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GIAN RUGGERO MANZONI RIFLETTE SU “IL TEMPO DEL CONSISTERE” DI GIANFRANCO FABBRI

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DA FACEBOOK, ACCOUNT DI GIAN RUGGERO MANZONI.

UN’ACUTA RIFLESSIONE DI G.RUGGERO MANZONI SU “IL TEMPO DEL CONSISTERE” DI GIANFRANCO FABBRI

 

IL TEMPO DEL CONSISTERE (Ed. L’arcolaio 2016) è un testo che risulta fondamentale per comprendere Gianfranco Fabbri quale letterato, poeta e uomo. Nel libro (una raccolta di prose potenti per lirismo e sincerità) i disagi tipici della nostra epoca si uniscono a soluzioni esistenziali di somma saggezza. Il suo risulta quindi uno di quegli insiemi che insegnano a pensare, soprattutto a pensare alla contemporaneità, cucendo, con la memoria, l’essere di oggi con le cause che hanno generato, in esso, certi effetti. Lo stile di scrittura a cui si affida Gianfranco è serrato, lucido, ma non rinuncia alla sfumatura poetica, al guizzo mosso dal sentimento, ponendosi contro a una certa mediocrità dell’attuale umano, alle insensibilità, alle indifferenze. La lezione del Leopardi dello “Zibaldone” fuoriesce ringiovanita e maggiormente sciolta, sebbene lo spettro di un certo pessimismo, mai, del resto, dichiarato a chiare tinte, domini certi passaggi, ma poi il tornare alla positività, tipica di Fabbri, alla docilità mossa dall’affetto, donato e ricevuto, in particolare là dove l’aforistico avanza il narrato, così che il “tastare il polso” dell’oggi, ormai orfano di sistemi congrui, si stempera mirando un assoluto, un sommo. Infine lo scopo di Gianfranco è quel tanto ambizioso, cioè lo scrivere un libro di etica che riconduca al senso di una retta via, classicamente intesa; così Fabbri, come un filosofo del passato, si propone di guidare il lettore verso una visione morale dell’esistenza, affinché alle negatività che egli denuncia nei testi, finalmente (o di nuovo) si opponga il desiderio di capire, di comprendere, di entrare nell’altro, perché ancora esiste conforto nella bellezza dell’incontro, nonostante le frammentazioni, i dissolvimenti, le cadute di un mondo e di una società alle quali, giornalmente, assistiamo. Quindi spezzato, ma saldamente unito l’insieme, visto che Fabbri mai viene meno al filo conduttore del suo dire, e mai sfugge al cerchio che le sue parole vanno a tracciate, quale difesa da un esterno volgare, e quale offesa nei confronti di tale volgarità. Se la vita è spesso calpestata, non resta che interrogarci su cosa l’abbia ferita in tale modo, e le risposte che Gianfranco ci offre sono diverse, ma risultano quali rimandi l’una dell’altra, nel tentativo, in lui sempre riuscito, di sfuggire alla gabbia della progressiva riduzione dell’individuo alla semplice e barbarica sfera del consumo, in modo di dimostrare che il primo e vero problema dell’odierna umanità risulti non dimorante, tanto, nell’avere troppe inibizioni, ma quanto nell’averne (ormai) troppo poche.

Grazie, Gianfri, del graditissimo omaggio …

ROBERTO DALL’OLIO RECENSISCE “IL TEMPO DEL CONSISTERE” DI GIANFRANCO FABBRI

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Il   tempo   del  consistere

(di Gianfranco Fabbri , Arcolaio Editrice, Forlimpopoli, 2016, pagg. 109, euro 12)

