POST DI AGOSTO 2006
BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.28



SI ACCETTANO PRENOTAZIONI PER PARTECIPARE ALLA SECONDA EDIZIONE DELLE NOSTRE BACHECHE, RASSEGNA CHE PRENDERA’ IL VIA IL PRIMO FEBBRAIO DUEMILASETTE. OCCORRE INVIARE ALL’INDIRIZZO nestore2269@yahoo.it UNA FOTO (PRIMO PIANO), DIECI TESTI INEDITI SOGGETTI A CERNITA E UNA NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA. GRAZIE PER L’ATTENZIONE. GIANFRANCO FABBRI
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L’aria da dolce adolescente che Danni Antonello ci mostra in questa foto non deve trarre in inganno. Le poesie spedite a “La costruzione del verso” smentiscono la morbidezza dello sguardo e dei tratti ; smentiscono quelle prime impressioni perché la scrittura è, dietro la facciata, sede di un’energia disposta a sovvertire tutte le regole “ortodosse” del fare il testo innocuo. I pezzi di Antonello rifiutano la concavità concettuale e si presentano irti come spilli sottili, pronti a conficcarsi nella pelle del lettore. Il procedere è tutto un continuo, quieto e beffardo corsivo, il quale, come già detto, si cela dietro un andamento ipodinamico, ricco tra l’altro di numerosi infiniti (vedi la seconda poesia) che danno al pentagramma due opposti poli di tensione che colpiscono il bersaglio. E Dio solo sa quanto bisogno ci sia oggi di opere che sappiano “indignare”, in giorni in cui il politicamente corretto pare avanzare come un cancro invasivo e veloce.
SEI POESIE
Era l’adolescenza dell’indecise clessidre;
io trovavo i suoi cardini vuoti di qualunque porta.
Di fronte all’entrata senza custode
passare fu più difficile:
l’ordine buio dentro la stanza
spaventava quanto un invito.
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Non sapere, potere, genuflessi
ma come privi delle ginocchia
i santi continuano ad implorare
l’incendio da una candela,
arde il marmo sull’altare
chiama a tremare la terra:
la fiammella si vela
terra non trema.
Non sapere, dimenticare,
cera e scintilla, il non detto
piacere di darsi a bruciare.
una volta prostrati non seppero più alzare il capo
Primuli si perda o si consumi
quel fil di scheletro, è poco,
lo tiene in piedi.
Tremoli t’inganni ha chiodi
nel costato ruggine
dentro le vene, soltanto sue
e avide.
Primula mattina
all’alba sciogli la treccia
ogni promessa rovina
è comunque tua.
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Tra le gambe di una tzigana vecchia e gelosa
ha nascosto il prezioso che dà fastidio,
nel fango il luccichio che va inseguendo:
l’acrobazia finale, l’accecamento.
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Sediovuole il giorno dopo
il mondo che abbiamo visto
libererà gli schiavi dalle fatiche
e le caviglie dai giorni ciechi
saprà sediovuole il mondo librarsi solo
senza l’ira dall’occhio chiuso
l’aperta viltà la fatica sempre
si laveranno le ombre salate
dell’unto del ferro alle caviglie
o resterai sempre sagoma cieca
all’aspro sale sediononvuole?
**
Dove, se rapace spiumato non sa
posare le ali, ha perso la via di casa
e rifiuta di farsi guidare, dove, se il nido
disfatto risorge solo nel sonno
e le notti arse d’amianto oscurano
quel che è già oscuro,
dove se
l’oracolo ha mani e lingua mozzate,
il sangue promette ma secca invano
lungo i fossi e le vive radici di Getsemani,
la corda è poca (il ferro spuntato)
e i nervi folli sempre più duri.
Danni Antonello è nato a Cittadella (PD) nel 1978. Vive tra Venezia e
Macerata. E’ incluso nell’antologia “Oltre il tempo” curata da Gian Ruggero Manzoni. Non ha inviato nessuna ulteriore notizia di sé.
