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LUCA CENACCHI RECENSISCE “LA VITA NON E’ UNA FOSSA COMUNE” DI GASSID MOHAMMED

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La vita non è una fossa comune

L’esperienza tra Iraq e Italia

nel libro di Gassid Mohammed

di Luca Cenacchi · Pubblicato su POESIA DEL NOSTRO TEMPO,

febbraio 18, 2018 · Aggiornato febbraio 15, 2018

 

È da qualche numero che su L’Espresso escono articoli – è certamente il caso del bell’articolo di Orsina ‘Quando nacque il rancore’ – che cercano di fare il punto della situazione del vuoto prodotto dal consumo, sull’onda di alcuni assunti di quella sociologia che ha teorizzato l’individualismo narcisistico come l’evoluzione coerente del singolo all’interno della società di massa, una volta venute a mancare le ideologie. Questa lettura pare rispecchiare l’attuale contemporaneità tanto sociale quanto poetica. Anche la poesia, soprattutto la lirica, o meglio quella lirica che molti che affermano di scrivere, si rivela ammorbata da questa minaccia. Come ho accennato in un articolo uscito su Argo, a proposito di uno scrittore del mezzogiorno, l’individualismo autobiografico viene sostenuto da un apparato visibile che punta alla spettacolarizzazione fine a se stessa di certi prodotti lirici all’interno di quella piccola nicchia che è la poesia: vuota di lettori, ma piena di scrittori. I concorsi, i festival, gli apparentemente innocui circoli di lettura nei bar di provincia: queste nicchie nascono spesso, ma non sempre, da un sodalizio tra istituzione comunale e casa editrice, oppure banca e case editrici, oppure una commistione dei due tipi. Il vuoto poetico altro non è che una forma di vuoto culturale.  Quello che ci ha rimesso e ci sta rimettendo è proprio la poesia, che sta venendo gradualmente svuotata a partire dagli stilemi che hanno fatto grande una generazione, con la quale una generazione si è fatta grande riuscendo a pervenire a una contiguità tra cronaca personale e realtà, conferendo così ai fatti autobiografici una profondità interpretativa, razionalizzante, insomma di pensiero attraverso cui generazioni successive potevano leggere e comprendere quel periodo così lucidamente esposto: primariamente Giudici e Sereni sono i più bersagliati dallo svuotamento culturale, ma non si possono certo dimenticare i grandi apporti, in questo senso, di Bertolucci e Luzi.
Ora invece ci si riempie la bocca con il nome di questi autori, ma i loro supposti adepti, nati dal 70 in poi, tendono a svuotare quel modello non tanto riparando in fatti personali, ma rinunciando a rifletterci sopra veramente, rinunciando a leggerli con l’ambizione di razionalizzarli, di razionalizzare un momento storico e sociale buio, conferire una chiave di lettura, facendoli divenire dunque solo immagini piatte cristallizzate non più vitali e rappresentative come quelle dei maestri. L’autobiografismo, il quale spesso tra l’altro sconfina nel moralismo generazionale di bassa lega, che ha rinunciato di offrire chiavi di lettura ripresenta quel problema, in realtà mai svanito, solo dimenticato, del distacco tra cronaca e storia. La cattiva scrittura e lo stile cattivo, anzi peggio, viziato, non può dunque che essere la logica conseguenza della pigrizia intellettuale dove quello che conta non è l’artigianato della parola, che si basa sempre su una variatio meditata, ma quello del consolidamento dello schema, della sua riproduzione.
In questo desolato ambiente la casa editrice Arcolaio pubblica La vita non è una fossa comune di Gassid Mohammed, che si rivela un passo nella giusta direzione: un lavoro vitale nella sua commistione culturale. In questo libro si cerca di conservare e di esporre una reale connessione tra individuo e forme letterarie che si rivelano in rapporto dialogico: gli stilemi arabi leggono quelli italiani, quelli italiani leggono quelli arabi.

