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BARBARA HERZOG A FORLI PER LA PRESENTAZIONE DEL SUO “SE NON NEL SILENZIO”

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Giovedì prossimo, 21 aprile 2016, Alle ore 18,30,

nei locali de IL COSMONAUTA,

Sito in  via Giorgio Regnoli 41  a Forlì,

sarà presentato il libro SE NON NEL SILENZIO

di BARBARA HERZOG

(Casa ed. L’Arcolaio, 2015).

 Interverranno l’Autrice e l’editore, Gian Franco Fabbri.

 

 

 

 

La cittadinanza è invitata

 

 

 

INGRESSO LIBERO

SEBASTIANO AGLIECO RECENSISCE IL LIBRO DI ESORDIO DI LUCA LANFREDI, “IL TEMPO CHE SI FORMA”

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SEBASTIANO AGLIECO SU “COMPITU RE VIVI

 

 Luca Lanfredi: Si è come gli alberi …

 

 

 “La vita adulta”… già. È la terza sezione del libro d’esordio di Luca Lanfredi; ché, in fondo, tutto si riduce a questo. Cosa conserva di noi, delle cose, del nostro sguardo di una volta, degli amori, degli incontri, degli incanti, degli scontri, il tempo che verrà? Sicuramente la presenza di un “tu”, un soggetto che, a un certo punto, perde tutti i nomi ma che tutti li raccoglie, riassumendoli.
Il tono del libro è dunque quello di una malinconia sottratta, trattenuta, persino censurata. Il dialogo è divenuto monologo mentale, i gesti concreti si sono bloccati, come nelle fotografie, hanno assunto contorni geometrici, come in certi quadri di Hopper, o in un genere di rappresentazione che ha origine in Piero della Francesca. Si percepisce, certo, tutto il movimento che c’è stato prima, ma ora è proprio questa vita adulta, questo imparare a vivere che ci impone una resa, uno strumentario per la sopravvivenza.
Luca Lanfredi, del resto, ci dice di cosa sia il nostro stare ora, asserragliati dalle angosce del quotidiano, coscienti dei pericoli di un’attesa vana che ci circonda, eppure, in fondo protetti dalle apparenze del quieto vivere, delle parole dolci del benessere.

Si è come gli alberi infilati,
questo sì. Sotto, l’asfalto
che diradica e indosso
le cortecce da sbalzare.
p. 15

Si veda l’enorme differenza:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.

Il compito del crescere, dell’imparare a vivere scavalcando l’enorme tempo dell’infanzia, è tutto contratto dentro questo asfalto cittadino, nel compito del cambiare pelle, dell’uscire da noi stessi senza farci male.
Nella condizione di una rottura dell’ordine temporale, invece, dello sconquassamento delle strutture, in un paesaggio dilaniato dalla furie, la nostra condizione rimane sospesa come le foglie d’autunno già morte sugli alberi che attendono la caduta.
Lanfredi, scrivendo, immagina il suo stile come lo strumento rigoroso per non cadere, il ramo a cui aggrapparsi per imparare a vivere. Per non soccombere alla vita. La scrittura, in questo senso, può insegnarci a osservare lo spiraglio di luce che inesorabilmente ci conduce da qualche parte, lasciandoci dentro un po’ di stupore e un po’ di malinconia per le cose – e per noi stessi – che non sono più.
                                                                                                                                                                                                                                                             Sebastiano Aglieco

NEVIO SPADONI RIFLETTE SUL LIBRO DI ROBERTO ZACCARIA, “CIELO DI METALLO”

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Venerdi, giorno 15 aprile, alle ore 21,00, presso la parrocchia SS. Simone e Giuda, a Ravenna, Nevio Spadoni presenterà “Cielo di metallo” di Roberto Zaccaria. Sarà presente l’Autore. Interverranno i musicisti Mirko Maltoni, Andrea Mercuriali e Vincenzo Messina che interpreteranno brani musicali.

 

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Nota di Nevio Spadoni su Cielo di metallo, di Roberto Zaccaria

 

L’arcolaio 2016

 