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BACHECHE DI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.27



La poesia di Sabrina Foschini sembra, in questi inediti inviati a “La costruzione del verso”, risolversi in incoraggiamenti detti a viva voce affinché l’alter ego del lettore ne tragga ispirazione di vita. Un esempio chiaro è il primo testo riprodotto in questa sede: al secondo verso, Sabrina dichiara che: “ …Dobbiamo fare in fretta ad avere paura, // altrimenti i dubbi faranno fuoco // sui nostri bambini. // …” ; un altro caso che bene spiega quello che tento di farmi chiaro è all’interno del secondo testo, in cui si possono isolare molteplici rilevamenti di diverse condizioni umane e no: “ Non aggiunge calma alla notte // non chiude in due il giorno // come un libro sgusciato. // …” ; “ … non cresce, non alita // non ingravida il tempo // questa speranza che sbatte // ad ogni dito alzato // …”. Una poesia, quindi, di tipo esortativo, che vede in sé una valenza terapeutica di sicura efficacia. Poesia egocentrica, ma resa con grazia e nient’affatto aggressiva. “Impara quello che sei che hai. // Impara a tenerti // con la mano aperta // a scansare i sostegni // a cadere entro il tuo solo nome … // “. Nelle scansioni intime del messaggio veicolano frammenti fonetici di duttile musicalità; come a dimostrare che la “didattica” può risultare un soffio all’orecchio. Un consiglio fatto di panna e rivestito d’imperio.
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Si piega il giorno dentro la scatola.
Dobbiamo fare in fretta ad avere paura,
altrimenti i dubbi faranno fuoco
sui nostri bambini.
È un compito di simmetria questo pensiero
che non ti perdona e che non maledico.
È una nave abbandonata dai topi
una pagnotta intrecciata d’alloro,
un rosario di girasole
un otre di venti, di Pandora.
Un compito glorioso
per la mia frusta divisa da marinaio
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Non aggiunge calma alla notte
non chiude in due il giorno
come un libro sgusciato.
Non pianta ali nella schiena
non infradicia il capo
con l’imposizione di un nome
non rabbuia le mani
nel tenere altri versi.
Non cresce, non alita
non ingravida il tempo
questa speranza che sbatte
ad ogni dito alzato
e che non si sa
sperare da sola
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Impara che sei quello che hai.
Impara a tenerti
con la mano aperta
a scansare i sostegni
a cadere dentro al tuo solo nome
e che le altre acque di battesimo
non ne daranno nuovi.
Impara a perdonarti
perché ciò che è fatto, è nato
in un rotolo più grande
tua è la pergamena, altro l’impasto
e non lo chiami Dio.
Impara che ad amare
non si viene amati sempre
ma che bisogna farlo
perché questa differenza sola
ricresce gli anni
li fa sposare
figliare tra loro, un futuro.
Impara che puoi lavare
la polvere che diventiamo
con parole brillanti, gonfie di succo
e che la sete è di tutti
ma le tue bocche fanno
la sete ed il bicchiere.
Imparati a memoria come una poesia gloriosa
detta in piedi sulla sedia…
Applausi liberati
per il tremare delle tue caviglie.
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Le storie dette non hanno padrone.
Le parole viaggiano sulla nostra vita
e qualche volta lasciano la chiglia
nell’incrocio di un osso.
Si smusano contro
l’evidenza di un corpo
che non rimane.
Scafi appuntiti come frecce
imbarcano sangue al posto dell’acqua,
gettano pesi nelle vene
per sgravarsi del carico.
Crescono come balene arenate
che vengono nutrite dai villeggianti
o si seccano per la concia del sole
e l’abitudine delle mani
ad aggirare le rotte cieche.