Una raccolta divisa fra Iraq ed Italia la quale raccoglie la sfida di amalgamare tradizioni e stili letterari diversi. Lo scheletro retorico predominante nella maggior parte dei componimenti è epiforo-anaforica, che costituisce uno dei lasciti più vistosi della poesia mediorientale, ma se la lingua araba attraverso la flessione poteva modificare il significato di ogni parola in modo diretto, mantenendo la stessa radice, Mohammed rappresenta questa concatenazione metamorfica in una catena continua di epifore o anafore. L’effetto è quello di progressione ritmica fondata sulla sintassi, che consente al verso di dilatarsi . La poesia di Mohammed ha una forte componente narrativa.
le immagini delineate, specialmente attraverso l’uso serrato di metafore e similitudini nella sezione un cadavere mi raccontò (poesia per l’Iraq), le descrizioni risultano simili ad arabeschi: l’avvicendamento di una serie di particolari cuciti sul tessuto geometrico della progressione retorico-sintattica. Dunque ripetizione e variazione da una parte, metafora e similitudini dall’altra costituiscono gran parte della compagine su cui si sviluppano le descrizione dell’autore il quale si impegna, in gran parte del libro, a mostrare ora gli scenari della guerra in Iraq , ora a delineare la Bologna vissuta dagli occhi di uno studente arabo-italiano assieme altrettanti personaggi nel quadro asfittico della città.
Se lungo tutta la raccolta è presente una dimensione filosofica, è solo nelle fasi conclusive del libro che la speculzione su temi capitali si fa centrale. In alcune poesie, precipuamente liriche, come sono fragile, sono magro, sono nullità si potrebbe azzardare il legame con certa postura crepuscolare italiana, come del resto dimostra l’inedito qui riportato.  A questo si aggiunge, similmente a certa poesia contemporanea di area araba, come vengano utilizzate simbologie di tipo religioso in senso ironico. Parallelamente alle meditazioni sulla morte, il nulla emerge come carattere costitutivo del consumismo. Questo viene declinato talvolta come solitudine dell’individuo nella città che pare essere un altro tema fondamentalmente sotteso a gran parte della raccolta. Il nulla viene contrapposto dialetticamente all’insistenza di un noi declinato comunitariamente il quale cerca di rimarginare la lacerazione dell’individualismo. Un noi estremo che spinge il singolo fino al sacrificio riportando per questo in gioco un tipo di eroismo ormai, dall’Italia, dimenticato come si legge nel poema pg 39-40. Non credo tuttavia che quella di Mohamed possa dirsi poesia propriamente civile, né una poesia di contestazione, poiché tende più che altro a configurarsi come testimonianza: l’azione del pensiero che descrive la propria contemporaneità con ironica distanza. È infatti come testimone della bellezza, quanto delle atrocità e insensatezze del presente che Mohamed vede la più genuina azione del poeta, giustificata tanto a livello tematico quanto a livello stilistico dall’architettura di tutta la raccolta.
Delineata per sommi capi la raccolta vorrei concludere con una chiosa comparatistica al fine di illuminare, a livello stilistico, alcuni passaggi: cercare di mostrare come Mohammed innesta nella propria poesia topos della tradizione classica, partendo dal corano: bacino figurale cui la letteratura araba da sempre attinge. Difatti il libro sacro è la fonte principale tanto della poesia conservatrice, quanto della poesia reazionaria utilizza le sue forti immagini in maniera ironica. Nei paesi di lingua araba, oltretutto, non hanno mai avuto una cesura netta con la tradizione, che si è sempre vista centro di costanti riattualizzazioni anche in modo stringente, quasi manieristico, come è il caso dei muhāfizūn tra la fine del 800 e gli inizi del 900, o per la poesia iranica Diwan al-Rusafi che pubblicò un canzoniere completato nel 1931, oppure in modo più libero come nel caso di Halil Mutran che cercava appunto un compresso alla soglia del 900 tra le nuove forme d’espressione e la poesia araba antica.
