Home

GUIDO GRILLI PRESENTA SUL QUOTIDIANO “LAREGIONE” UNA RECENSIONE-INTERVISTA SULL’ULTIMO LIBRO DI YARI BERNASCONI: “CINQUE CARTOLINE DAL FRONTE E ALTRA CORRISPONDENZA”.

Lascia un commento

 

 

 

Guido Grilli, sul giornale laRegione del 10 febbraio 2020,  intervista Yari Bernasconi
e recensisce l’ultimo libro dell’autore di Lugano: “Cinque cartoline dal fronte e altre corrispondenze

 

NELLA SUA NUOVA PLAQUETTE L’AUTORE LUGANESE EVOCA, FRA GLI ALTRI, IL TEMI DELLA FRONTIERA E DEL CONFLITTO IN UNA MOLTITUDINE DI SIGNIFICATI. LETTERE, CARTOLINE E BIGLIETTI FORMANO UN’AMPIA VARIETA’ DI TESTI.
***
Ecco, vorrei scriverti questo: tu conosci / il materiale. Sai quanto è porosa la vita, / quanto larghe e irregolari le macchie d’olio, / l’ombra del movimento sconosciuto / di nebbie o di fumo. Il bianco è una cornice / da sporcare (…).
La poesia può muovere vela anche nella forma della corrispondenza, poi il testo può altresì liberarsi dalla sua sede originaria e riproporsi come poesia a sé stante. Ne dà valida prova Yari Bernasconi nella sua ultima plaquette, “Cinque cartoline dal fronte e altra corrispondenza” (uscito nel 2019 per la casa editrice L’arcolaio), sorprendente silloge poetica poiché nei suoi relativamente pochi componimenti – complessivamente venti e posti in una calibratissima sequenza – l’autore ci consegna una raccolta tanto organica quanto circolare. Sin dall’esordio poetico l’autore luganese, classe 1982, avvenuto nel 2009 per Alla chiara fonte con il poemetto lettera da Dejevo – lavoro poi collocato in apertura di Nuovi giorni di polvere (Casagrande, 2015) – nei titoli delle sue produzioni si contemplano con frequenza richiami alle forme epistolari. Duplice ora il riferimento nella nuova plaquette, Cinque cartoline dal fronte e altra corrispondenza. E anche le tre sezioni interne recano titoli ancorati a questa stessa forma di comunicazione. Cinque cartoline dal fronte (intorno a Ponte Tresa). Altra corrispondenza e Dieci lettere dal futuro (frammenti). Ma quale significato assegnare invece al termine decisamente evocativo “fronte”, contenuto nel titolo?
«Il ‘fronte’ in questo caso è semplicemente la frontiera» afferma Yari Bernasconi, «e più in particolare quella zona liminare dove sono cresciuto a Caslano, a ridosso della frontiera di Ponte Tresa. L’Italia era a pochi passi e ci si andava settimanalmente. La frontiera per me è stata sempre un naturale luogo di transito. I cinque testi che compongono la prima sezione sono però nati nel quadro di una manifestazione alle Giornate letterarie di Soletta, che chiedeva di scrivere sul tema della guerra o su un conflitto socio-politico; ho scelto provocatoriamente il conflitto meno spettacolare che mi venisse in mente». D’altra parte questo ‘fronte’ assume nella lettura dell’intera plaquette significati molteplici e quello del conflitto è un tema che rimane sullo sfondo, costituendo una sorta di fil rouge.
Nella prima delle tre sezioni della silloge poetica si evoca l’emblema dei confini attraverso precisi toponimi: Svizzera, Italia, Lavena, Ponte Tresa, Luino con un’eco implicita a Vittorio Sereni; la sezione di mezzo è costituita appunto da corrispondenze, i cui destinatari – come chiariscono le note in chiusura – sono reali.
La terza sezione, costituita attraverso brevi intersezioni prosastiche, racchiude e riproduce un dialogo fra un uomo e una donna in conflitto, al cui centro si trova del resto un figlio conteso, in una dimensione volutamente fantascientifica, da cui il titolo, Dieci lettere dal futuro (frammenti), e la citazione di Ray Bradbury in esergo. Alla fine si ripongono le “armi”, la donna, nella sua ultima lettera, lascia cadere la penna e chiede di fare altrettanto al suo interlocutore.