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Sabrina Foschini nata a Rimini nel 1968. Vive a Bologna. Diplomata all’Accademia di Belle Arti nel 1990; da allora ha esposto le sue opere come artista visiva in numerose gallerie pubbliche e private in Italia, Francia, Inghilterra, Germania e Senegal. Parallelamente svolge un’attività in campo letterario intervenendo con articoli critici e recensioni in catalogo di artisti contemporanei. Collabora stabilmente con il mensile Arte/Mondadori e con altre riviste sia artistiche, che letterarie. È redattrice di graphie. Un suo testo di viaggio “Africa Unite” è stato tradotto e pubblicato in quattro lingue dalla rivista internazionale (on line) El-ghibli. Nel 2001 ha pubblicato la plaquette “Andare per il sottile ” per i tipi de I quaderni del Battello Ebbro (Porretta). Per Raffaelli Editore, (Rimini) sono usciti nel 2002, la raccolta “Il paragone col mare” ed il poemetto “Inno del corpo ricostruito ”. Nel 2002 ha scritto e illustrato il libretto per bambini “Nove gatti”per le Edizioni Medusa di Milano e nel 2003 ha pubblicato con lo stesso editore il libro di racconti “Due mani di colore” scritto insieme a Paola Turroni. È in corso di pubblicazione sempre per Raffaelli Editore, la sua nuova raccolta intitolata “Ragioni della sete” e nell’autunno 2006 un nuovo libro di filastrocche per Medusa. Come performer ha ideato e messo in scena diverse rappresentazioni poetiche sia indipendenti, sia in coppia a P. Turroni come: Cinque dita/ Ibrido/Pescatrice/Nodo/Foglie d’acqua/Cerchio di passi/ Del corpo.
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BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O EMERGENTI N.26



Daniele de Angelis è un giovane poeta di Ascoli Piceno che ci propone oggi alcuni suoi testi inediti tratti da “Diario di periferia di Olindo Cervi”, una raccolta che sa penetrare in modo efficace nel tessuto sociale di una città di provincia, dandoci così, di una tale realtà, le passioni più riposte. De Angelis scrive di una violenza quieta (o quietamente scritta) ed analizza alcuni personaggi umani con un sentimento, sì duro, ma pure denso di una precisa nota d’affetto, oltre che di un vero e proprio affettuoso orgoglio. Le poesie di questo giovanissimo autore sono caratterizzate da un dettato piano, di piacevole lettura, che sa, all’occorrenza, mostrare anche il nerbo della crudeltà. Una valenza positiva, a mio avviso, è il netto coinvolgimento del lettore nel vortice situazionale; un turbine che, attraverso i micro eventi scelti per illustrare la gloria e la miseria di un mondo quasi invisibile all’occhio delle grandi realtà metropolitane, sa risultare affascinante e immerso in un impianto narrativo robusto e al contempo labile. E’ il bello degli “opposti”; il fascino che scaturisce dalla fusione tra lo stile e la tematica.
Da “Diario di periferia di Olindo Cervi”
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Al primo caldo tardivo di primavera
già il corpo il freddo d’inverno
se l’è scordato, per abitudine
stagionale, al nuovo tempo adattato.
Sul balcone spazzo la terra caduta
dalle fioriere alopece;
come uno scudiscio il vento stecca
in faccia ai palazzi, sul pelo del cane.
Il quartiere s’allunga e si spezza
si mostra a frammenti
i vecchi e i bambini nei parchi
ritagli di pelle, spesse ringhiere.
La pedonale dai palazzi come serpe
biforcuta, striscia fino all’ospedale;
davanti alla fioraia i fiori in vista
i tossici prendono il sole, aspettando il metadone.
Il campetto è solo terra, le porte
senza rete, come sculture minimali
si gioca lo stesso facciamo le squadre
di corsa, che poi si fa tardi, si fa pranzo.
**
-…l’ho visto steso lì,
con le braccia gettate, piegate attorno al water
come ad afferrare
la gamba di un gigante, oppure una boa…
…e quella maglietta e quei jeans
contro le mattonelle lucide, più chiare
dei capelli…e poi
quella vena ‘ngrossata
che sicuro l’hanno ammazzato, che lui al massimo
la spacciava…l’età di mio fratello ci aveva…-
e s’è fermata;
io, non ho risposto nulla.
Poi, al supermercato facevo la spesa
e dalle parole che ricordavo
tiravo fuori quella scena, come a comporre una foto,
fino a vedere una nuca bionda
senza faccia
(il volto
un particolare mancante
**
Il rumore del motore
era un basso continuo e costante,
una monodica litania
che muoveva il bus in un respiro saturo
di guarnizioni rescallate e poltrone
dalle stoffe acriliche e strinate.