Da queste breve informazioni ritengo si possa sostenere che i poeti e gli scrittori di lingua araba, al di là di ogni partito, sentivano la necessità di confrontarsi con i grandi stili del passato. Così anche Mohammed conserva all’interno dei suoi versi figuratività tradizionale che vengono innestati insieme a temi e luoghi del 900 soprattutto italiano.
Vorrei riprendere dunque in considerazione tre poesie La morte del poeta e Quanta acqua scorre per le strade?  In generale nella raccolta troviamo disseminati elementi che riconducono alla tradizione: oltre la struttura anaforica si ripresenta anche la tensione plastica figurale propria della lirica araba sin dalla poesia pre-silamica.  Il pimo componimento è una delle quali chiamerei cortesi dove l’autore declina autonomamente il topos dell’amore lontano,della contiguità di amore con la sofferenza e dello schiavo d’amore. Nonostante le metafore naturali pervadano classicamente il testo, in questo genere di componimenti la morte si rivela un elemento altrettanto fondamentale e ineliminabile, che fa emergere un onnipresente pessimismo di fondo. Questo è il caso del componimento la morte del poeta dove un esprit plastico entra in contrasto dialettico con la celebre formula di Pavese verrà la morte e avrà i tuoi occhi, che si rivela primaria fonte italiana per la compagine linguistico-narrativa. Elemento di questa poesia è l’enfasi che l’autore mette sugli occhi . il destino dell’amata è espresso dalla figuratività che trapela dallo sguardo e in questa particolarità Mohammed dialoga su morte e nulla tanto con Pavese quanto vuole riproporre in una nuova chiave alcuni elementi tradizionali come l’interpretazione del tema dello schiavo d’amore, il tema dell’amore lontano e, ovviamente, il legame topico della letteratura araba tra amore e sofferenza.
La donna Destinata comunque alla morte viene letificata. La sura LV Al-rahman si rivela centrale per dimostrare come anche le immagini di Mohammed non si sottraggano ad attingere da questo grande bacino figurativo. Difatti l’autore ,dell’amata, riporta un singolare accostamento “labbra di corallo” che si rivela citazione diretta delle fanciulle paradisiache all’interno della sura, versetto 56-58: “vi saranno quelle dagli sguardi casti, mai toccate da uomini e da demoni / saranno simili a rubino e cristallo”. Attraverso un esercizio della memoria l’autore fa trapelare dallo sguardo gli elementi paradisiaci tipici del giardino arabo. La midons di Mohammed dunque rivela essere al centro di una dimensione edenica in cui la donna è un assoluto, una visione immanente riassunta nell’intensità del qui e dell’ora, che dimostra l’attaccamento irriducibile alla vita, altro modalità contestativa nella poesia, se vogliamo: perché nel Corano gli eversori e I miscredenti sono I più attaccati alla vita.
Altro elemento figurale tratto dal libro sacro potrebbe essere quello della poesia successiva. Se nella Sura della Giovenca ricorrenti sono le immagini, specialmente nei versetti riguardanti Mosè, dell’acqua e, più precisamente, dei rivoli che sgorgano dalla pietra anche in questa poesia Mohammed attua la sua variatio comprendendo topos nell’immaginario liquido delle persone che scorrono nelle strade.
Da queste brevi incursioni sul testo si nota l’originalità della prova di questa poeta che attraverso la variazione riesce a rinvigorire forme tradizionali facendo perno su temi largamente invalsi nel novecento italiano ed europeo pervenendo così a uno stile vitale e vibrante, dimostrando così elegantemente come sia possibile ancora avere un rapporto col passato che non sia puro impeto archeologico.