Seguendo il percorso poetico del giovane Roberto Zaccaria, ho avvertito in questo suo secondo lavoro – Cielo di metallo – Forlì, L’arcolaio 2016,  un apprezzabile salto di qualità. Ci troviamo infatti di fronte ad una poesia più prosciugata, senza enfasi e retorica, con immagini nitide, anche se il disincanto si nota in ogni battuta, e la visione del mondo è meno sognata, dettata da una realtà,  stravolta, contaminata. Il paesaggio, infatti, vero soggetto della sua riflessione, è sì il luogo esteriore, ma rimanda all’anima, anch’essa abbruttita e deturpata, che vive lo spaesamento e la confusione  del nostro tempo. Si patisce il nulla – si legge – e  infatti un sentire  nichlilistico  pervade l’intera opera, anche se il poeta, innamorato della bellezza, vorrebbe nuotare in un mare di luce e di speranza.  Lui infatti è un’anima appassionata, al di là di tutto,  nonostante quel senso di estraneità al mondo  che lo pervade, e quelle note dolenti che mi richiamano  tanto il giovane poeta di Gorizia Carlo Michelstaedter. Non a caso il libro, sapientemente introdotto da Antonella Jacoli, riporta frasi di Bertolt Brecht. “Davvero vivo in tempi bui! La parola innocente è stolta. Una fronte distesa vuol dire insensibilità. Chi ride, la notizia atroce non l’ha saputa ancora”. Ma nel caso del Nostro, la notizia non è atroce, ma appena dolente – come si diceva – fatta di disillusione, in una cornice di contemplativa melanconia. Questo cielo  ci è divenuto estraneo, e sotto questo cielo di metallo, camminano volti ormai anonimi, massificati, stritolati nella vertigine di un consumismo sfrenato e abbruttiti dalla svalutazione della vita, dell’umano, ingabbiati in una parola impoetica che non  rasserena e non salva. Da apprezzare la sensibilità di questo giovane, affacciato  sulla terrazza della vita, che urla il suo “abitare poetico”, il bisogno di nuotare contro corrente in una sfida, che crediamo autentica, e speriamo con esiti sempre più lusinghieri.

                                                                                                                                                                                                         Nevio Spadoni

MAURO GERMANI RECENSISCE IL LIBRO DI LUCA LANFREDI, “IL TEMPO CHE SI FORMA”

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Luca Lanfredi,

Il tempo che si forma,

Articolo scritto da Mauro Germani, tratto dal blog “Margo” dello stesso Germani.

(L’arcolaio 2015)

 

C’è una specie di sguardo distonico in questa raccolta poetica di Luca Lanfredi, qualcosa che sembra sottrarsi ad una percezione netta del mondo, di uno spazio delimitato e certo.

Lo slabbrato sentimento dell’istante” è qui assediato dal nulla che rende instabile o addirittura cancella di senso ciò che accade, come le frasi a metà che si possono cogliere tra i passanti.

E l’andamento dei versi pare proprio disegnare una linea che continuamente si spezza, seguire una voce che s’interrompe e poi riprende “il poco del discorso”, senza artifici, ma in una nudità disarmata. Perché ciò che sta al centro di questa silloge è il rapporto tra il tempo della realtà ed il tempo della parola, che è tensione imprescindibile per ogni scrittura autentica, per un dire che non voglia compiacersi, ma incarnare per quanto possibile il suo sforzo estremo.

Lanfredi è cosciente che davvero “troppe sono le ossa” e ciò che resta “è tutto qui”, in una stanza che “non si può dire vuota, ma piena / di niente”. C’è dunque una totalità indicibile che in qualche modo arresta la nostra pronuncia: “La mia lingua non è più / la tua; non è il mio / muscolo, non è il tuo / discorso. Qui, sono / i platani dei viali e non / il tutto al quale si appartiene / a pronunciare i nomi che / si attendono alla porta.”

Il tempo si forma con gli istanti dello sguardo, ma questi sono destinati a diventare altro nella parola, a restare in una pronuncia ferita e frammentata, dove il niente risuona (“Guardare è avere male alle parole”). Le tracce mnesiche affiorano in una parola che a sua volta è traccia d’altro, vita latente e precaria, fino a divenire talvolta gesto che stupisce tra luce ed ombra.

Ci sono in molte poesie istanti che tornano, come momenti avvolti quasi da una meraviglia disincantata o da una perplessità attonita, barlumi d’esistenza che sembrano non appartenere più o fermarsi per poco ad un confine, ad una periferia prossima alla dissoluzione.

La parola cerca il gesto del tempo come un destino a cui è chiamata, ma essa è nello scarto, forma il suo tempo, edifica la sua voce solitaria, come un “anagramma” che è arduo ricomporre. Ecco allora quella distanza che il poeta sa, quella frattura abitata dalla pagina, quel respiro straniero che pure è nostro, dove – come afferma Lanfredi –  le parole sono “distanti un’autobiografia”.

Il rapporto tra il tempo della realtà e quello della parola si configura allora come segnato da un’inquietudine, che è insieme tensione esistenziale e poetica, nella consapevolezza che “ci si perde poi /dentro la storia, in ogni inizio, nella camera / murata dove si cerca il nord come / nell’improvviso d’una città straniera”.