«Il legame con il passato e con la storia è indissolubile», osserva Yari Bernasconi. «E tuttavia mi interessa poco selezionare un momento del passato e ricamarci sopra un po’ di letteratura. Guardare indietro è interessante quando l’esplorazione ha un’influenza diretta sul presente, e ancora può dirci qualcosa del futuro, spingerci a riflettere, insegnarci qualcosa. Senza dimenticare che non ci sono risposte definitive: tutto continua e continuerà ad oscillare».
Al centro della raccolta, una poesia sull’Europa assume particolare rilievo: Forse hai persino ragione: l’Europa / unita non è che un disordine di desideri. / E quindi? Ti sembra davvero abbastanza / per mostrare i tuoi denti bianchi, ridere, / ripetere il sermone del modello svizzero? / Dimenticando quello che dà vita / alla vita: l’incerto, l’impuro, l’impossibile.
E sempre nella parte centrale, corrispondenze. «Questa è anche la parte più variegata della raccolta, sebbene siano solo cinque testi. Ma è il fascino della corrispondenza, che assomiglia alla vita: lettere, cartoline, biglietti e molti altri supporti per una grandissima varietà di testi; dai temi ai toni che si fanno nel breve volgere di un paragrafo più o meno sentimentali, emotivi, politici, rabbiosi. E questo mi piace molto».
«Se nelle note ho svelato i nomi propri dei destinatari delle mie lettere – prosegue Yari Bernasconi – è anche per evidenziare lo strettissimo e diretto legame con la realtà, che reputo sempre necessario. La poesia è una declinazione della vita. È un linguaggio con le sue peculiarità, né migliore, né peggiore degli altri, e come tale cerca di raccontare, di dire il mondo fuori e dentro di noi. Altrimenti ci troviamo nell’esercizio stilistico fine a sé stesso, che per me, francamente, per quanto mi riguarda, non ha alcun interesse. A parte qualche luminosa eccezione beninteso, ma si parla di scrittori attraversati da una genialità senza pari, come può essere il caso di Giovanni Battista Marino, che su una vicenda risolvibile in poche pagine ha realizzato uno dei poemi più lunghi della storia letteraria: L’Adone».
Una delle cifre stilistiche di Yari Bernasconi risiede nell’uso alternato dei pronomi personali – come pure degli aggettivi possessivi, espressioni che all’intervento degli enunciati “muovono” la situazione spazio-temporale e conferiscono talora un subitaneo cambio di prospettiva, che contribuisce ad aprire lo sguardo verso il mondo. Proprietà, queste, già riscontrabili nelle prime prove poetiche dell’autore. In Uno scorcio contenuto in Non è vero che saremo perdonati (undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2012) e poi in Nuovi giorni di polvere, la chiusa suona significativamente così: Non potrai non vedere l’agonia delle nostre speranze, / del nostro mondo.
Osserva dal canto suo l’autore: «Per essere sincero, la gestione dei pronomi nei miei testi rispecchia anche la difficoltà e l’imbarazzo che incontro talvolta nel pronunciare “io” o altre volte “noi”. Esiste anche un atto di superbia nello scrivere: se decidi di pubblicare è perché – più o meno coscientemente – credi di avere qualcosa di interessante da dire. È una cosa con cui convivo faticosamente. Certo, il “noi” mi piace molto, è persino rassicurante, ma non è meno problematico e delicato, visto che utilizzandolo ci si arroga – almeno in parte – il diritto di parlare per gli altri. E in generale, ogni volta che indichiamo un “gruppo” (pure con il “voi” o con il “loro”) bisogna prestare attenzione, perché il rischio è di scadere nella superficialità, indicare apparenti comunità, appartenenze e movimenti come se potessimo racchiuderli in un insieme e definirli chiaramente, come se i loro confini fossero netti, mentre il più delle volte tutto è poroso, permeabile, meravigliosamente impuro».