 

Quanta acqua scorre per le strade?
eppure erano gocce di pioggia,
gocce che scendevano solitaria
una ad una,
come noi umani
scorriamo per le strade
uno ad uno,
eppure non abbiamo mai imparato
l’arte della pioggia.

*

Un cadavere mi raccontò:
ho visto e ho sentito tanto
ho visto il tempo sciogliersi in un momento di silenzio
e il silenzio estendersi fino a ingoiare il luogo
e la vita stringersi fino a diventare un lampo
poi si sono susseguite veloci le immagini:
tuono, tempesta, fumo e fiamme
in un momento che vale tutta la vita
intenso d’immagini
il tempo si è dileguato… solo il momento silente è rimasto
pochi istanti prima di immergermi nel buio
buio senza inizio né fine.

ho visto e ho sentito tanto
mi disse il cadavere
ho visto un corpo frantumarsi come il vetro
e ho sentito i frantumi scagliarsi contro la parete
ho visto la lingua della morte,soltanto la sua lingua,
lambire il viso di una bambina
e ho sentito il gemito della bambina
prima di sciogliersi, come una caramella, sulla lingua della morte
e ho visto i denti delle fiamme azzannare le cosce d’una giovane
e ho sentito il grido della giovane
prima di trasformarsi in una statua di carbone
ho visto pezzi di vetro volare lentamente
piantarsi nel petto d’un giovane che non ebbe il tempo di stupirsi
e ho sentito il tonfo dei pezzi mentre si conficcavano sul suo petto
ho visto una grossa scheggia avanzare lenta
verso una donna che teneva in braccio un bambino
l’ho Vista prendere con sé la testa della donna
lasciando solo il corpo che continuava ad abbracciare forte il bambino
e ho sentito lo scagliarsi della grossa scheggia
e della testa della donna contro il muro
ho visto il corpo senza testa crollare insieme al bambino
e il bambino aprire la bocca con soli tre denti
e ho sentito il tonfo del corpo della donna sulla terra
ma non ho sentito il grido del bambino
nulla ho sentito dopo ciò
e nulla ho visto
c’era soltanto il buio.
Nient’altro che buio.

*

Inedito

Sono un filo sottile
seguo il mio cammino
intrecciato da molti cammini
di fili sottili
figli d’una natura severa

Sono un filo sottile
di quella ragnatela
che svolazza al vento
che a stento resiste
sgretolata, minacciata
quasi consumata

Sono un filo sottile
sarei uno sputo al vento
caduto chissà dove
se non fosse per gli altri fili
che sorreggono il mio cammino

Allora tu, pagliaccio delle mille facce
che saltelli su quella ragnatela
sgretolata, minacciata quasi consumata
guardati dal romperla
perché sotto
ti aspetta il vuoto

 

Scrittore poeta e traduttore iracheno, Gassid Mohammed nasce a Babilonia nel 1981; dopo la laurea quadriennale a Baghdad continua gli studi a Bologna. Nel 2011 conclude la magistrale in Italianistica per poi conseguire il dottorato nel 2015. Svolge le sue attività letterarie e culturali a Bologna e in altre città italiane, facendo parte di diversi gruppi. Attualmente vive a Bologna ed è docente di lingua araba all’Università di Bologna e all’università di Macerata. Suoi testi sono apparsi su diverse riviste cartacee e online. Tra le sue traduzioni: dall’italiano all’arabo ha tradotto: il Corsaro Nero di Emiglio Salgari (Al Mutawassit), la Bella Estate di Cesare Pavese (Al Mutawassit), City di Alessandro Baricco (Al Mutawassit) e Senilità di Italo Svevo (Waraq). Dall’arabo all’italiano ha tradotto: Le istruzioni sono all’interno di Ashraf Fayad (Terra d’Ulivi).

 

VINCENZO D’ALESSIO RECENSISCE “L’ORIGINE” DI MIMMO CIPRIANO

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PUBBLICATA SU FARAPOESIA

 

recensione di Vincenzo D’Alessio

 

