Home

Lorenzo Chiuchiù recensisce “Hohenstaufen”, ultimo libro di Andrea Leone

Lascia un commento

hohenstaufen-prototipo-valido

logo ARCOLAIO

Un altro autore esordisce nel catalogo de L’Arcolaio: si tratta del milanese Andrea Leone con la sua raccolta “Hohenstaufen”, che giunge a noi dopo diverse raccolte pubblicate, tra cui: “L’ordine”, uscito nella collana “Niebo” diretta da Milo De Angelis. Il nostro poeta è anche autore di un saggio collettivo: “La sposa barocca” (Lieto Colle, 2010) e di due romanzi: “Kleist” (Ventizeronovanta, 2014) e “Il suicidio di Holly Parker” (ultima edizione per Ventizeronovanta, 2016).

Vi proponiamo la prefazione al testo, scritta da Lorenzo Chiuchiù, e due testi estrapolati dalla raccolta.

Con l’alternanza di prose poetiche e di versi acuminati e nervosi, Hohenstaufen drammatizza la personale mitologia di Andrea Leone: il potere, la morte e lo Streben si muovono come protagonisti di un palcoscenico sempre sul punto di crollare. Le stirpi e i continenti, grandezze e tempi che esigono l’incalcolabile si susseguono in una lotta perpetua e in una caduta che sembra senza fine. Ossessivo e circolare, il libro ritorna sul dettato come se qualcosa di decisivo – il senso della grandezza e del dolore – dovesse essere trattenuto e nello stesso tempo, per non essere mitigato con la memo- rialistica o il diario, andasse spazzato via con gesto sovrano e disperato.

Eppure tutto accade all’interno di un entusiasmo essenziale: “la violenta primavera” è popolata dalle “divinità degli esordi” e “la potenza straniera” diventa a tratti riconoscibile: “Mia nata un giorno / nella perfetta bellezza / che ora ti è maestra. / Mia sorella della meraviglia / cha hai creato / ciò che era sempre stato. / Mie lacrime al culmine del nome”.

Le forme iussive e i vocativi incantati e terribili sono la manifestazione e insieme la revoca delle potenze dell’estremo: “le bellezze perfette”, “l’età divina”, “la festa della sentenza”, “la dinastia definitiva” sono l’espressione di un destino ma anche l’invocazione di chi se ne appropria. È signifi- cativo che queste potenze siano quasi tutte femminili: come evocate e conquistate dalla morte – il maschile der Tod è forse qui più cogente rispetto alla mors – attraversano la scena e nuovamente si eclissano: sono “le idee tremende”, “le ere della carne”, “le scienze maledette” che nella morte e contro la morte chiedono sovranità.

E in questo senso, con Hohenstaufen, Andrea Leone compone una sorta di araldica poetica: il nome del casato svevo che ha segnato la geopolitica di Europa diventa una specie di vox media: il nome si carica di fregi e ambizioni, di gioie improvvise e violenze. Come se le azioni narrate fossero tutte con- trassegnate da un sigillo arroventato, il nome Hohenstaufen diventa l’emblema per tutto ciò che aspira al definitivo: per la totalità o per il nulla.

Senza malinconia né condiscendenza, con una durezza battente e riarsa, Hohenstaufen è un canto d’addio e di ricongiungimento.

Lorenzo Chiuchiù

1.

So che gli Dèi morirono

nella matematica della casa millenaria,

e in tutti i mattatoi del mattino.

So che gli eredi si estinsero

nei musei degli eventi,

negli incendi estremi,

calcolando il pericolo antico.

So che i più celebri

eroi veri di ieri partirono

al mare del martirio,

al mare dell’addio,

quando il primo libro vivo

si infiammò del breve

brivido delle epoche.

Ma questo è il trionfo

questo è il trionfo di tutti

i teatri tramontati.

Questo è l’eterno

genio di chi guardò in uno specchio.

Questo è l’innamoramento.

Questo è il monumento del momento.

Questo è l’immenso

segreto che recito.

Questo è l’esercito che eredito

dentro lo specchio perfetto.

Questa è l’alta

matematica innamorata

che incanta la condanna,

attraversata

la porta bianca di Martina Franca.

In voi giovani nomi,

in voi eroi

dei corpi dei giorni,

in voi sismografi delle rivelazioni,

in voi spaventi dello spirito,

in voi compagni

di quella età divina

di cui sempre ebbi notizia,

in voi io conobbi

ogni scuola scandalosa della gloria.

Sto per essere

abbandonato al sacro

massacro del calendario e del miracolo.

Dopo di voi

dopo di voi io

dopo di voi io non sono

dopo di voi io non sarò

mai più guarito dall’essere nato.

**

2.

Secoli degli splendidi spaventi,

secoli dei regni eletti,

divinità dell’età,

divinità della verità,

divinità fiorite

dalle vite antiche,

voi siete

i calendari immortali.

Voi siete

i respiri degli imperi entusiasti

e la giovane perfezione

nelle memorie gloriose

tornate alla luce del sole.

Dea della vittoria

in quest’ora senza colpa.

Essere esattamente

il nuovo trono,

il morbo del mondo,

e queste ultime

recite attese da sempre.

Mia così vicina

algebra amica della nobile vita.

Mia nata un giorno

nella bellezza perfetta

che ora ti è maestra.

Mia sorella della meraviglia

che hai creato

ciò che era sempre stato.

Mie lacrime al culmine del nome.

Mio Dio

mio Dio infinito

mio Dio infinito che ebbe inizio

sulla soglia della tua storia.

DAVIDE ZIZZA (RIPROPOSTA E FRANCESCO FILIA SU “DIRE” DI FABIO MICHIELI

1 commento

dire

LOGO ARCOLAIO

La dimensione della parola. Su Dire di Fabio Michieli
di Davide Zizza.