Articolo scritto da ROBERTO DALL’OLIO

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“All’improvviso mi sono ricordato di me” così conclude la prima pagina del suo romanzo Gianfranco Fabbri e credo sia emblematica tale chiusura. Se è vero quello che soleva affermare Bassani “ che di un romanzo si può dire lo stesso di una minestra : si sente se è buono dalla prima cucchiaiata”, io del libro di Fabbri non mi sono certo fermato alla prima. Il tempo del consistere ha una sua particolare consistenza del tutto ossimorica. Comincia da questa dimensione la mia “lettura” del bel libro (romanzo?) del nostro Autore, la cui tessitura ossimorica appunto, nella sua scansione duale, ma non dualistica, mi appare una delle cifre dell’opera. Si tratta di un corpus di scritti accaduti sulla carta negli ultimi quattro anni del secolo scorso e che propagano un senso di amore per il Novecento che va davvero controcorrente. Ma come Fabbri osa parlare di amore per il Novecento, per il “secolo breve” strozzato dai totalitarismi e dai genocidi? Sì perché per il nostro il “secolo mondo” , pur innegabilmente segnato da eventi terribili , è stato altrettanto innegabilmente una lunga scia di esplosioni di vitalità, di gioia di vivere, di acquisizioni sociali e politiche, di vette esistenziali raggiunte, di assurdità e infinite attese, di speranze e messianiche ideologie, di grandi dilatazioni culturali. Fabbri ce li descrive, ce li rappresenta questi “segni dei tempi”, ce li fa rivivere attraverso la molteplicità delle figure che conducono la narrazione che si distende in cinque fondamentali movimenti che compongono la struttura, la consistenza sinfonica del romanzo. Intendo dire che a parlare sono molteplici identità dal maschile al femminile, dalla giovinezza alla vecchiaia, vere creature dell’io multiforme dello scrittore, del cui polimorfismo aveva già dato grande prova nel suo ultimo – per ora – (peraltro bellissimo e coinvolgente) libro di poesie pubblicato, Stato di vigilanza, in cui veglia e dilatazione onirica tempo del vissuto e tempo del vivere, attenzione e dispersione si intrecciavano con signorile maestria e inquietante leggerezza. Ma dicevo della struttura sinfonica. Dei suoi cinque movimenti , dei suoi echi di un passato che ritorna dentro le forme occulte del presente, delle suggestioni di mondi culturali, di figure della cultura, della scrittura arrovellata fino al mondo aforistico e alla poetica del frammento. Proprio il frammento pare indicare la vera consistenza del tempo, l’ossatura del flusso dello “stato di vigilanza”. Una vera ed autentica memoria ricordata. Altro ossimoro. Memoria uguale conoscenza, ricordo uguale tenere nel cuore. Conoscere e tenere nel cuore lasciando che esploda in mille rivoli di colori del vivere, nella linfa segreta e intima del testo. Memoria ricordata in quanto rifugge da ogni oggettività, ma di una precisione millimetrica e di una balistica tesa tra l’arco e la lira plasmata dal salire dall’inconscio alla coscienza delle cose, dei luoghi, dell’essere volutamente soggettivato del secolo che abbiamo lasciato alle nostre spalle come un futuro di cui fummo gravidi. Il tutto con un bruciante e morbido tocco personale, un timbro antico e riconoscibile di un Autore che appartiene alla grande letteratura di cui ha saputo e sa cibarsi con commovente camaleontica costanza. E continua nel testo il vicendevole scambio di conscio ed inconscio, uomo e donna, poetico e prosastico, colto e popolare, lirico e freddezza diagnostica. Così scorre il grande piccolo mondo moderno della totalità, dell’amato Novecento, nella minuziosità bizantina dell’arte del minimo passaggio di cui Fabbri , come Alban Berg, è un vero maestro. Cercherai invano lettore la tessera che possa rivelarti il mosaico, quanto dovrai abbandonarti alla “fede cieca che precorre l’occhio “(Alfonso Gatto) di cui si nutre il pittore di questo affresco, segreto contenuto nella sapienza narrativa del multiforme io narrante. Ma l’io non era sparito? Fabbri non teme l’io, lo riporta alla luce della forma letteraria attraverso una fenomenologia di stati, nell’impurità del mondo raccontato, dentro la storia crogiolantesi nel vissuto di una moltitudine di soggetti che non disturba, non si impone, ma avvince, entra dentro, seduce senza abbandonare. Apre lo scrittore le sue parole al vento degli occhi altrui sapendo aprire lentamente la credenza della sua vecchia officina, il mobile antico di “ottimo gusto” segno della sua intensa quanto crepuscolare sensibilità. Il romanzo mi appare dunque una sorta di “minima memoralia”, <<…Zibaldone privato che si presta tuttavia  al dipanarsi di un pensiero strutturato e coerente…nell’affiorare dei ricordi, espressi con una prosa “lirica”che gli è congeniale, è facile scoprire le tracce della sua attitudine al poetare>>. (Enza Valpiani). I minima moralia scandagliano l’anima. Dialogano con il presente. Perlustrano le nostre paure. Parlano di Dio e della morte, dell’amore e della libertà. Del dolore e dell’infinito. E’ pascaliano il Dio di Fabbri? Non è un Dio nascosto più di quanto non sia epifanico nel suo apparire nascondendosi.