 

Guido Grilli

SABATO PROSSIMO, LA PRESENTAZIONE DI “BOTTONI DI MADREPERLA” E L’INAUGURAZIONE DELLA MOSTRA DEI RITRATTI DELL’AUTRICE GLORIANA VENTURINI. GLI AMICI MILANESI SONO INVITATI.

Lascia un commento

 

 

Ecco la comunicazione della nostra Gloriana Venturini.

Ci indica il luogo dove l’evento avverrà. Invitiamo gli amici di Milano e dintorni alla partecipazione. Grazie!

Gianfranco.


Vi aspetto, insieme alle Amiche della Biblioteca di Buccinasco, sabato prossimo alle ore 16,30 per la presentazione del mio nuovo libro BOTTONI DI MADREPERLA e l’inaugurazione della mostra FIGURE DI DONNE.

Biblioteca di Buccinasco, presso Cascina Fagnana, via Fagnana Buccinasco.

Al termine rinfresco e chiacchiere tra amiche e amici! Potete condividere il post?

Grazie!

PATRIZIA SARDISCO RECENSISCE “SOLCHI” DI MARIA ALLO.

Lascia un commento

 

Maria Allo Solchi, nota di Patrizia Sardisco
Articolo pubblicato sul blog IMPERFETTA ELLISSE, fondato da Giacomo Cerrai

 

Di fessure, di crepe, di segni, di insegnamenti ancestrali: in una terra-mondo devastata e resa opaca dal dire di un “fiato che non pesa”, in cui le sole trasparenze sono “le fessure scampate alle parole”. Di rivoli e calanchi e di altri suggestivi Solchi, ci dona saggio in poesia questo bel libro di Maria Allo, percorrendo la polisemia particolarmente fertile di un termine in cui si intrecciano e si ibridano piani semantici spesso antinomici che oppongono immagini di apertura e di riparo, di linee d’impluvio e di cavità subacquee, di tracce e di incisioni, e ancora di innesti e di uscite, di vie di fuga.
Di solchi e di direzioni arcaiche e arcuate, di assi curve si dice in questo misterico libro di Maria Allo, di piste entro cui dimora un’appartenenza dalla quale, ci avverte la voce poetica, non può darsi scampo, poiché “Non c’è rimedio alla curva/Dell’appartenenza”; di molteplici, di multiformi crepe e del pertinace radicamento nell’alveo non pacificato di quelle crepe; di aperture e lacerazioni, dalle quali tuttavia soltanto, sembra suggerire la seconda parte del titolo del libro, può darsi la sporgenza nella compiuta forma della parabola, nella sua duplice e coincidente accezione di traiettoria-parola che intercetta e adombra “Verità inattese”. È in figura di parabola, infatti, la sola traiettoria-tragitto tracciabile e percorribile per chi, non senza fatica e dolore (“Avanzare è anche soffrire”), assegni al vivere e al dire poetico direzioni equidistanti da uno stesso fuoco.
E il fuoco di questo continuum tra vita e poesia è, maestosamente, quello di un vulcano-padre che si erge solenne, possente e a proprio agio tra storia e mito, è ferita di fuoco nel cuore di un’isola-madre, “corpo immenso del perdono”, luogo di nascita e convintamente suolo d’elezione in cui “resiste nel suo calore un grande cuore”, isola crocevia essa stessa di storia e di mito nel cuore di un mare che tiene in ostaggio e che sembra non mostrarsi mai nella sua parte più profonda. L’Etna: ma insistentemente in minuscolo, nome comune innervato nel diuturno quotidiano: l’etna è il solco primigenio dal quale morte e vita hanno violenta e non sdipanata scaturigine, solco ancestrale che plasma, forgia a propria immagine prima della prima parola, “prima di respirare”, solco che intorno a sé traccia una sorta di spazio sospeso e assimilante, un limbo assorbente rispetto al quale ciò che resta “È gomitolo precipite di devastazione” che toglie nervo al transeunte e, soprattutto, sospende la luce e ogni altra voce sotto il peso del proprio fragore: “Con un pugno arcigno di silenzio”, “Non si ha più voce”.
E in effetti, come poter dire del groviglio di radici e “fessure nel deserto” di questi esseri–albero che siamo, di quello gnommero gaddiano di sovradeterminazione che l’occorrenza di termini come “gomitolo”, “grumi”, “ragnatele”, “tralci” “nodo”, mi riporta in mente, come poter dire il nostro essere “Memorie sommerse”, il nostro essere “carne e vuoto”, “soli e senza un grido”? Come, se si oscura alle spalle la “sola testimone”, la parola, e se “non c’è sintassi che traduca” ? Come dire la dissidenza, la dissonanza?
Occorrerà consegnarsi, restituirsi interi, “Senza afasie”, far di se stessi “segno senza ambiguità”, strapparsi dal volto “La maschera dell’ombra”, “Distillare l’essenza”, sorprendere Verità, dischiuderne il mistero alla nominazione.
Nella rarefazione della veglia/vigilia che impregna la poesia ininterrotta di questo poema franto, un tempo-Tempo si apre, si disallinea, scivola, piange colto nella sua nudità e “I nomi prendono forma dalla perdita o dal vuoto” : è una potente immagine, quella restituita da questo verso, che richiama gli studi dello psicanalista britannico Wilfred Bion, secondo il quale il pensiero nasce dalla frustrazione, dalla mancanza: nella riflessione bioniana, è l’assenza della cosa che diviene pensiero della cosa. Allo stesso modo, mi pare di poter affermare, nella percorrenza dolorosa e tensiva della propria curva spaziotempo, coincidenza di percorso lirico e vitale, la voce poetica penetra il vuoto dei Solchi e vi abita il silenzio, vi abita il fondo vitale del proprio radicamento: trae la linfa della “parola antica e nuova”, e spalancate le braccia compie la propria parabola. È un risveglio, ma è ben più di un risveglio di fede, è un’identificazione con essa: “Sii la fede che tiene un’idea”. È un’identificazione con la luce che veglia sulla memoria, ma non più nell’abbaglio accecante del giorno bensì con la coda dell’occhio, per visione laterale, periferica, quella dei recettori sensoriali attivati nella luce del crepuscolo mattutino, “nell’ora incerta/Che precorre il giorno” quando il Sole illumina per diffusione e riflessione. In questo Tempo nuovo, la tensione si attenua, come acutamente osservato da Anna Maria Curci in chiusura della sua puntuale Prefazione al volume, “ma resta irriducibile”. Lo scioglimento è delle braccia, finalmente spalancate, e nel canto, quasi senza più corpo né confine, e “Sarà un unico respiro atemporale/a farci adempimento e condivisione”: ma il nodo, il groviglio, non conosce distensione, gli gnommeri sembrano anzi ripiegarsi a formare strutture di superiore complessità, con la ricorrenza di versi e interi brani di poesie precedenti e riflettendo a ben guardare anche nella costruzione del testo una concezione curva e aperta, in-finita, del mondo e di questa poesia, con il suo procedere in assenza di segni di interpunzione e per a capo e maiuscolo, come nel tentativo di afferrare ogni volta tra pollice e indice il bandolo di un nuovo inizio, il prodigio sull’orlo del ricominciamento, alla vigilia della risurrezione: “La parabola si compie nei risvegli dentro ogni inizio”.