Un antico proverbio turco dice che scrivere è “scavare un pozzo con un ago”. Ce lo ricorda Orhan Pamuk nel suo librettino intitolato La valigia di mio padre. Se da una parte questo paragone prefigura il duro lavorio dello scrittore, narratore o poeta che sia, dall’altra presuppone che scrivere diventi pure un atto di chiarificazione stilistico-tematica capace di riportare alla superficie del testo una dimensione coerente di parola e significato, eliminando ciò che di questo scavo non serve. Ancor più in poesia l’opera di scavo può manifestare un senso di una più profonda essenzialità in quanto la parola poetica – per quanto possiamo fornire definizioni importanti derivanti dalla tradizione letteraria – rappresenta nella sua costituzione testuale un’arte del levare. Se lo scrittore filtra, il poeta distilla.
Così scopriamo la raccolta Dire di Fabio Michieli, pubblicata nel 2008 (L’arcolaio editore): un vero e proprio distillato in cui l’autore ha riversato non solo la sua visione, ma anche l’esperienza di scrittura come purificazione, scrittura come estrazione della verità. Il momento poetico del “dire” – declinato non come un dire della purezza ma come una purezza del dire – manifesta una sostanza verbale che vuole fondersi con la pagina stessa, quindi parola e foglio assorbiti vicendevolmente per creare “un libro chiaro […] una pagina bianca quasi pura” dove quel quasi rappresenta lo sguardo dell’autore, sguardo non soltanto soggettivo, ma capace di catturare con attenzione i segnali intorno a lui.

lieve, un respiro lontano si fa
eco e mistero: voce che s’innerva
se un cuore esangue dorme tra le mani

Augusto De Molo, nelle sue impressioni di lettura, ci restituisce una pregnante definizione di relazione del poeta con la propria città nel senso figurato di un Orfeo contemporaneo e la sua Venezia-Euridice che il poeta guarda negli occhi, non per perderla come nel mito tradizionale, ma per comprenderla a fondo.
Credo che un motivo ulteriore vada a legare – filo invisibile ma resistente – ogni verso componente la raccolta, un oltre che ritroviamo nel desiderio di chiarire un tema, un’immagine o un argomento, ma anche di superarlo. È l’idea di poesia quale osservazione della realtà che diventa a sua volta occasione di poesia, del dire. Pertanto non solo l’immagine in sé, assorbita, fortemente interiorizzata nella sostanza della parola, ma immagine superata nella sua stessa definizione poetica e di conseguenza osservazione che va a definire o a ridefinire un significato costituitosi nel tempo, per es. in questi versi dedicati al mito orfico:

(Euridice a Orfeo)
voltati e guardami! sei tu: sono io:

m’interroga il silenzio sceso come una nube
a cingermi e salvarmi dall’intorno vociante –

ora voltati e guardami! ti supplico:

spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!
annientami: dissolvimi: esaudiscimi: annullami

Qui non riscopriamo la rivisitazione del mito fine a se stessa ma un superamento del tema per ricavarne un’occasione montaliana di riflessione, di ciò che rappresenta. In altre parole, prestandoci le parole dalla prefazione di Fortini alle poesie di Rilke tradotte da Giaime Pintor, la scrittura di Michieli è “poesia che è occasione di poesia” e pertanto non obbedisce necessariamente ad una interpretazione ‘ideologica’, ma diventa motivo poetico di espressione. Una poesia il cui titolo ha rievocazione oraziana, vestigia terrent, è – in linea con il tema dell’occasione – un mettersi in ascolto del senso che il tempo e i giorni assumono per l’autore:

ma le ceneri che ho nere sul capo
le ha posate il vento che ancora sparge
reliquie di chi arse ieri sul rogo,

nell’ultimo scorcio di Carnevale.

A queste ceneri che preannunciano il periodo quaresimale il poeta preferisce “l’azzurro che invade il giorno sereno”, un azzurro “tutto cielo o tutto mare” il cui colore sottintende un ideale di uniformità fra parola e senso, facendoci così riscoprire la finalità di una scrittura che ritagli una sua dimensione sulla carta. Dimensione umana che non nasconde le ferite del tempo (“così non ho diritto alle illusioni!”) o la ragione di un dolore (“fu […] /il ricordo a disperdere sul volto/due rivoli di noia”) o ancora il senso dell’attesa (“già s’agghiaccia l’attesa se al ritorno/sul volto squamerà/la fiamma che arde nuova una passione”), dimensione che si presta ad una funzione simbolica e significativa:

(di quel che resta avvolto nella carta non lo diresti mazzo
ma l’idea che di esso ci si può fare […]
non lo diresti un mazzo quel che resta)

Fabio Michieli nel suo Dire riesce a delineare uno spazio di parola in un movimento essenziale che distilla nel fondo della pagina un sentire profondo e autentico.

 

 

Dire di Fabio Micheli – Nota critica di Francesco Filia

 

Scrivere del libro di Fabio Michieli non è impresa facile per almeno due ragioni: 1) perché si manifesta come un lavoro in corso, in quanto pubblicato in prima edizione alla fine del 2008, è tutt’ora oggetto di un’ampia e sofferta riscrittura che dovrebbe portare a una seconda edizione nei prossimi mesi. Questa riscrittura, a cui il sottoscritto ha avuto accesso, è essa stessa un libro nel libro e amplifica, potenziandoli, molti temi centrali della prima edizione, basti pensare al tema della memoria che diventa, in una nuova sezione dedicata alla figura paterna, un vero e proprio dialogo con le ombre, un corpo a corpo con il senso dell’esistenza; 2) perché, paradossalmente, proprio per essere un lavoro soggetto a una potente riscrittura, è un libro che aspira a una compiutezza estrema, a una limpidezza cristallina, ottenuta con un lavoro di sottrazione e cesello certosino, che respinge qualsiasi sovrabbondanza interpretativa e si presenta come un tentativo estremo di espressione di purezza, in cui il verso fa tutt’uno con il bianco, con la pagina bianca da cui sorge (volevo un libro chiaro per noi due:/ una pagina bianca quasi pura).