Nello sporgermi avanti
camuffavo lo sguardo nel paesaggio
sintetico del finestrino
(il verde chiaro e acceso dei bordi della valle,
il verde scuro come un’ombra, delle montagne,
il cielo, un celeste così liscio
da non possedere sfumature,
e al centro della pianura il rigo grigio delle fabbriche;
eccede soltanto la bava bianca
delle ciminiere a cancellare i crinali).
I passeggeri eravamo pochi;
davanti, sulla sinistra
vedevo le teste magre di due
nell’infittirsi di un discorso
smozzicato; e stavo attento a ogni rimasuglio
di -ende-, -shc-, -drav-
a ridisegnare una geografia
personale, dai confini indecisi,
coordinate falsate; un’antropologia
intuitiva, paesana.
I capelli di lei come disseccati
da sabbia o fiamma improvvisa
e dal profilo un dosso
piccolo e duro sul naso, le sopracciglia
a condensare un pensiero irrisolto,
un’ossessione caduta nell’occhio.
E’ una scossa e l’occhio inizia a vibrare
come distaccato dal volto,
la pupilla opaca è un pozzo micidiale,
molle catrame che il bus sprofonda.
Poi un’altra istantanea, e le teste stavano addossate
nel sonno, sottili, come carte da gioco.
**
I tossicomani di mezzo giorno,
che fanno capannello sotto al porticato
attorno all’unico col cellulare in mano,
assomigliano a brokers
negli scatti slegati delle braccia e delle gambe,
nel nervosismo delle teste, nelle facce
annerite di botto,
e nell’arricciarsi degli occhi
quando, alla risposta del tipo giusto,
bisbigliano un segreto affare già svelato,
palese a chiunque stia affacciato
su questa mattinata,
che in sussulti e semafori scorre
nel vento trasportato dagli ingorghi.
E anche se i vicini, con una memoria
replicata, mi delucidano
sulla storia ultima del sotto casa
– …che fino a pochi anni fa
da ‘ste parti non ci stava
nemmeno uno spacciatore,
nemmeno una siringa lanciata in mezzo all’erba… –
la mia attenzione è tutta rivolata alla macchina
di uno di loro, parcheggiata un poco storta,
con la lamiera ammaccata, arrugginita
dove la vernice s’è scocchiata,
coperta da una polvere di lavaggi sorpassati,
quasi dissaldata, come se una droga uguale
si fosse ‘nfelata lungo tubi,
carburatore, pistoni;
una marmitta asfittica
che sputa fumo per non scoppiare.
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Daniele De Angelis è nato ad Ascoli Piceno nel 1981. Frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia. Nel 2001 ha fondato assieme ad alcuni amici l’associazione culturale “Biblioteca di Babele” e la relativa rivista. Nel 2004 insieme a Davide Nota ha fondato il foglio quadrimestrale di poesia e realtà “La Gru” (www.lagru.splinder.com). Sue poesie sono apparse nell’antologia “L’arcano fascino dell’amore tradito, tributo a Dario Belleza” (Perrone Editore) e nella rivista “Ciminiera”, oltre che su vari siti internet.
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ESTIVA – I RISVOLTI DI COPERTINA 2



Si è abituati a dire: “si stava meglio quando si stava peggio” per significare che del passato riteniamo essenzialmente i fattori positivi. Certamente questo detto è talvolta valido, come pare di evincere dal pezzo di “autocritica” che qui sotto vado postando. Si tratta di un risvolto di copertina superbo e semplice, scritto da Leonardo Sinisgalli per il suo libro “Il passero e il lebbroso”. Un micro saggio chiarissimo sull’officina personale del grande poeta italiano. Le abbondanze della gioventù anticipano le parsimonie coatte dell’età matura, come per trasmettere ai posteri una sorta di “avvertimento” dal quale parta la riflessione sui meccanismi che provocano quel meraviglioso “incidente” che è la scrittura del verso. E’ possibile oggi poter leggere una simile, leggerissima ed elegante testimonianza del proprio fare poetico? Mi auguro di sì, per il bene che voglio alla poesia del nostro benedetto presente.