Patrizia Sardisco

*
In sogno il vento ha grandi occhi di brina
Polvere che imprime alle carni
Il disordine del giorno
Dalla gola una voce straripa
Invade l’aria annebbiando
Il corpo immenso del perdono
Qui resiste nel suo calore un grande cuore
Ci detiene e tutti ci contiene
Attendo parole antiche
In questo luogo non c’è
Altro luogo in cui vorrei essere
Ecco come la notte prende il sopravvento
Su tante solitudini straniere
Forse un destino c’è per questo cielo
Vaga già nel buio tra gli ulivi
Sui volti disperati
Ma davanti alla violenza non si cede
Fuori piove

*
La ragione del sangue investirà veglie
Di solchi ancestrali che forgiano
Prima di respirare
Verità inattese di altri canti ai giorni
Di colori tra le ciglia
Cerchi di limbi assorbono ragioni
E ogni cosa che resta
In questi cieli sfioriti
È gomitolo precipite di devastazione
Si snervano innesti di stagione
Su passi cadenzati
Aperti a cenni come chiodi
Dietro i rintocchi
Non vi è luce
Anzi delirio affilato dal libeccio
Nel deserto ostinato che ci coglie
Non si ha più voce
Anche se l’etna si arrovella nel fragore
E la morte reclina
A immaginarci ancora vivi

*
Sii il freddo che smorza i desideri
Nella fioca luce di notti solitarie
Sii lo strappo che tiene in vita il ramo
Con le mani unite
Sii luce che veglia
La memoria della Terra alla vigilia
Della risurrezione
L’odore dell’alba scorre nel rumore dell’acqua
E rifrange cieli mai visti con la coda dell’occhio
È questo vuoto a farsi corona in un albero muto
Imbrigliato nel solco di un giorno
A un tratto crolla la terra senza fondamenta
Dimmi può la parola antica e nuova
Darci consistenza farci deserto e vuoto
Non trincea di anime ferite
Spalancare le braccia nel bianco della nebbia
[futuro passato presente]
Ma a crepitare è solo abisso dentro un abbandono
Di qui la luce percuote glicini a stormo
Su assolate foglie
Con molteplici suoni dissonanti
Legati alla vita e modellati dal mare
Di qui esplodono gerani in verticale
Non lasciano scampo alle tempeste
Alla ruvidezza del tuo sguardo
Che affiora a tratti e incide sul coraggio
Ridisegnare distanze su omissioni calcolate
Fino al margine della coscienza