 

Mauro Germani

 

 

 

MARCO ERCOLANI RIFLETTE SU “LA TERRA FRANATA DEI NOMI” DI GABRIELE GABBIA

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Gabriele Gabbia

Nella terra franata dei nomi

(L’arcolaio, 2011)

 

 

«Nel tuo vivere quotidiano

vi è un supplirsi a me estraneo

un ignoto

contenersi – un vedersi

mai più in là di ciò che si ha

di ciò che si sa – un infinito

ridotto al corpo dell’osso.

 

Come scrive Mauro Germani nella prefazione al volume: «Gabriele Gabbia penetra nel frammento, nella sua voce scissa eppure ineluttabile, attraversata da profonde tensioni endogene. Il misterioso epicentro della “frana”, della forza tellurica che ci consegna questi testi, risiede in quell’altrove della scrittura che è all’origine di ogni scrittura, in quel baratro, in quell’abisso da cui cercano di risalire i versi nella loro indifesa, implacabile nudità».

I versi contratti di Gabbia sono la testimonianza di una parola dilaniata, ma precisa e presente, “un  infinito / ridotto a corpo dell’osso”. Sulla pagina appare la cicatrice di una ferita, suturata da parole sospese in una malinconia irrimediabile, che il corsivo evidenzia come un tono più cupo della voce..

 

«La prima solitudine nell’auto

– vettura vuota – corpo –

vascello abbandonato. Seduto,
risucchiato nel sedile senza fondo, a fianco
dell’assenza di tuo padre. Fuori
la perdita della luce delle mani degli anni…
La perdita di tutto. Anche –
anche di questo,
ricordo».

 

La poesia di Gabbia è dominata da una fisicità spasmodica che non sembra trovare voce se non dentro una lingua a lacerti, rappresa, coagulata, che assomiglia ai resti di un discorso che non poteva essere terminato. Ogni frammento è un microcosmo stratificato, una voce che si semina in un’altra voce – l’uso del corsivo all’interno dei testi lo testimonia – ma è un dialogo/monologo tenuto ai bordi di un abisso. Come nota Giacomo Cerrai «[…] in questi testi le parole perdono la loro “vertigine” astratta per assumere il ruolo di pilastri, e il vuoto […] assume finalmente la realtà dell’assenza, ha in altre parole un senso esistenziale, la mancanza di chi se ne è andato, di chi è scomparso, di coloro con cui non è più possibile compiere l’ incompiuto».

 

«Vedo spalle nei tuoi passi

e la morte della mente

avvicinarsi – questa

cesura da te non consola

semmai ricama, dispiega

occulta, l’ordire dei giorni…»

 

Il dolore impone un obbligo al poeta: «Bisogna non dirsi, non / pronunciarsi, esimersi / per riceversi, /eludere il proprio enunciato, il / proprio interno / dettato – per cospargersi / e congiungersi / occorre disconoscersi»». La sua voce, inequivocabilmente tragica, tende sempre all’afasia: rende allarmante il già scarno tessuto sintattico; ci costringe a un punto di vista sospeso nel regno delle ombre: “La porta d’inizio è ciò / da cui fuga ogni fine”,  in una piena identificazione con l’altrove della vita:

 

«Io sarò voi –
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me,
quando
solo, soffierò
lo sguardo,
da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me».

 

La terra franata dei nomi è un libro nichilista dove il legame tra le cose e la loro identità nominale non esiste più, dove «ogni cosa / è radice d’abisso». Ma i temi dell’abisso e del nulla, citatissimi dai poeti, qui ci inoltrano in una poesia così serrata e coerente che la sua brevitas commuove perché lotta contro l’aggressiva presenza dei morti, contro la loro eternità. Qui il poeta raggiunge una scarnificazione che ci chiude a doppia mandata nel suo mondo interiore, da cui potremo uscire se un qualche varco ce lo concede l’autore stesso, cercando un suo precario equilibrio umano e linguistico, pur non perdendo di vista l’abisso:

«Ho sempre guardato, guardato,

dal nulla da cui vedo

i corpi della soglia,

laddove sono rimasto

a fissarne

la fissità inquieta

d’un nulla».

 

 

Marco Ercolani

DIEGO BERTELLI PARLA DI “STORIE” DEL NOSTRO DAMIANO SINFONICO

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DIEGO BERTELLI, SULLA RIVISTA “POESIA” DI APRILE 2016, RECENSISCE “STORIE” DEL NOSTRO DAMIANO SINFONICO.