Dire – L’arcolaio, 2008, con nota di lettura di Augusto De Molo e foto di Anna Toscano –, dunque, è un libro radicale, nel senso etimologico del termine, sin dal titolo, si confronta con la radice del poetare, con la sua espressione primigenia, il ‘dire’ appunto e lo fa riuscendoci in maniera originale, grazie al continuo confronto con la tradizione poetica italiana e classica. Questa necessità di scavo e di confronto con gli archetipi della nostra cultura, che non ha nulla della pedanteria archeologica o pseudosperimentale di tanta poesia contemporanea, emerge dalla presenza di tante figure del nostro immaginario letterario – San Sebastiano, l’Ulisse di Dante, le Muse – ma anche e soprattutto dalle due poesie dedicate esplicitamente al mito di Orfeo ed Euridice, in cui si sviluppa un dialogo breve e intensissimo, un botta e risposta serrato che definisce il perimetro del quadrilatero vita, parola, amore e morte che fonda il libro di Michieli. In questo perimetro si muovono tutti i testi, guidati in un invisibile filo comune dalla memoria, che non è una semplice memoria personale di luoghi (Venezia su tutti), eventi, persone, ma è una vera e propria memoria pensante che attraversa e fa riemergere immagine archetipiche sedimentate nel profondo. Il dialogo tra Orfeo ed Euridice, in cui lui parla nella prima poesia e lei risponde nella seconda, nella sua drammatica brevità, mostra il rapporto tragico tra canto, amore e morte. Come sottolinea De Molo nella sua nota di lettura, l’originalità del dialogo è data dalla risposta di Euridice. Ella sa, a differenza di Orfeo, che il canto non può salvare dalla morte, che essa è un limite invalicabile e che riattraversare il Lete non è dato ai mortali, ma invece può eternare l’oggetto del canto e dell’amore, proprio annullandolo come principium individuationis, attraverso una trasfigurazione che trasforma il corpo, la carne in parola. Una trasfigurazione che permette di riconoscere il niente che siamo per aprire la via al tentativo di eternarsi della poesia. Solo riconoscendo il nostro esser finiti possiamo aprirci all’eternità del canto, la resurrezione è soltanto, ma forse è già tanto, nelle parole e nella memoria, il portato classico ed etico del dettato di Michieli è in questa verità.

L’intera opera, come una partitura che riprende di volta in volta i temi e i leitmotiv del dettato poetico, è attraversata da una musicalità sommessa ma costante che, reggendosi sull’architrave endecasillabica, crea un melodioso andante che è il tessuto sonoro di tutte le composizioni, un sottofondo di armoniosa lira, per rifarci ancora una volta all’archetipo di Orfeo, che però alcune volte assume le note di un malinconico tango che dalle strade del ‘900 e della contemporaneità dialoga con la musica degli antichi e delle sfere celesti. La poesia è mèlos e dire, unione inscindibile, totalità che scaturisce dalla visione dall’immagine, per tradurre il titolo della poesia Das Bild. La poesia è un tradurre l’immagine, la visione in parola e in quanto immagine e parola essa si fa forma (Gestalt) e informa di sé l’intero dettato, come unione inscindibile di musica e senso, parola che suona e che dice e dà vita a un tutto che è maggiore della somma delle pari che lo compongono.

L’aspirazione del poeta è di scorgere, di aver visione del tutto che ci comprende, ma il vedere è anche e soprattutto un esser visti dalla forma e l’esser visti, scorti, frugati è un esser riconsegnati alla nostra finitudine, essere consegnati alla nostra fine costitutiva. Il tema della fine è strettamente connesso a quello di limite, il limite è ciò che ci definisce appunto, che separando dà forma, la sottrazione crea la forma in cui emerge un senso che ci ha preceduto e che ci sopravviverà, un macrocosmo a cui far corrispondere il microcosmo che l’io lirico è. Ma questo nesso nei versi di Michieli ha poco o nulla di rassicurante, la forma e l’immagine da cui scaturisce il senso del limite sono percepiti come problematici, come qualcosa che non è dato naturaliter ma che è una conquista. L’esser forma, nell’esistenza di ognuno di noi, può darsi non come pienezza ma come vuoto per l’io lirico che non sa chi è. Il pericolo insito nel vivere e nel dire è diventare una sagoma a cui non corrisponde niente e che mette in evidenza in maniera plastica il contrasto irrisolto dell’esistenza, come mostra perfettamente la poesia Sebastiano (A volte penso di essere un involucro/ cavo dove trova rifugio l’uomo/ che non sono ancora). Imparare a finire è una conquista esistenziale e morale, che spesso risulta irraggiungibile, bisogna attraversare il negativo che abita l’esistenza, l’inganno che ci vive, nella consapevolezza che nessuna sapienza è data una volta e per sempre (e non so mai quando è giusto finire).

In questa prospettiva il testo Epigramma assume un valore paradigmatico, sia per l’utilizzo di una forma classica, sia per il richiamo alla tradizione novecentesca con Montale citato in epigrafe, sia, soprattutto, perché la parola, in questa poesia, è presa direttamente dalle Muse che rispondono alla domanda del poeta, l’unica forse che i poeti hanno sempre posto: chiedere versi. La risposta delle Muse non è evasiva, le Muse inviano versi ma a determinate condizioni, loro presiedono all’ispirazione che unisce i poeti e gli dei, inviano parole sotto forma di versi canticchiati, come usava un tempo, i versi volano di bocca in bocca per giungere al poeta che deve saper porre ascolto, la parola poetica non si concede a chiunque ma solo a chi ne comprende il codice, la struttura che la rende quel che è, la forma: attento a non dimenticare/ che la rima chiude il tema iniziale. La poesia, in quanto forma e canto, chiede compiutezza, è un circolo che si chiude e in cui il poeta è un semplice punto della circonferenza. La poesia è dunque un ritorno all’origine di cui il canto del singolo poeta è solo un infinitesimo segmento, ma che aspira ad essere un punto decisivo e inaggirabile. Il ritorno all’origine, che ogni dire poetico è, mostra la propria originalità nel percorso, nel segmento di cammino che la singola voce poetica intraprende. Il tratto originale del percorso di Michieli si manifesta chiaramente nell’ultima poesia della raccolta, in cui il rapporto tra parola e vita viene sintetizzato nella figura dell’Ulisse dantesco che però si moltiplica nei tanti Ulisse quotidiani, anonimi alle prese con le loro personali odissee. Il senso dei versi danteschi subisce un rovesciamento epocale, la consapevolezza che non fummo e quindi del nostro dover essere oltre il mero dato dell’esistenza si trasforma nell’ineluttabilità di essere sempre più a brani su sfatte pareti alle prese con la sconfitta delle nostre esistenze, alle prese tragicamente con la nostra pesta dignità. La poesia è dunque non salvezza ma luce e consapevolezza estrema dell’unione drammatica dell’esistenza con le forze antiche che ci attraversano ed è il cercare di tenerle insieme, di dirle di chiuderle in forme che abbiano il sigillo dell’irripetibilità.

Francesco Filia

 

DUE RECENSIONI PER “STORIE” DI DAMIANO SINFONICO: GLI AUTORI SONO LUCA MINOLA E STEFANO IORI

Lascia un commento

Nuova immagine prototipo con prefatore

LOGO ARCOLAIO

“Storie” di Damiano Sinfonico.

DA  GOLDEN BLOG, un articolo scritto dal gestore LUCA MINOLA.

