-assenza (Gabbia cita Aristotele «[…] Ambedue poi – e la presenza e l’assenza – sono cause motrici […].»), inizio-fine, orizzontale-verticale, dentro-fuori e altro.

L’ETERNO IN CUI GIACI

Questo volgere all’interno

– questo esserne –

preme eccede aggetta

l’esterno in cui giace:

l’eterno in cui giaci.


Ancora sul barocchismo: rime interne, giochi di parole, concettismi, annominazioni («La stessa angoscia equivale / all’imparità d’ogni parte», p. 24; «stillato stillicidio», p. 27) tentano di ricucire il dissidio, ma sono stratagemmi deboli, ne è ben conscio Gabriele, che non si illude di sanare così il tragico, né di dare definizioni, ma studia di gettare nuovo senso sulle cose e sulla lingua, ampliarne le potenzialità costringendo il lettore ad accogliere gli accostamenti e applicare un ragionamento. Non è questa una poesia “di pancia”, olistica o sentimentale, né nella codifica, né nella decodifica; rivela un’ambizione non tanto filosoficamente espositiva e non solo problematizzante, ma anche in fondo fraternamente didascalica, e non si traduce in verbosità sentenziosa, ma in disperata lotta della parola con la realtà, disperato appello alla resistenza, ad un “con-sistere”.

L’amore per la vita è vibrante ma velato, costantemente frustrato dall’essenza della vita stessa, il desiderio di ascesi è potente – e si protrae in riferimenti biblici e liturgici –, ma essa non avviene; da qui l’irrisolto e irrisolvibile, l’impossibilità del compimento di qualunque sforzo, la sospensione, L’arresto anche della scrittura stessa, anche del rapporto tra “io” e mondo, tra “io” e “tu”. Vien da sé che in questa esistenza di tensioni antitetiche complesse e urti l’“io” non sia univoco e il “tu” resti inafferrabile sia in sé, sia in un’identificazione precisa: a volte pare corrispondere ad un alter ego di Gabriele, o alla sua anima, a volte a un caro defunto, a una donna, a un fuori-da-sé di cui però l’“io” fa parte, a un fuori-da-sé che l’“io” racchiude. E così esterno e interno si definiscono e insieme si inglobano, tra l’“io” e l’altro vi è una frattura stretta come l’apertura di un cardigan, la fenditura è un altro atto eternamente in potenza, a portata di mano; di chi è stato rimangono le medesime orme che lascia anche ogni vivo dietro di sé, e allora dov’è L’arresto? Quale il limite, il senso? Lo vediamo voltandoci indietro o proseguendo? Il poeta procede all’arresto e da lì compone, sul punto della spoliazione di sé, sulla soglia della salvezza, della libertà [«(…) per / cospargersi e / congiungersi / occorre / disconoscersi», p. 25]; in postfazione Flavio Ermini afferma che secondo Gabbia «[…] la caducità esistenziale è: cadere ed essere da sempre caduti […]». Il titolo segna il blocco, il limen tra detto e non detto, tra luce e buio, tra il qui e l’altrove, la sconfitta che si fa unico modo per adempiere («nello scacco / l’adempíto»), non è passività: il poeta resta attivo e vigile, pur immobile, e sonda la linea del varco, la soglia della porta da cui l’inizio apre la fine («La porta d’inizio è ciò / da cui fuga ogni fine», p. 27), “aggetta” per conoscere, mantiene l’equilibrio sull’abisso. La densità delle liriche di Gabbia riesce a comunicare una visione poetica unica dell’esistente nell’accostamento di fisica e metafisica, spiritualità e immanenza.

Come in un dipinto caravaggesco i chiaroscuri danno il massimo della loro espressività ossimorica, ma in Gabbia il buio non è il fondale della scena rappresentata, bensì la scena stessa, la vita; la luce è per l’oltre, per i morti, i loro occhi insistenti sul poeta, l’incandescenza opalina del nulla.

ESSI…

«[…] vengono

come da storia antica ad un presente

a riscuotere il senso della vita […].»

Michele Ranchetti

L’eternità aggressiva dei morti

in cui sfolgorî; la luce su di essi,

a illuminare il nulla incandescente

posantesi sulle cose — sulle case

ove tutto non è piú; le figure da

sempre verso questi occhi in cui

tutto è stato; la lacerazione del

percepito – sí –: l’incompiuto.

BISBÍGLI

(…)

Poi v’è quel modo

di star dentro alle cose

– di starvi poggiato,

fra valichi e case –;

bisbígli luci salmodíe afflati,

tenui raschiano

un freddo.

L’ARRESTO

«[…] Si serra

a me e a te la fine […].»

Ernst Meister

a S.

Due sguardi conniventi

– convergenti –, sul

vuoto accumulato,

e nessuna parola piú

da pronunziare; solo

un rintocco languido,

lento, fino all’arresto: «Tu

sei libera».