

Gabriele Gabbia
Nella terra franata dei nomi
(L’arcolaio, 2011)
«Nel tuo vivere quotidiano
vi è un supplirsi a me estraneo –
un ignoto
contenersi – un vedersi
mai più in là di ciò che si ha
di ciò che si sa – un infinito
ridotto al corpo dell’osso.
Come scrive Mauro Germani nella prefazione al volume: «Gabriele Gabbia penetra nel frammento, nella sua voce scissa eppure ineluttabile, attraversata da profonde tensioni endogene. Il misterioso epicentro della “frana”, della forza tellurica che ci consegna questi testi, risiede in quell’altrove della scrittura che è all’origine di ogni scrittura, in quel baratro, in quell’abisso da cui cercano di risalire i versi nella loro indifesa, implacabile nudità».
I versi contratti di Gabbia sono la testimonianza di una parola dilaniata, ma precisa e presente, “un infinito / ridotto a corpo dell’osso”. Sulla pagina appare la cicatrice di una ferita, suturata da parole sospese in una malinconia irrimediabile, che il corsivo evidenzia come un tono più cupo della voce..
«La prima solitudine nell’auto
– vettura vuota – corpo –
vascello abbandonato. Seduto,
risucchiato nel sedile senza fondo, a fianco
dell’assenza di tuo padre. Fuori
la perdita della luce delle mani degli anni…
La perdita di tutto. Anche –
anche di questo,
ricordo».
La poesia di Gabbia è dominata da una fisicità spasmodica che non sembra trovare voce se non dentro una lingua a lacerti, rappresa, coagulata, che assomiglia ai resti di un discorso che non poteva essere terminato. Ogni frammento è un microcosmo stratificato, una voce che si semina in un’altra voce – l’uso del corsivo all’interno dei testi lo testimonia – ma è un dialogo/monologo tenuto ai bordi di un abisso. Come nota Giacomo Cerrai «[…] in questi testi le parole perdono la loro “vertigine” astratta per assumere il ruolo di pilastri, e il vuoto […] assume finalmente la realtà dell’assenza, ha in altre parole un senso esistenziale, la mancanza di chi se ne è andato, di chi è scomparso, di coloro con cui non è più possibile compiere l’ incompiuto».
«Vedo spalle nei tuoi passi
e la morte della mente
avvicinarsi – questa
cesura da te non consola
semmai ricama, dispiega
occulta, l’ordire dei giorni…»
Il dolore impone un obbligo al poeta: «Bisogna non dirsi, non / pronunciarsi, esimersi / per riceversi, /eludere il proprio enunciato, il / proprio interno / dettato – per cospargersi / e congiungersi / occorre disconoscersi»». La sua voce, inequivocabilmente tragica, tende sempre all’afasia: rende allarmante il già scarno tessuto sintattico; ci costringe a un punto di vista sospeso nel regno delle ombre: “La porta d’inizio è ciò / da cui fuga ogni fine”, in una piena identificazione con l’altrove della vita:
«Io sarò voi –
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me,
quando
solo, soffierò
lo sguardo,
da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me».
La terra franata dei nomi è un libro nichilista dove il legame tra le cose e la loro identità nominale non esiste più, dove «ogni cosa / è radice d’abisso». Ma i temi dell’abisso e del nulla, citatissimi dai poeti, qui ci inoltrano in una poesia così serrata e coerente che la sua brevitas commuove perché lotta contro l’aggressiva presenza dei morti, contro la loro eternità. Qui il poeta raggiunge una scarnificazione che ci chiude a doppia mandata nel suo mondo interiore, da cui potremo uscire se un qualche varco ce lo concede l’autore stesso, cercando un suo precario equilibrio umano e linguistico, pur non perdendo di vista l’abisso:
«Ho sempre guardato, guardato,
dal nulla da cui vedo
i corpi della soglia,
laddove sono rimasto
a fissarne
la fissità inquieta
d’un nulla».
Marco Ercolani