Le “Storie” di Damiano Sinfonico ci riguardano, riflettono il quotidiano di ognuno. Opera prima pubblicata da “L’arcolaio”, dell’editore Gianfranco Fabbri e introdotta dalla partecipe prefazione di Massimo Gezzi. Nell’introdurre il libro Gezzi, parla del “verso-frase” che compone le poesie di Sinfonico. Versi interi che costituiscono le fondamenta di un racconto continuo, che si dischiude in particelle di precisione, dove la memoria si rispecchia nelle inadeguatezze umane: “MI hai telefonato mentre pensavo a Costanza D’Altavilla./ Mi hai investito di parole che qualcuno era morto./ Nelle tue rare pause, facevo scivolare dei monosillabi nella corrente./ Capisci, non è stato per indifferenza o durezza di cuore./ Mi hai colto tra miniature medioevali./ Invischiato in faccende che non mi riguardavano”. Sfruttando una vena discorsiva fitta di candore,  Damiano Sinfonico marchia una quotidianità misurata e accessibile. Nulla in queste poesie sembra prendere il sopravvento, dalla vita può solo arrivare altra vita.  Nemmeno gli  episodi più gravi e toccanti o le singole sintesi di istanti sono vissuti come ricerca assoluta o ascesi. In queste poesie si respira la verità di un vivere sincero e comune. L’amore è toccato in attimi di semplice gioia e dolore, fra ritorni, abbandoni o il vivere ragionato di una colazione parigina. Questi versi costruiscono una realtà feconda di riferimenti e motivi. Il linguaggio sempre efficace e genuino distingue l’opera da assurde ricerche letterarie prive di fondamento. La scioltezza di Damiano Sinfonico impone l’amore come tema costante e unitario all’interno del libro, un sentimento che è anche un abbraccio di freddo e paura: “quanti abbracci freddi sulle tele/ ci dev’essere freddo dentro la cornice/ o la neve appena fuori/ lo sguardo si gela, le mani si fanno pure aguzze/ se ti abbraccio, non aver paura/ c’è freddo anche dentro l’amore”. Le inquadrature che Sinfonico impone si dissolvono nel tormento non dichiarato, taciuto nelle righe di un frammento mentre quello che ci assedia/circonda rimane in circolo, ascoltato e ripagato. I nostri gesti pubblici o privati rimangono, precisi e fermi come fissati, per essere raccontati e descritti: “Non distinguevi l’acciuga dal caffè./ Rispondevi ai telefoni pubblici quando squillavano./ Affrontavi la notte con una sciarpa e un ombrello rosso./ Toglievi la suoneria quando volevi piangere./ Nell’aria come vento ti sei dissolto”. La solitudine di Sinfonico è la solitudine di uno scrivere in versi costante e vero, che spazia e trascina la vita alle latitudini più accattivanti.

                                                                                                                              Luca Minola

da (prime)

 

 

 

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Storie di Damiano Sinfonico,

Casa editrice L’arcolaio 2015,

recensione di

DAL BLOG VERSANTE RIPIDO Stefano Iori:

istantanea-mente.

    

    

La poesia racconta Storie. Di città che si avvistano tra loro o che abbracciano chi viaggia (ripetuta catacresi, ché borghi o metropoli non hanno occhi né mani), di ripensamenti nella Parigi di Victor Hugo (una danza, una ballata? – quest’ultima parola mi riporta al titolo di una raccolta poetica di Hugo stesso: Odes et ballades, 1826), di congetture lasciate sospese e di sorprese, a Palazzo Spinola o nei sogni che potrebbero prendere vita in quella Zlotogrod ambìta ne La cripta dei cappuccini di Joseph Roth.

Spesso puntuale, alla prima o seconda riga, l’ambientazione, ovvero la definizione della scena: un ponte, l’acquario, un ospedale, Aquileia, Bratislava. Luoghi, oppure nomi che corrispondono a noccioli di pensiero, come quello di Cartesio, con le sue Meditazioni metafisiche. E se la scena si tratteggia in prima battuta, ecco che subito il racconto prende pieghe inattese che lasciano scivolare chi legge ben oltre lo spazio ipotizzabile in esordio.

In ogni componimento di Damiano Sinfonico c’è una sottile punta di stupore, come sovente accade in un racconto o in una novella. Penso soprattutto al “classico” finale delle prose brevi: chiuse che spiazzano, alludendo a rivoltamenti o accogliendo svelamento. Sono d’altro canto prose-poesie quelle del giovane autore. Della poesia c’è il segreto, della prosa l’intreccio, trama scarna e svelta, fatta di ricordi e sogni. Istantanee scattate dentro la mente.

Frequenti gli elementi del viaggio, come mappe o bussole, ma ci sono pure oggetti che collegano, che pongono in relazione. Telefoni e lettere, mezzi che si utilizzano quando si è lontani o quando si sceglie una comunicazione per propria natura distaccata (diplomatica). Anche la morte fa capolino: il viaggio estremo, l’ultimo per quel che ne sappiamo, il più grande. E poi quadri, altre scene dentro la scena principale, a delineare la possibilità di invenzioni a spirale che rendono superfluo il limite del rigo, inutile margine, peraltro, quando senza eccessivo sforzo di può andare oltre. E mi ricollego qui al secondo capoverso.

Che altro dire? Solo leggendo e rileggendo le poesie-Storie-viaggi traspare la risposta, fatta della non-materia immaginifica che il lettore libera in controcanto di verso in verso (di riga in riga). E dopo l’ennesimo confronto mi convinco che Sinfonico vuole viaggiare proprio con me, anche se non è chiara la meta. Naturalmente l’invito sarà rivolto a chiunque altro si imbatta in questa breve silloge. E allora lasciamoci trascinare. Andiamo con l’incoscienza di una postuma adolescenza. Alla ricerca, con passo spontaneo, della farfalla della perspicacia. Prontezza d’intuito, acutezza nell’intendere ciò che è velato. L’inconnu è d’altronde a portata di mano. Nella verità di ogni giorno vissuto con la grazia del pensiero.

Ripenso infine al primo componimento della raccolta. Proprio il primo, dove appare il nome di Costanza d’Altavilla, donna-ingranaggio della medievale macchina del potere che per tutta la vita reagì agli eventi storici piuttosto che governarli.