Appare sempre qua e là nel tessuto narrativo il filo dell’infanzia, nucleo degli affetti familiari che passano attraverso la polimorfia dell’io di Gianfranco. In esso soffia un senso leopardiano della natura attorno ad una dichiarazione di poetica in merito allo stile, alle convinzioni e al Bello che traggono linfa dal genio di Recanati e dal pensiero di Karen Blixen “una prova…una messinscena dell’arte” che è anche un’arte della messinscena. Questo romanzo. Ancora ossimorico. Fino alla fine. Che non c’è.

 

Roberto Dall’Olio

LUIGI PARABOSCHI RECENSISCE “DISPACCI” DI NARDA FATTORI

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dispacci

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Dispacci di Narda Fattori, L’Arcolaio ed. 2016,

nota di lettura di Luigi Paraboschi.


Scriveva la Fattori in una precedente raccolta dal titolo “la vita agra“, volendo lasciare un “consiglio- avvertimento” alla nipote

se non hai passioni e sogni grandi
                    resti all’anagrafe solo un rigo nero

ed in questo ultimo lavoro, dal titolo significativo DISPACCI, non fa che ribadire il concetto sopra esposto, quello della passione per la scrittura e per la lettura che sembra essere dominante, come scrive in questi versi della poesia Viaggi


nei libri il viaggio bambina fu con Sandokan
con Nietzsche più tardi e saputa ma non ho imparato
a discriminare il grano dal loglio

Da questo nuovo cammino che ha intrapreso essa invia poesie nelle quali parla di sé spesso in modo diretto, alludendo al suo modo di aver vissuto, e usa il titolo che ho precisato, forse perché tradizionalmente si adotta il termine “ Dispaccio di agenzia “ per indicare un sintetico rapporto giornalistico o di agenzia giornalistica, quasi un avviso, e talvolta anche un breve rapporto militare dal fronte di guerra volto a condensare gli avvenimenti e ad aggiornare il ricevente sullo “status quo“ di quanto accaduto.

E l’aggiornamento di Fattori è un riassunto composto da tante immagini, tante sensazioni, tante emozioni tra le quali direi che i motivi conduttori girano attorno ai temi degli : affetti perduti- solitudine e del distacco- delusione nei confronti delle aspettative e dei rimpianti – la fede e l’immigrazione.

Uno dei primi dispacci lo si incrocia nelle poesie di apertura, dedicate al padre alla madre ed alla sorella, tutti citati con nome e cognome, ma credo sia stata l’assenza (forse) troppo repentina della figura del padre a rendere ancora forte e vivo il bisogno di aiuto nel cuore dell’autrice, e questi sentimenti così ben condensati nel corso della poesia “Lui possiamo viverli attraverso la sintesi racchiusa in questo verso finale:

ci vuole la mano di una padre per un bambina

ma se la mano del padre è mancata, anche il legame con la madre cui fa cenno nella poesia e tu madre (forse) non è stato portato avanti troppo a lungo nel tempo, come possiamo leggere qui:

il nodo si sciolse e molto passò
del bene e del male
nel coagulo nudo dell’essere vivi

ed infine c’è la figura della nonna, evocata dalla poesia “Vespro” che “muoveva piano la labbra arse/ e si segnava al vespro” – e che ha lasciato un vuoto interiore nell’autrice da indurla a concludere così:

io ormai dico crepuscolo e già non vedo  

Ma agganciandomi a questo “non vedo“ vorrei riprendere altri versi raccolti dalla raccolta precedentemente citata la vita agra, che suonavano: 