Torna ad affacciarsi agli occhi dei lettori la poesia di Domenico Cipriano nella raccolta: L’origine, pubblicata dalle edizioni L’arcolaio di Forlimpopoli (FC) nel novembre dell’anno appena trascorso. Dei viaggi intrapresi dall’autore, alla scoperta delle realtà del nostro pianeta, quello più lungo è questo all’origine dell’acqua della vita.
Un’acqua antichissima, paleoantropologica, cercata nelle orme che la prima donna ha lasciato nelle pomici della gola di Olduvai in Tanzania, nelle radici dei luoghi dove il poeta viene messo al mondo, nel latte materno della moglie che cresce sua figlia.
L’origine, e la vita stessa, è acqua che fluisce: Panta rei  della vicina scuola eleatica che pervade il nostro DNA da duemilacinquecento anni. Fluisce e non ritorna se non nella sete infinita di conoscenza che alimenta la poetica di Cipriano: “Io sono / tutte le terre che ho visitato / anche se da una sola / ho preso vita” (pag. 15).
L’origine di ognuno di noi e la fine della singola esistenza, assumono un valore infinito se calati nella collettività, nelle tracce indissolubili dei luoghi visitati, nei ritmi cronotipi che accedono al vocabolario della nostra esistenza e si confrontano con l’acume del passato: “(…) L’istante / dove spunta l’inizio dei pensieri / la nascita”( pag. 23).
La raccolta poetica che Cipriano ha realizzato in una semplice plaquette è densamente popolata dalla memoria della propria terra d’origine, dalle icone raccolte lungo i viaggi, dall’incondizionata sete di raggiungere un pensiero filosofico che permetta alla sua creatività di varcare la soglia delle mura che la contengono per raggiungere il ché dell’esistenza: “(…) oltre la memoria conosciuta / dove un’origine smarrita ci appartiene / tra steppe e ghiacci siderali, gusci di conchiglie consumate / e l’innegabile perizia di resistere” (pag. 21).
Si coglie l’apertura del diaframma che separa la sicura sponda del vissuto e la continuità del viaggio verso l’ignoto: “(…) Un dettaglio marginale – sepolto e inaccessibile – che compensa l’angoscia / la distanza sconfinata dalle stelle” (pag. 23).
Il vissuto è nei luoghi dove è stata messa al mondo l’anima del poeta, la sua sete di purezza, l’incandescenza della memoria che soverchia la fragilità della parola: “La memoria è un cuscino ardente / su cui non si riposa il corpo” (pag. 35) – “(…) È un tratto semantico / che dice il paese e ti riposi / passando lo sguardo dalla sedia / alle persone / alla loro processione / di ritorno / frammentata e fedele, invogliata dal senso del dovere” (pag. 39).
Ineffabile la presentazione che Cipriano dà dei luoghi natali, delle sofferte stagioni, dello spopolamento subito nel corso dei secoli, come raccontano le voci dei nostri grandi poeti meridiani che ci hanno preceduto: Alfonso Gatto, Rocco Scotellaro, Leonardo Sinisgalli, Pasquale Martiniello per citarne solo alcuni.
Mimesi come fonte ideale della realtà e forza propulsiva del rinnovamento della “parola poetica” : l’autore intende affrontare in questo ritorno all’origine della sua poetica la possibilità della nascita di una produzione impersonale più vicina alla realtà della Natura: “(…) Un’ultima occasione / per avvinghiarci alla bellezza. Un risarcimento / al sentimento di sentirci vivi. La speranza di riavere dalla vita / l’ultima sostanza” (pag. 44).
I versi si muovono al ritmo sereno raggiunto con l’ausilio della Musica: l’enjambement ricama la solidità dell’ordito. L’assonanza interna spinge alla melodia dei suoni. La rima si affaccia a ricordarci l’ispirazione che vivifica il passaggio dalla mente alla voce. L’imperativo emerge a indagare con se stessi la strada da seguire, che non è per tutti.
Il poeta è voce del creato, delle sue creature, della sua nascita, meraviglie che si rinnovano ne: “ (…) il silenzio, il respiro / affannoso d’inverno, / (…) i pochi nei volti sinceri / che non chiedono / altro in cambio, né / dicono, eppure sanno” (pag. 51).