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LEONARDO SINISGALLI – “IL PASSERO E IL LEBBROSO” – ARNOLDO MONDADORI – I POETI DELLO SPECCHIO – 1^ EDIZ. 1970
“M’ero abituato a scrivere una poesia in un lampo, quindici minuti, la durata canonica fissata dagli impressionisti per dipingere un paesaggio. E non è che facessi soltanto descrizioni, sia pure di tipo trascendentale. Mi veniva facile scrivere un libro in una settimana e poi dimenticarmene. In una diecina di giorni furono scritte le 18 poesie, a distanza di un paio di anni e in poche settimane i “Campi Elisi”; l’ultimo exploit è stato quello di “Cineraccio” negli ultimi mesi del 1959. Precipitazione o emorragia? Con la pazienza e lo studio non sarei riuscito a cavare un ragno da un buco. Ammiravo io stesso alcuni grandi maestri, Monsignor Della Casa che aveva speso tutto un inverno per scrivere un solo bellissimo sonetto invernale. Paul Valéry che aveva impiegato diversi anni per limare le unghie della Jeune Parque. Non ho preso sul serio la critica fondata sulle varianti. Anche i miracoli delle piccole correzioni eseguite da Leopardi sui suoi manoscritti non mi hanno persuaso: non solo ci vedo un abisso tra gl’infiniti e gli interinati spazi, tra il rammenti e rimembri dell’invocazione a Silvia. Io dovevo lavorare come un maniscalco, contentarmi di pochi precisi colpi di martello. Ogni partita una scommessa. Chi avesse la voglia di guardare nelle mie scartoffie troverebbe oggi che il coupe de foudre è fuori dalla mia strategia, la poesia non mi viene più incontro. Devo andarmela a cercare come si va per funghi. Prima o poi non la troverò. Ma non sfonderò gli specchi né l’aspetterò in sogno vaneggiando. Non mi bastano i quindici minuti, mi ci vogliono anni per mettere insieme una “povera” poesiola. Avrò trenta versioni dei più semplici componimenti raccolti in quest’ultimo libro, il cui titolo (uno dei tanti titoli cancellati di questo libro) doveva essere a un certo momento “Oleografie”. Non è il tempo, trascorso a scrivere a tavolino quello che conta, contano i sopralluoghi, i vagabondaggi, i giri a vuoto interminabili. Queste poesie mi sono costate care. Mentre i versi giovanili, quelli che passavano per incomprensibili, mi venivano di getto. E’ stata un’incubazione faticosa: sei o sette anni. Non so se c’è un periodo di gravidanza più lungo in qualche pianeta più lento e pesante della Terra. Non sono partito da una parola, da un accadimento improvviso o remoto. Per ricomporre o per disseppellire uno per uno gli elementi del quadro o del dramma, o soltanto per allineare le cose che giacevano a diversa distanza e a diversa profondità, c’è voluto un complicato lavoro. Non si tratta di scoprire un brusìo, un colore, un incanto ma di inventare una macchinetta, un’equazione di fatti e di oggetti, come fanno i poeti epici e tragici, diversamente dai lirici puri. Si è accettata l’impurità come un ingrediente necessario al sistema espressivo e si è accolta la verosimiglianza ch’era stata accantonata per paura della fotografia. Si tratta di piccole strutture insaccate, resistenti e flessibili. Credo che “Les cheurcheuses de poux” siano staticamente sicure nei secoli quanto lo sono “Hérodiade” e gli “Inni sacri” “.
(L.S.)
Provo a scrivere anch’io il mio nome
sul marmo. Le serve e i soldati
hanno i loro nomi intrecciati
con la punta di un chiodo.
M’imbratto di quest’acqua ammuffita,
calpesto gli occhi dei dormienti.
C’è il capino eretto su un esile collo
di uccello: è la testa di un bambino
di 7 anni Felicetto Casciani.
Ci sono vescovi, nobildonne, ragazzi,
le cortigiane dietro sontuosi epitaffi.
Anche estranei i morti ci aiutano a vivere.
Vuote dimore, spazi alti semibui.
Ti puoi sedere senza bisogno di pregare.