*
Scivola Tempo dalle dita e dalle radici del vulcano
C’è un’altra luna
Spira leggero in bocca il vento
Bianco di nebbia
Anche la pietà valica l’attesa
In un rigagnolo del tempo
Mi chiedo come trattenere il respiro
Tra un mucchio di pietre e l’infinito
Le parole di sempre percorrono
La stessa strada desolata
I nomi prendono forma dalla perdita o dal vuoto
Adesso è notte il deserto aleggia
Ardente sulle guance
Fende i marosi e tutto spegne nell’abisso
La parabola si compie nei risvegli dentro ogni inizio
Che ci strappa dalle notti e riafferma il prodigio
Di chi sta per ricominciare
Un senso di cose reali scalpita in cerca della terra
Che non c’è
In bilico la luce sfoglia già la notte
I nostri punti di forza sprigionano
Dalle crepe sotto i piedi

Da Solchi. La parabola si compie nei risvegli, Prefazione a cura di Anna Maria Curci, L’arcolaio 2016 – FUORICOLLANA, Collana diretta da Fabio Michieli.

Maria Allo, laureata in Lettere Classiche, è insegnante, poetessa e traduttrice siciliana. Vive tra Parigi e Catania. Si occupa di Islamistica e di Nuove professioni educative. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni antologiche e quattro sillogi di poesia: I sentieri della speranza, Gabrieli Editore 1985; Riflessi di rugiada. Cose sparse di me, Gruppo Albatros 2011; Al dio dei ritorni, Galassia Arte 2014; Solchi. La parabola si compie nei risvegli, Editore L’Arcolaio 2016, La terra che rimane Edizioni di poesia Controluna 2018 e Talenti di donna, Onirica edizioni 2013, come curatore.

Patrizia Sardisco è nata a Monreale dove tuttora vive. Laureata in Psicologia, specializzata in Didattica Speciale, lavora in un liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano, sue liriche e alcuni racconti brevi compaiono in antologie, riviste e blog letterari. Vincitrice e finalista in diversi concorsi a carattere nazionale, nel 2016 ha pubblicato, per i tipi di Plumelia, la silloge in dialetto Crivu, vincitrice del Premio Internazionale “Città di Marineo” e menzionata al Premio “Di Liegro” di Roma. Nel 2018 si è aggiudicata il Premio “Montano” nella sezione “Una prosa breve”. Nello stesso anno, per le Edizioni Confine, ha dato alle stampe la sua prima pubblicazione in lingua italiana, eunuca, con prefazione a cura di Anna Maria Curci, finalista al Premio “Bologna in lettere” 2019.

MARIO FRESA RECENSISCE, SULLA RIVISTA “POESIA”, “L’ORIGINE” DI DOMENICO CIPRIANO.

Lascia un commento

 

Mario Fresa recensisce “L’origine” di Domenico Cipriano.
POESIA di Crocetti editore – n.356 – mese di febbraio 2020.

 

Libro intenso, immerso in una sospensione malinconiosa, “L’ORIGINE” di Domenico Cipriano, ci ricorda che il ruolo che dovremmo riservare alla parola della poesia è quello di porsi come una sorta di stupita cellula inaugurale, che coincida con un discorso assoluto, archetipale, capace di stabilire coordinate esemplari, primigenie: un discorso non più privato o personalistico, la cui energia sappia decretare la supremazia delle Idee e delle immagini sulle azioni e sugli oggetti; e che sancisca il predominio dell’essere sull’avere. Singolare è l’aspetto formale del libro di Cipriano. Esso rinuncia alle strette maglie dell’unilinguismo: i testi cantano, infatti, con una grande e mobile varietà di forme, suoni e ritmi diversi, che tende a trasformare l’intera raccolta in un acceso organismo apertamente dinamico, fervido e pulsante; e ciascuno dei testi comunica l’impressione che davvero stia per prendere vita e poi fiorire nel momento in cui compare sulla pagina agli occhi del lettore: e così si assiste al propagarsi di continue, balenanti nascite di parole e di immagini che danno vita a visioni e a segni rigermoglianti e impreveduti; e a prospettive incalcolate, misteriose e trasparenti insieme. Sono nascite che paiono preziose esplosioni o multiple irradiazioni segretamente mosse da una energia impensata (ora creatrice; ora rinnovatrice), dèdita all’apertura di uno sguardo luminosamente inedito e vergine, inesplorato e principiante; sicché l’idea assoluta della matrice e del principio sembra già incisa, con potente naturalezza, nella stessa, mobile struttura del libro. Le poesie intessono, così, una moltitudine di tracce e di trame foniche, prosodiche, visive instabile e cangiante come se le parole e le forme e le voci e le presenze rievocate, descritte o ricoperte fossero, in ogni istante, nascenti e gemmanti e daccapo, e di nuovo risorgenti. L’oggetto della contemplazione del poeta (rilevazione, o rivelazione di un’idea: rimembranza e desiderio; riecheggiamento fatato o rievocazione famigliare) si mostra sospeso in un’anfibia, purgatoriale indeterminatezza che muta luce e parvenza a seconda dell’angolazione dello sguardo o dell’ascolto; e la scrittura diventa un corpo vivo e pensante: corpo di risonanze e di sembianze che sanno ridisegnare l’occhio, la memoria, il mondo del lettore-ascoltatore; regno vero della concentrazione e dell’inesausto cominciamento di ogni pensiero, la lingua poetica diventa, essa stessa, origine del mondo (e infinibile, rigerminante, origine della stessa vita): “Un nome circonderà le soste / e i segni sulle pietre rimosse / saranno dilatati, restando ai margini dei volti: // Ci stringeremo in un più breve spazio / e vedremo la nostra segretezza /cercando l’eterno / in ogni fotogramma del ricordo / nell’indaco del cielo che si rinnova agli occhi”.