Chissà perché la Gran Costanza di dantesca memoria? Mi chiesi di primo acchito.
L’autore la nomina narrando di una telefonata: Mi hai telefonato mentre pensavo a Costanza d’Altavilla. / Mi hai investito di parole che qualcuno era morto. / Nelle tue rare pause, facevo scivolare dei monosillabi nella corrente. / Capisci, non è stato per indifferenza o durezza di cuore.
E poi la chiusa: Mi hai colto tra miniature medievali / Invischiato in faccende che non mi riguardavano.
Nessun coinvolgimento con le affascinanti icone di fine 1100, effetti da noncuranza alle parole dell’interlocutore (che pur dicevano di un evento grave), le postume scuse in poesia (anzi, solo la pretesa di auspicata comprensione) a chi parlava dall’altro capo del filo. E il fantasma di Costanza.
Trionfo del pensiero distratto (debole) proprio in avvio.

Un chiaro segnale. Un buon motivo per rileggere Vattimo e Rovatti.

 

STEFANO IORI

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

 

 

 

 

MATTEO VERONESI RECENSISCE “LA MATITA E IL MARE” L’ULTMO LIBRO DI LUCIANO BENINI SFORZA

Lascia un commento

lamatitaeilmare

LOGO ARCOLAIO

Gli archetipi del quotidiano. Per Luciano Benini Sforza

E IL SUO “LA MATITA E IL MARE”

Articolo di Matteo Veronesi

 

 

La matita e il mare, l’ultima raccolta poetica di Luciano Benini Sforza pubblicata da L’arcolaio nel 2016, evoca fin dal titolo alcuni di quelli che paiono essere i punti di riferimento dell’autore: Penna, con il suo “bianco taccuino sotto il sole”; Sbarbaro, con la sua immagine della sottile e labile “scia della nave” che divide “acqua da acqua”, così come ciò che fu per davvero si distingue appena da ciò che fu solo possibile o sognato; forse anche il “lapis” di Marino Moretti, per la poesia del piccolo e del quotidiano, che però, in questo caso, non è intinta di amara ironia o di svigorito grigiore, ma è, piuttosto, immersa in una sabiana o betocchiana luce di accettazione, quasi di sereno entusiasmo, di sapiente candore, in un vivo e cordiale calore di incontri, ricordi, attese.

E ci sono anche, nel libro, un rapporto, una tensione quasi luziani fra tempo ed eterno, divino ed umano, cielo e terra (usando queste parole, ancora così comuni e vive, nel senso dantesco di un viaggio che va dall’umano al divino, all’eterno dal tempo, di una parola alla quale “pongono mano cielo e terra”), alto e basso, poli che si toccano e si contaminano l’uno dell’altro, fin quasi a capovolgersi, con la purezza della luce e della neve che si macchia dell’oscurità della terra, e nel contempo cerca di diradarla e di redimerla.

“Il cielo scende sulla terra e la terra sporca ogni luce”. È come l’insistita “pura luce” di Dante e di Pasolini,  alla quale fanno velo la resistenza, l’opacità di ciò che è terreno e temporale – eppure, proprio per questo, umano e vitale.

Ma, insieme all’evidenza quasi diaristica dell’esperienza, del vissuto, insieme a questa “arte dell’incontro” in cui, dicevano Ungaretti e de Moraes, consiste in fondo la vita, c’è anche la consapevolezza della fugacità, del perpetuo sfumare, della nostra natura e del nostro destino di ombre labili, del montaliano svanire che è infine “la ventura delle venture”. Una consapevolezza che, però, non si fa grido tragico o sospiro elegiaco, ma, piuttosto (ed è forse questa la nota essenziale e più caratteristica del poeta), ulteriore accettazione, ulteriore abbraccio proteso alla pienezza del vivere.

I giorni possono apparire, come in una sorta di Ade in cui il tempo è eternamente confinato, con ossessiva ripetizione, “ombre senza senso, senza terra”. Eppure essi possono ancora allacciarsi in una catena protesa verso un’alterità più umana che metafisica – una perennità fatta carne.

Non a caso, i due penetranti scritti (di Gualtiero De Santi ed Emanuele Palli) che incorniciano la raccolta si richiamano, in modi diversi, ai Princìpi, alle Archái, ai grandi e profondi archetipi della natura e dell’essere – il mare “nuovo ad ogni istante” di Valéry, una “atmosfera presocratica” in cui “le pagine brillano di luce propria come neonati astri”.

I “punti fermi” a cui tornare, i pilastri che sorreggono il senso della vita, “affiorano dall’acqua o dal nulla, e sono isole e sponde in cui respiro”. Non si tratta tanto di epifanie repentine, enigmatiche e spesso irrisolte come quelle che popolano tanta letteratura del Novecento; ma, piuttosto, di emersioni e lampeggiamenti improvvisi che aprono spiragli sul sostrato ontologico, sul fondo esistenziale che sorregge i nostri percorsi e i nostri destini.

Siamo insomma di fronte ad un altro prezioso tassello del vasto e paziente mosaico, variegato e screziato come la vita, che il poeta va componendo da decenni.

 

 

Matteo Veronesi

ALESSANDRO MANTOVANI RECENSISCE “STORIE” DEL CONCITTADINO DAMIANO SINFONICO

Lascia un commento

Nuova immagine prototipo con prefatore

logo ARCOLAIO

Damiano Sinfonico, Storie, L’Arcolaio, Forlì 2015.

Articolo di ALESSANDRO MANTOVANI, APPARSO SU PERìGEION

La prima osservazione che un occhio poco allenato potrebbe muovere al libro di Damiano Sinfonico è quella di ricalcare qualche stanco modello neocrepuscolare, di inserirsi in quella scia da poesia di occasione riscontrabile nel tracciato milanese o nelle esperienze particolari di un Raboni o un Giudici. Eppure qualcos’altro chiama l’attenzione. In primo luogo una freschezza e un’apertura che rende queste Storie tutt’altro che crepuscolari, bensì luminose e accese, inoltre si riscontra una continuità che le rende più che quadri giustapposti, frammenti di un continuum verbale, parti dello stesso tessuto dialogico intrattenuto col lettore; infine ciò che discosta la poesia di Sinfonico da vecchi manierismi è la profonda diversità di contenuto. I suoi, infatti, non sono quadretti o occasioni banali, intenti a raccontare un quotidiano “medio” senza innalzamenti, ma tendono a ben altro aspet

to.

Brevi come illuminazioni, come lampi ricolmi di non-detto, le poesie di questo libro istituiscono una dialettica contrastiva tra le connotazioni di una dimensione quotidiana e il piano cartesiano assoluto di Storia e Tempo.