Mi sono messo inginocchiato
su un gradino e sto per essere scalciato
da un cavallo che sbuca dalla parete.
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ESTIVA – I RISVOLTI DI COPERTINA N.1



Per me è sempre stato interessante andare a ripescare in biblioteca i vecchi libri di poesia dei nostri poeti del Novecento per cogliere da essi gli scritti stampati sui risvolti di copertina –pezzi che sono dei veri e propri micro/saggi, il più delle volte composti da un funzionario-intellettuale della casa editrice, ma altre volte –più rare- messI giù dagli stessi autori, come potremo vedere durante questa mini-serie estiva. Iniziamo con un poeta-maestro del secolo scorso: Giovanni Giudici, grande autore e grande traduttore, la cui opera omnia non dovrebbe mai essere a troppa distanza dal tableau-de-nuit degli amanti del verso.
Da “FORTEZZA” di GIOVANNI GIUDICI – I poeti dello Specchio- Arnoldo Mondadori, 1^ ed. 1990
Fortezza, titolo della lunga sequenza centrale e di tutto questo libro in cui Giovanni Giudici espande ed esalta, dopo l’esperienza già fortemente innovativa di Salutz, il sistema continuamente in crescita della sua poesia, è parola deliberatamente ambigua. Il lettore potrà coglierla in tutte le sue diverse sfaccettature: anche teologiche, mistiche e soprattutto carcerarie. Circola, infatti, in questi versi un’aria di clausura, non sai se imposta o volontaria, tra funesta e misteriosa e persino ospedaliera: come in una notte e “specie di giorno”, intervallati da rari squarci di luce o di ricordo. Si noti la puntualità delle datazioni: ecco il “giornale” e anche il “teatro” di una prigionia forse più dell’intelletto che del corpo: “cafarnao d’un cervello”, come ci vien suggerito. Voci di personaggi senza volto si alternano con un linguaggio che, nella sua aperta comunicatività, è specchio e insieme enigma, confessione e invenzione, esibizione di viscere e grido penitenziale, sullo sfondo di una storia senza tempo che all’evocazione di un improbabile “esarca” giustappone, per esempio, quelle di un altrettanto indefinito “Conestabile” o di un rituale d’armistizio “dopo Hiroshima”. Col poeta stesso a un tempo carcerato e carceriere, portato dalle sue stesse parole (come un “Caronte” tra vita e morte, traghettatore di anime), Fortezza è testimonianza di una crisi tanto dichiarata quanto indecifrabile, agonia che si risolve solo vivendosi e esprimendosi. Questo è, insomma, il nucleo ottimo e fin eccezionale di un libro fra i più intensi e fiammeggianti di Giudici, ancora una volta stilisticamente e concettualmente ben in attivo per lui. Un nucleo a cui si propone come antefatto o introduzione il gruppo iniziale di “Memoria”, con le sue dominanti figure di materiale e amorosa nostalgia e con quella sorprendente poesia nell’antico e forse scomparso dialetto ligure del paese natale; mentre gli fanno da clausola i sei testi di “Frate Tommaso”, terza e ultima parte del libro. Qui le stesse ragioni etico-esistenziali e l’istanza autoidentificativa dell’autore emergono e si contemplano in una e sempre drammatica ma più oggettivata e catartica dimensione, di cui può essere emblema la citazione biblica del verso conclusivo: “Perché fallisce il desiderio degli empi”.
M.F
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MEMORIA
Gli domandavo se era vero
Di un bell’abito bianco e nero
A righe a strisce o quadrettato
Che porto in mente stampato
Se al tempo che lei fu in vita
La vide mai così vestita
Segno che c’era chi veniva
Da un morire – o moriva
Lui la vedeva dal suo banco
Chissà non fosse nero o bianco
Che bianco intero e poi del tutto
Nero fu nero di lutto
E lui tutt’altro avendo in testa
Che l’abito della maestra
E domandando io se era vero
Di quel completo bianco e nero
Disse – non dico che lo giuro
Però sarei quasi sicuro
In ogni casa uno veniva
Da un morire – o moriva
12 giugno 1983 – 5 gennaio 1984
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