 

VINCENZO D’ALESSIO

ALESSANDRA TREVISAN RECENSISCE “DIRE” DI FABIO MICHIELI NEL DECENNALE DELLA PRIMA USCITA DELL’OPERA

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ALESSANDRA TREVISAN SU CHARTA SPORCA

Recensisce “DIRE” di FABIO MICHIELI

 

È un anniversario quello che Dire, raccolta poetica di Fabio Michieli edita dall’Arcolaio nel 2008, festeggerà quest’anno: dieci anni di senso, manifestati con l’attitudine di chi pondera il proprio “mostrare” a piccole dosi. Le “gocce” che l’autore regala (con fotografie di Anna Toscano) trovano ragione nell’etimologia del verbo consapevolmente posto come titolo; non “imposto” ma pensato, scelto nella sua più alta e, allo stesso tempo, umile efficacia.

Va subito riportata all’attenzione di chi legge la nota di Francesco Filia apparsa sul lit-blog “Poetarum Silva” ad inizio 2017, in cui si menziona una nuova e più ampia edizione del volume, con una scansione di testi che toccano il legame con il paterno. In attesa di ciò che verrà, rileggere Dire nella forma originaria apre ad alcune considerazioni inedite che desiderano coniugarsi alle precedenti, esposte da più critici tra cui Augusto De Molo nella postfazione al libricino. Spingersi un passo più in là della soglia, ricercando alcune suggestioni in autori della tradizione italiana del Novecento da cui Michieli possa aver attinto con giudizio, è forse un atto non di schietta ricerca dell’intertestualità, ma di esplorazione dei possibili dialoghi con modelli che culturalmente abbiano segnato il procedere poetico autoriale intridendone l’intenzione. Non a caso la direzione che dai maestri si svincola nella conoscenza di una propria, cesellata, limpidezza com’è già quella del titolo è sottolineata ancora in Filia.

Nella sua nota Alessandro Canzian, nel 2014, scriveva: “Qui si trova una profondità che non emerge, che non viene sbattuta in faccia, ma che anzi chiede di essere guardata con gentilezza, attraverso una fessura delicata, da non aprire con rudezza.” C’è allora da interrogarsi sul mancato “affioramento”, sulla necessità di trattenere che una poesia come questa suggerisce e che, proprio in quella tensione, fa vivere la forma-sostanza di cui è fatta. Ciò avviene sin dal testo posto in apertura:

volevo un libro chiaro per noi due:

una pagina bianca quasi pura

È nel segno della luce che questa poesia si inaugura, una luce che si diffonde, a livello lessicale, per ben tre volte nel trittico “chiaro-bianca-pura”; il manufatto del “libro” indica invece il potenziale custode di tutto ciò che seguirà, in una proemiale poesia che ‘giustifica’ i testi a seguire – in questi termini: il proemio più trenta.

Dal secondo testo (o primo dei trenta) si entrerebbe in quello che già da Filia si è rivelato essere il “quadrilatero vita, parola, amore e morte che fonda il libro di Michieli”, i cui testi guardano nella direzione di numerose parole chiave: tra essere “ombra” (“e allora ombra sarai per quello sguardo/ che cercherà di scolpirti nel vuoto/ e svelare l’inganno che mi vive”) e “silenzio” (“mi interroga il silenzio sceso come una nube/ a cingermi e salvarmi dall’intorno vociante”) presenti secondo movimenti di andate e ritorni mentre il “corpo” compendia la visione di ciò che è poetabile, dandogli carne (“mi fosse dato stringermi per poco/ o corrodermi quanto basta/ a spezzare quei nodi che mi tengono/ unito al corpo”).

I legami (dichiarati) con il mito di Orfeo e Euridice, quelli con la città di Venezia  – in controluce, quelli con la lingua della tradizione e con la forma epigrammatica che conduce il lettore dall’inizio alla fine, sono evidenti e attestati dalla critica. Vi sarebbero, tuttavia, almeno due punti di giunzione con quelli che sono i modelli di Michieli, che amplificherebbero la “Dimensione della parola” già indicata da Davide Zizza nel 2012 sempre su “Poetarum Silva”.