Dunque è qui la virtù dei testi: l’espediente della quotidianità non si riduce a mera narrazione delle res, ma serve a mostrare una dimensionalità a misura d’uomo che si scontra contro la distanza degli assoluti percepiti e vissuti, ma non afferrati e, sicuramente, difficilmente compresi, ecco perché «[…] Abbiamo ripetuto i gesti quotidiani. / Ci siamo raccontati cose senza importanza. / Abbiamo finto che tutto sarebbe rimasto uguale. […]». Il ritmo dei grandi flussi, pare dire Sinfonico, si struttura in un’infinità di microscopici cicli perennemente uguali di cui fanno parte la routine delle giornate, i gesti semplici di un saluto o di una telefonata. Sono però proprio questi piccoli movimenti sempre identici che in verità portano in sé stessi una diversità che si forma impercettibilmente, attimo dopo attimo, da cui si generano la Storia e i suoi cambiamenti.
Ma se in apparenza tutto è uguale, ciò è imputabile alla condizione dell’uomo, a questa sua eterna finitezza che lo condiziona, non solo nella necessità di formare idee e assoluti, ma anche nella cognizione del reale: non si può avere una reale percezione della lunghezza del tempo, dei movimenti generali che regolano il corso delle cose; si è solo spettatori specifici di quanto si è in grado di conoscere nell’arco circoscritto del proprio spazio e del tempo concesso.
Il moto immane dell’universo è concepibile dunque solo a pezzi, attraverso il lampo illuminatorio che, però, per essere individuato dal poeta e dall’uomo in generale ha bisogno di tradursi in linguaggio comprensibile, di adagiarsi e prendere forme accessibil

i, dunquedi farsi “cose”: «Ci tocca questa trafila di vetrine, di manichini spogliati. / Hanno strisce di plastica al posto degli occhi. / […] Il loro busto non conosce grasso e vecchiaia. […]».
E questo è proprio ciò che accade: il tentativo del poeta di mettere a fuoco gli specchi di assoluto che giacciono dietro i manufatti, le occasioni, i gesti, si traduce in una forma solida costituita dal verso-frase, tecnica che ricorda, come dice bene Massimo Gezzi nella prefazione, Fortini, se non ancor di più Bertold Brecht. Se la sentenziosità che ne deriva è però sfruttata dagli autori sopracitati per l’istituzione di un meccanismo oracolare che renda le loro poesie latrici di una voce quasi da vaticinio, tutta intenta ad enunciare la fede di un ideale più politico che antropologico, qui la penna di Sinfonico, arrivata al punto che chiude ogni verso – fa eccezione la seconda sezione (aperte) in cui mancano sia i punti che le maiuscole –, opera una pausa di osservazione, di concentrazione su quanto appena detto, non per imporlo verso un esterno in maniera oracolare, ché l’argomento nemmeno lo consentirebbe, ma per sintetizzarla all’interno della propria coscienza, per meditarvi. La riflessione sulle cose dunque trascende il dipinto di una poesia realista e, incentrandosi non solo sull’atomizzazione di loro stesse, ma anche su quella delle parole, la poesia di Storie crea un libro pieno di distanze le quali affidano all’occhio del poeta il compito di istituire dei legami, di tracciare delle rette tra i punti per formarne il disegno complessivo. Penso che valga la pena porre l’accento su queste distanze: Storie è un libro tutto fatto di lunghezze inarrivabili, rese manifeste in apertura alle quattro sezioni e concretizzate ora in una distanza fisica, coperta da una telefonata, ora in una lunghezza onirica percorribile solo attraverso il sogno. La distanza è scollamento e diversità tra il soggetto e il mondo da coprire in un moto volto a comprendere il reale e come la grande Storia sia generata da una successione di infiniti attimi particolari dei quali siamo tutti attori/fautori inconsapevoli, intrappolati dalla nostra visione limitata: «Fuggivano da Aquileia. / La laguna era a portata di mano. / Avrebbe scoraggiato qualunque invasore. / Fuggivano da Aquileia. / Fondavano le prime case riflesse nell’azzurro. / Avrebbero aggiunto merli e piazze. / Quei coloni incolti. / Quale bellezza stavano scoccando.»
Tutto ciò fornisce un’irrequietezza e una tensione al dettato poetico che, nonostante l’effetto un po’ contratto di alcuni versi che scorrerebbero meglio sciolti dai punti opprimenti, fa di Storie un libro di attenzione e riflessione sulla nostra condizione di mediocre finitezza, tradotta però non in un lamento disperato, ma raccontata attraverso una visione luminosa di aderenza alla propria natura in un moto di epica quotidiana a cui, dice la poesia, siamo chiamati a prendere parte.

 

ALESSANDRO MANTOVANI

RECENSIONE DI GIORGIO GALLI DELL’ULTIMO LIBRO DI MARTINA CAMPI, “LA SAGGEZZA DEI CORPI”. ARTICOLO IN PRIMA PUBBLICAZIONE SUL BLOG “LA LANTERNA DEL PESCATORE”.

Lascia un commento

lasaggezzadeicorpi

LOGO ARCOLAIO

Martina Campi: recensione di Giorgio Galli a “La saggezzo dei corpi”. Articolo pubblicato sul blog La lanterna del pescatore Esperimenti di scrittura.

 

Raramente si ha la percezione congiunta del valore di un’esperienza poetica e di quello della persona umana che ne è autrice. Di Martina Campi (che, con significativo lapsus, mi accade di chiamare Cristina Campo) sentiamo l’intensa figura umana dietro il dettato poetico. La saggezza dei corpi (L’arcolaio, 2015) non è una raccolta di poesie, ma un poemetto in sette parti corrispondenti ad altrettanti giorni di ricovero per una (forse grave) malattia. Con una rapida, vertiginosa concatenazione di immagini che ricorda il cinema futurista (vien da pensare a L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, 1929) siamo introdotti nella dispercezione e nello spaesamento della malattia. Quello che Martina Campi ci racconta è il modo in cui ogni parte del corpo, data per scontata nello stato di salute, assume un violento peso nello stato di malattia; ogni parte del corpo è a sé stante in quanto dolente. Come per Cioran, per Martina Campi il dolore individua. L’altro asse portante del poema è la perdita di signoria su se stessi. Noi abbiamo paura della morte in quanto estrema, irreversibile forma della perdita di signoria su noi stessi. Ma la morte è familiare alla poesia; non lo è altrettanto la malattia. Ditemi pure che esagero, ma solo in Thomas Bernhard ho trovato rappresentata la malattia con altrettanta forza che in Martina Campi.