Mario Fresa

IURI LOMBARDI RECENSISCE “DIRE” DI FABIO MICHIELI.

1 commento

 

Fabio Micheli è il poeta di Dire: il laboratorio dello stile
Recensione di Iuri Lombardi
Pubblicata sul blog YAWP

 

Sembra volerci dire qualcosa Fabio Michieli con la sua raccolta Dire (L’arcolaio) ossia di come la poesia può e deve essere un laboratorio di stile. Essere poeti non significa essere solo bravi, saper rispettare l’estetica (che non necessariamente presuppone un’etica, una morale), vuol dire sperimentare una metrica e quindi uno stile per affinare la propria voce e di conseguenza lo stile. Alla fine dei salmi, volendo o non volendo, mediante l’edificazioni possibili di teorie sulla poesia, lo stile è la carta identificativa di un autore. Io leggo due righe e capisco da subito, nel giro di pochi minuti, in una manciata di tempo chi è l’autore. Ecco Fabio Michieli in questa raccolta fa proprio questo: avvia una propria bottega di stile per accordare la voce prima di un grande concerto.
Anche in questo caso, come nelle sue precedenti prove, Michieli edifica un proprio universo di parole, avanza e ci presenta un vero e proprio universo non solo di stile, quindi non solo estetico ma anche etico e morale. Ecco allora che la storia (e in termini cronologici e in termini biografici) il poeta desidera sia una pagina bianca, un motivo, un’occasione possibile di vita. Legato e in sintonia a questo concetto privato, vale a dire relativo a un perimetro d’azione della propria avventura sentimentale, si sovrappone un altro mondo possibile quello etico e pubblico. Ecco la morale; la coscienza del poeta non è mai privata ma storica, non è amorale cioè in merito al solo individualismo ma collettiva. Michieli anche quando parla del suo privato lo fa con coscienza pubblica, con cognizione comune: lo fa da vero poeta.
Dire come raccolta, che raccoglie in sé anche esperienze passate del poeta, è una raccolta piena, un barlume di significati e di significanti, un’isola di approccio per l’autore e non solo. Un’opera completa, per certi versi enciclopedica, dove da una serie di dettagli si scopre un mondo e il mondo non è solo quello del suo autore ma, torno a ripetere, quello pubblico, di noi tutti. Ecco allora che da un piccolo emisfero poetico si crea una nazione e poi un continente sino ad arrivare a un universo di sensi e di significati.

 Iuri Lombardi

 

Fabio Michieli, Dire, L’arcolaio, 2019

Dicatum
Volevo un libro chiaro per noi due:
una pagina bianca – quasi pura

***
Tingerò d’amaranto questi versi
perché tu possa scorgerli lontani
quando la luce imbruna il cielo a sera

***
Fugge le mie mani tese il tramonto:
là dove tutti i limiti si incontrano
– dove a ogni notte segue nuovo un giorno
dove ogni fiore lascia posto a un frutto
– dove anche la morte è un segno di vita

***
Tarocchi
Si sciolgono i colori come i modi
incerti che non sanno più predire
– incredulo mi rimira l’Appeso
mentre le nubi abbuiano la Notte