In primo luogo, una “presenza penniana” in incipit o all’interno dei versi, a illuminare il debito – inconscio? – dell’autore con il perugino. Si leggano, ad esempio, le poesie che seguono, in cui quanto affermato a proposito delle parole chiave è pregnante (corsivo mio):

così non ho diritto alle illusioni!

Non solo neghi il corpo alle mani
ma gli occhi al cuore al vivo desiderio
neghi l’anima, sì che mi domando
se poni mai sull’ago d’una gelida
bilancia – dove stridono dolori
e gioie – le incertezze che ti rodono?

sui vuoti piatti no: restino liberi!
si mettano al servizio d’altre noie –
ma su quell’ago – l’unico tuo giudice –
appendi mai la sola tua coscienza?

***

al tempo bisognava dare tempo
e nient’altro che tempo – quasi fosse
lì tutto il suo mistero – desiderio –
quasi fosse lì il tutto già mistero:

ma l’ape che mi ronza sopra il capo
non sa che il polline sul corpo proprio

Se la dimensione della luce è, secondo Cesare Garboli, tra i più grandi critici di Sandro Penna, caratteristica primaria della sua poesia, qui avvertiamo anche, nella chiusa dell’ultimo distico, una eco introdotta da quel “ma”. A suo modo, Michieli richiamerebbe, oltre che Penna, anche Giovanni Raboni, in particolare nell’incipit di quest’altra poesia:

no: non ora o non più o forse un domani
tardo a seguire l’oggi che si svincola:

ora è inutile credersi diversi
quando tutto soggiace ad un’intesa
voluta da altri – e noi a guardarli inermi
[…]

Se il tema della diversità è penniano per eccellenza (“Felice chi è diverso/ essendo egli diverso./ Ma guai a chi è diverso/ essendo egli comune”), l’attacco porterebbe a credere che la segnalazione del tempo, con quel “forse”, possa rimandare al poeta milanese che tanto ci abituò alla “precisa imprecisione” (sempre tematica) a inizio di testo.

In secondo luogo, trovo plausibile tornare su un aspetto di contesto che avrebbe sempre a che fare con la dimensione mitica, ma che si propone in diversi punti della raccolta di Michieli attestando quella che definirei una “traslocazione lessicale”, un passaggio obbligato fuori dal mito: è il “sogno” antipsicanalitico e puramente letterario che leggiamo nella seconda poesia:

cova in sé la paura il nome mio:

leggero basta l’alito della sera per spegnere
il coraggio di tendere la mano
e premere il sigillo che schiude l’oltre a un sogno
nel punto dove tutto si tramuta.

Forse è d’azzardo tirare di nuovo in ballo un giovane Garboli che, negli anni Cinquanta, a proposito della poesia di Giorgio Bassani, parlava in questi termini: “non è possibile distinguere il sentimento della realtà dal sentimento particolare onde sono investiti il concetto e la natura della poesia” (in Brevi anni Cinquanta ora in La gioia della partita, Adelphi, 2016). Di lì a breve, il critico livornese avrebbe citato Mario Luzi come il poeta italiano che “più consapevolmente di tutti ha intuito la figura del poeta moderno”; lo fa con i versi che seguono (in Poesia e decadenza): “Mi trovo qui a quest’età che sai/ né giovane né vecchio, attendo, guardo/ questa vicissitudine sospesa;/ non so più quel che volli o mi fu imposto…”

Possibile che il filo del legame tra Michieli e Luzi sia sottilissimo (ma Luzi è stato un autore di riferimento, con cui il veneziano ha avuto uno scambio epistolare), anche se la ‘scure’ del destino imposto dall’esterno vibra almeno in uno dei testi di Michieli sinora citati. Viene da chiedersi, allora, come definire lo stile del nostro nella poesia contemporanea. Agli autori coevi Garboli imputava lo status di continui “decadenti”. Michieli, a mio avviso, convergerebbe sia alla misura culturale lasciataci da Bassani sia alla modernità antidecadente che il suddetto critico auspicava, in una formula tuttavia aggiornata all’oggi, in cui il residuo vivo del passato è carico di un ‘dire’ capace di esporsi nel futuro.

 

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