Il nome di Thomas Bernhard si fa ancora più incalzante se pensiamo alla logica musicale che governa la sua prosa come la poesia della Campi, e alla violenza martellante che entrambi gli autori, ciascuno nel suo mondo, infliggono alla scrittura.

Eppure, l’orizzonte della Campi, quale le note al testo lo trasmettono, appare estraneo alla cultura “alta”, è fatto di prestiti da Jodorowski, Paolo Conte, Branduardi, da un sms ricevuto da un’amica. Perché? Intanto per la natura miscellanea del dire poetico della Campi, musicista e performer oltre che poetessa: un dire poetico proteso oltre la pagina, oltre la letteratura, verso il suono. Il suono della contemporaneità e del vivere comune. Non è per modestia o per provocazione che l’autrice sceglie un orizzonte culturale così insolito: è per bisogno etico di vivere e testimoniare il proprio tempo senza mediazioni, senza nobilitarlo. La saggezza dei corpi viene sbattuta sulla pagina con una fisicità che fallisce solo quando la poetessa si compiace troppo della sua tecnica di montaggio. Perché ci sono momenti deboli in questo poema: le conclusioni dei Giorni #3, #4 e #5 presentano un eccessivo allentamento della tensione, privo del senso di estenuazione che è intuibile nelle intenzioni dell’autrice; nella sequenza iniziale la suspence sul contesto di malattia e ricovero è mantenuta troppo a lungo e rende astratto ciò che, quando arriva, è fisico e concreto. Ma tutto è compensato da momenti di purissima poesia come questo

(Giorno #3)

le grida notturne sono voci
nella paura, sgraziate, nomi
invocati nomi dalle certezze aguzze
nel passato, giorni dell’amore che sostiene

quello che resta in gola di là dal buio
è la polvere avvizzita dei morti
è l’odore stantìo della malattia
dai materassi, più
le dita del mattino ai campanelli che s’inceppano
tutto concorre a sfasare la sensazione
mancata del tempo, per un nuovo ordine dei minuti
bianchi e bianchi, minuti che sono bianchi

o questo

(Giorno #4)

e così la notte sa di buio e neon,
rivela nei corridoi le voci più lontane
che somigliano a un silenzio addormentato
come le cose, o le case, cui sappiamo

essere appartenuti (e tutte le foglie insieme)
ma il quando invece, non lo sappiamo più
altri rovistano nelle loro borse socchiuse come
palpebre confidando essere l’aiuto

e questa, conveniamo, è forma
di una pace frenetica, impotente
dalle scale, dalle ringhiere, dalle sale
con l’aria condizionata che s’impone

l’aria condizionata è per chi viene e va, fuori
le trame sono nelle inclinazioni del letto
altitudini e lenzuola
fuori è fresco, ora

e la lepre s’accuccia tra (i) vasi,
sotto le finestre fino al primo,
impercettibile cambiamento di stato
che ci sarà il mattino, ancora, ancora, ancora

in un aprire, spostare, girar di braccia
all’unisono, freddo che si discioglie,
nel sangue, nelle cannucce, nelle vestaglie
all’avanzare rapido del caldo, sulle pareti

perché fuori è una terra straniera
fuori è tutta un’altra storia
e anche loro che arrivano, con l’amore
nelle borse, e le migliori intenzioni

dove la parentesi in la lepre s’accuccia tra (i) vasi rende visibile sia il chiudersi in se stesso dell’animale, sia la condizione protetta, estraniata del paziente dell’ospedale. Qui non c’è una parola di troppo, le iterazioni sono tutte necessarie. Così come, più avanti

so quello che sta per arrivare
è solo un altro giorno
è solo un altro giorno
è solo un altro dono

sono cieca che aspetto
e il mio numero è un 9
e il 9 sono io con una maglia azzurra

quando entrano tutti, a intendere
si mostrano per la faccia
e le scarpe li tradiscono
da sotto, mentre parlano tra loro

nei resti delle attese silenziose
depositati sul pavimento
non sapevo le parole, smarrite
tra mani casuali e bucce di mandarino

La mancanza di parole di fronte alla malattia, a quella perdita della signoria su noi stessi che confina con la morte, è così intrinseca alla cultura odierna che la Campi poteva solo adottarne le espressioni più lontane dalla tradizione letteraria: la canzone e il cinema. La lingua della poesia tradizionale è fin troppo addentro alla morte. Per esprimere in versi questo spaesamento nuovo, non si poteva che ricorrere a una lingua diversa, a un orizzonte estetico diverso.

I momenti più puri sono quelli in cui l’autrice ritesse con vigile abbandono le trame degli affetti più semplici, come nel Giorno #4

quando ci siamo rivisti
c’era molto caldo
e avevamo la raccolta
delle lacrime agli occhi

ci siamo seduti come attorno
a un tavolo da giardino
senza che ci fosse alcunché,
da appoggiare o da stendere

e ci siamo detti del tempo
e delle zanzare e tutti gli alttri insetti
volando mentre i vecchi guardavano
il telegiornale, poco più in là

nel tempo che occorreva
per saperci (di) tutto
coi minuti sfoltiti come siepi
precipitose…

[…]

avremmo forse voluto spalancare (preferendo)
le braccia, tra l’oggi
e il domani di carta carbone
raccontato, necessario, riverso

mescolarci forse alla pioggia
tradurci nella luce
avvicinarci
un poco, di più, almeno

concederci un’adeguata quantità
di sguardi amorevoli
disarmare gli elefanti
credere alle mani

avremmo forse preferito (davvero)
trattenere le armate
sconfinare sorrisi, a tavola
scambiarci il sale e il pane

tracciare scie di lenzuola
sul pavimento
come zattere che (ci) salvano
il mattino

e invece
da vicino
resistiamo
ad aspettarci

o nel Giorno #5, dove la poetessa “monta” frammenti d’infanzia e del presente ospedaliero per poi tratteggiare ritratti colmi di scontrosa pietas

amici miei, dove siete?
(abbracciatemi)
qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina
anzi si sbobina il buio che sta in basso e viene, su

il computer lo chiamavamo
bollettino dei morti
chi è morto oggi?
chiedeva la Gina

io e Maria ridevamo e rideva anche lei
scampate al sospetto
della bruta follia
scampate di brutto alle glaciazioni

e forse non lo sapete, che Maria ha un dolore
sommesso, piegato, sotto il cuscino
ogni mattina si alza presto
per cambiarsi da sola le lenzuola

poi quando arriva il mezzo giorno
saluta con garbo gli avventori
e, sbucciando una mela,
si distende sul letto, al contrario