Perché se sopravvivere è una fortuna
allora il prima e il dopo la vita
appartengono al segreto
di una divinità terribile e troppo umana

per giungere a questo breve passo della poesia di questa raccolta “Enigmi che dice:


mi restano mani nude inabili alla poesia
restie alla preghiera

la mosca unisce due zampine all’interno
della ragnatela- Vanamente prega

E questa mosca che “vanamente prega“ unendo le zampine è la stessa “mosca“ che dirà nella poesia “Single”

misuro a spanne la dimensione
della mia anima
non più ampia di una tovaglia

e concluderà la stessa poesia affermando

La mia anima è più piccola della tovaglia
poggia-piatto all’americana

single per non dire sola

E’ un’amara conclusione quella di questa “mosca“ – per giunta “single” – una conclusione amara ma lucida, quasi impregnata di disperazione, come si può leggere nella poesia “la forma del finire” dalla quale stralcio alcuni versi

finire dimenticando il volo le ali
lasciare che il niente pettini
le piume e sostare senza fretta
alla porta che non si conosce

nessuno sussurro nessuna preghiera
nel silenzio tondo la nescienza
dell’essere stati del non essere più

Parafrasando il titolo di un famoso romanzo americano oserei dire, (ma lo scrivo con il rammarico, cosciente di una realtà che vivo in prima persona), che questa non è poesia per …giovani; c’è molta amarezza, una sofferenza chiusa, quasi senza speranza, di chi avverte lo scorrere del tempo e l’incalzare dei giorni, e le delusioni che derivano da una presa di coscienza del reale sempre più avvertita con consapevolezza.

A conferma di quanto detto riporto parte della poesia Avvenne

Avvenne che inciampo’ sul primo scalino
infausto incontro con la diminuzione

il corrimano era bastato fino a ora
e passi studiati lentezze contro sole

non ha re-imparato la rincorsa
l’epidermide bruciata dallo sfregamento

sta seduta in silenzio
lei che aveva sempre profetato 

Ma raggiunta una certa età, quando le condizioni fisiche non sono più quelle di un tempo, non si può non concordare con la Fattori: spesso quel corrimano che ha sostenuto per tanti anni le nostre illusioni ha ceduto sotto il peso metaforico dei “pensieri poco profondi” e lo scoprire che “i fiumi di un tempo si sono trasformati in fossati” può condurre alla conclusione espressa da questi versi della poesia “la mia sera”

la mia sera è un albero con foglie residuali

che si accostano ai versi successivi dove risalta l’ incertezza fideistica di quel “ brivido” che la coglie e lo sgomento esistenziale di quel non so


la mia sera è una nuvola sfilacciata che s’allunga
sotto la volta del cielo- s’attarda – guarda la terra
che l’ ha generata e un brivido la coglie – non sa
ancora se sarà brina pioggia o neve di peso lieve
o tracimazione

Lo sguardo dell’artista è talvolta acido e sarcastico nei confronti della stupidità e della cattiveria di questa società, come nella poesia 2014-2015

2013-2014-2015 abbiamo scavalcato
il dosso del tempo ancora morte
lutti cupidigie rapine e omicidi
stradali cioè di umani in strada
un’ammaccatura alla carrozzeria
un mazzo di fiori sul ciglio
del fosso

Fra smartphone iPod e tablet
vocifera la solitudine on line 

E concludo questa lettura stralciando qualche verso da questa poesia dal titolo Abbi pazienza perché essa ha, per me, un sapore amoroso forse involontario, quasi un invito rivolto ad un partner immaginario, magari ultraterreno, ad un rapporto fisico che rassomiglia un po’ ad un amplesso tristemente mortale


Abbi pazienza ho navigato tanto
la vela è stracciata e si beve il vento
… 

prendimi quando il sonno
mi picchierà sulle tempie e l’orologio
sarà qualche minuto indietro
una dimenticanza succede invecchiando
aspetta ora rimedio…….sii paziente
aspettami …..sarò qui subito subito
.

Siamo così giunti alla fine della lettura di questi Dispacci e ne abbiamo riportato la sensazione del malessere dell’autrice che si estende anche all’animo del lettore il quale non può fare a meno di essere coinvolto.

Quando si termina questo viaggio si deve riconoscere alla Fattori una lucidità di pensiero, una profondità nelle considerazioni di poetessa e di cittadina-testimone del mondo tali che diventa obbligatorio considerare questa opera un esempio attento ed alto di come sia possibile coniugare il valore letterario congiuntamente alla poesia civile.

 

       LUIGI PARABOSCHI