 

 

Quando si ha bisogno di dire qualcosa in prima persona, spesso si finisce per usare la lingua modellandola su uno stesso calibro espressivo. Poche parole, frasi spezzate, una tendenza costante alla paratassi. Nel suo libro d’esordio, dal titolo Storie, Damiano Sinfonico usa il verso in questo modo: come una necessità, e al pari di una spiegazione. Succede allora che il discorso pronunciato si concluda presto, nello spazio breve che prendono soggetto, verbo e complemento. Anche per questa ragione il verso-frase, cui l’autore si affida quasi del tutto, si fa strumento comunicativo prima ancora che medium dello stile. Sinfonico ne utilizza la struttura con pochissime eccezioni, in tre delle quattro sezioni del libro. Ma nella sua ripetizione insistita, tale, composta misura riesce ad affrancarsi dalla monotonia che le appartiene. Storie arriva così a dar corpo a una serie di situazioni, oggetti, luoghi e persone che da  tempo richiedevano un confronto; e sembra che Sinfonico pensi, in certi punti, ad alta voce, o che parli, in altri punti, con qualcuno: “Mi hai telefonato mentre pensavo a Costanza D’Altavilla. / Mi hai investito di parole che qualcuno era morto. / Nelle tue rare pause, facevo scivolare dei monosillabi nella corrente. / Capisci, non è stato per indifferenza o per durezza di cuore. / Mi hai colto tra miniature medievali. / Invischiato in faccende che non mi riguardavano”. Con questo tono e anche con una certa tendenza, o gusto, per gli elenchi, Sinfonico procede; e all’incedere tassonomico si uniformano via via i giudizi di fatto e quelli di valore. Si può senz’altro dire che in virtù del verso-frase, l’impressione che ne viene, come scrive Gezzi, è quella “di un’inquietudine feconda che anima tanto la forma quanto il contenuto”. Perché Sinfonico mischia le cose che fa con le cose che pensa, le cose leggere e le cose pesanti, legate come sono alla parola pensiero: “Che festa, le Meditazioni metafisiche di Cartesio. / Stesi sul letto ci interrogavamo sul corpo. / ‘Non poteva darsi che mai io ne fossi separato’. / Poi ho pensato che non vorrei separarmi dal tuo. / Così starei meglio, sarebbe più leggero reggere il peso dell’aria”. Questa modalità della scrittura, lineare e allineata, equilibrata ma di fatto ostinata, in cui la quantità della  riflessione coincide con lunghezza del verso,  non è l’unica presente in Storie. Nella sezione Aperte, esiste anche una voce in apparenza meno strutturata: non sempre del tutto priva di interpunzione, ma quasi; sempre completamente priva di maiuscole, tranne i toponimi nominati. Eppure la forma che la contiene ha in certi punti (almeno in quattro dei cinque testi che compongono la sezione) qualcosa di assimilabile al limerick, che sembra sia utilizzato qui a supporto dei giri a vuoto di cui si informa spesso il pensiero. L’effetto di questi versi in particolare non è quello sorprendente del nonsenso, né comico è il loro risultato. Il riferimento a un luogo (Bratislava, Zlotogrod) o a un termine comune (il piede, l’abbraccio), che ritorna in principio e in chiusura, e la lunghezza pressoché identica della forma (Sinfonico aggiunge uno o due versi alla tradizionale sequenza di cinque) portano nella loro reiterata casualità a constatazioni e a  situazioni “aperte” perché insufficienti, tanto all’autore quanto al lettore: “ne sono passati di mondi sotto l’acqua / a Bratislava le case hanno angoli graziosi / la sua pelle è di scaglie colorate, cangianti / fluisce la storia feroce e accigliata / sto fermo, in questo arcipelago di rovine / a Bratislava, più che altrove”. In Storie, proprio perché si raccontano “storie” e per il modo in cui lo si fa, non esistono che conclusioni singole. Sinfonico sceglie dunque un finale che sostenga diverse situazioni, inaspettati spostamenti o, banalmente, altre posizioni. Se lo spazio compie la sua parte come premessa, è al tempo che si affida una speranza, almeno nella forma di un conteggio, di una progressione: “Il trasloco sta finendo. / I quadri, le bottiglie, i portasciugamani / . tutto ha trovato una collocazione. / Resta poco da fare. / Aspettare insieme il  domani. / La luce filtrata dagli alberi. / Questa casa si apre agli anni futuri. / Arriveranno uno a uno. / Li conteremo insieme, luminosi e meno. / In te c’è un altro secolo di vita”.

 

 

Damiano Sinfonico, Storie, pref. di Massimo Gezzi, L’Arcolaio, Forlì, 2015, pp. 52, euro 10.

 

DAMIANO SINFONICO ART SU POESIA