è che all’improvviso, mi mancano tutti
poi, dalle serrature gentili
sopraggiunge una voce sottile:
è normale avere paura

La riappropriazione degli affetti, della propria e altrui fisicità, avviene gradatamente, ed è difficile: i simboli della malattia e della salute si mescolano, la nostalgia si mescola alla paura, nella vita sana come in quella malata esistono routine diverse altrettanto faticose: diverse e gravi monotonie. Finché nel Giorno #7 questo spaesamento si rinnova in nuova gioia, lunghi gerundi scandiscono il passaggio a una nuova esperienza del corpo, a una nuova esperienza di se stessa, per sfociare in un inno trattenuto e commosso

mentre parlavi
mi inondava un pianto verde
come se il cuore non fosse
più il mio

(io e tutte le mie paure)

ce ne torniamo a casa
con la commozione in sommossa
a fissare il panorama che scorre

tutti i piani per ricominciare
i passi della quadriglia
i dialoghi delle sceneggiature
i tappeti rovesciati all’in giù
l’orizzonte basso e lontanissimo
di tanti verdi
diversi che si toccano
e il vento caldo entra dai finestrini

il cuore in gola
l’ascia a deporre
immagini da uno spazio
che s’avvicina

e le domande
che ritornano
e si fanno silenzio
che ci unisce

e in tre ultimi, altissimi versi, che segnano l’accettazione della nuova incertezza da parte di una nuova Martina Campi

e tutto ritorna com’è
e tutto intorno s’aggira fino
ai prossimi giorni, ignoti

 

GIORGIO GALLI

NEVIO SPADONI RECENSISCE “TRA LE RADICI E L’ALTROVE”, L’ULTIMO LIBRO DI DANIELE SERAFINI

Lascia un commento

traleradicielaltrove-ultimissimo-prototipo

logo ARCOLAIO

Sulla poesia di  Daniele Serafini

Articolo scritto da Nevio Spadoni

In occasione dell’uscita dell’auto antologia “Tra le radici e l’altrove”

 

Ho inseguito la verità dellintelletto  nella curva veloce degli anni / e ancora non so / quale sia la lingua del cuore / ancora mi è ignota / la patria vera degli esuli. Questo è quanto scrive Daniele Serafini nella poesia Heimat, tratta da Tra le radici e laltrove, raccolta antologica con la sezione inedita Polvere di stelle, pubblicata dalla casa editrice Larcolaio. Vi sono vette che solo le ragioni del cuore sanno toccare, di fronte alle quali il rovello nevrotico della ragione si arrende. Ma la strada del cuore ha una sua lingua, è ardua da esplorare, e il poeta ne è consapevole.

Questa antologia racchiude una scelta fatta dall’autore, dalle opere precedenti: Paesaggio celtico (1993), Luce di confine ( 1994), Eterno chiama il mare (1997), Dopo lamore (2004), Quando eravamo re (2012). Volendo aggiungere un sottotitolo, proporrei Viaggio di un esule. A parlare è infatti un homo viator, che s’interroga sul possibile senso del suo e dell’altrui vagare, nella constatazione dell’inarrestabilità e fugacità del tempo che trascina con sé ogni bellezza, perché come si legge in Epigramma per Narciso, Così la tua beltà / si è spenta poco a poco / lontana da ogni perfezione / mesta in contemplazione / di un mito che permane / oltre la tua caduta. Il poeta sa che fondare l’esistenza assolutizzando la bellezza porterebbe ad un naufragio, lui, custode di una bellezza che viene da lontano, ed è impressa nella memoria che nonostante tutto resiste al logorio del tempo. Ne sono testimoni foto ormai ingiallite, come quella del padre aviatore a Campoformido, o di donne antiche con la fragranza di un fiore, che parlano di un tempo andato, eppure ancore vive nella loro fierezza; sono luoghi privilegiati del peregrinare senza sosta di un uomo dalle diverse patrie, che vive le incertezze, le passioni e gli smarrimenti  del suo essere qui e ora, dove Nulla ti devi negare / non la corsa avida del cuore, / LAltrove e lOltre, / la morte e nuove nascite,/ lardore delle rose / nellirrompere del sole.

La poesia di Serafini, pur rivolta  al presente, si muove sul filo dei ricordi, e in questo dolce, melanconico abbandono, affiorano in tutta la loro aristocratica imponenza le figure genitoriali, perché da lì ha avuto inizio il suo cammino, lì sono le radici, un già e non ancora.  Ma un rammarico lo coglie, ed è quello di non aver appreso la lingua friulana materna con “quella cadenza antica / di gesti e di parole, e vorrebbe fosse lalfabeto dei suoi giorni a venire, in quella lingua cantata da Pier Paolo Pasolini  con Poesie a Casarsa. Troviamo  nell’antologia di Serafini una carrellata di luoghi e di personaggi, e quel mare Adriatico con ardore di pineta, di resina e ansia di coralli, poi luoghi lontani e magici come Essaouria, con la sua Medina, roccaforte sull’Atlantico, città che a metà degli anni sessanta ospitò comunità hippy e artisti come Jimi Hendrix, Bob Marley, Sting, e dove Orson Welles girò parte del suo Otello. Ma questi luoghi impressi nella memoria del poeta sono anche luoghi di una sete d’amore, come leggiamo nei frammenti a due voci nella sezione da Dopo lamore del 2004, poi modificata nella sua successione. Ecco quindi Osservando segmenti di strade, ferrovie, fiumi, distendersi quali epifanie del cuore e della memoria: Rouen, Etretat, Honfleur, Deauville, Cabourg.  E una stanza all’Hotel Port Malo, Una stanza per stordire il desiderio La bottiglia di Chablis a metà. Tu che bevi il mio sguardo. Io che minarco nel tuo. Biancheria sparsa sul tappeto. Il mare che entra, in acuto di rose. Io che esco dalla tua vita. E il poeta sa, poiché scrive con la penna intinta nel sangue delle sue ferite, che l’amore chiama amore, ma anche che un amor saca a otro amor; è il gioco della vita, la tragedia della vita, gioco strambo del vento che va e viene, ci sei dentro ma non lo afferri, perché è mistero, è sempre un Altrove. Con questo volume, arricchito dai preziosi interventi di Davide Rondoni e di Angelo Andreotti, Daniele Serafini ci consegna un po’ le chiavi del suo cuore, scrigno di un poeta vero, dai versi intensi e raffinati

                                                                                                       Nevio Spadoni