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SEBASTIANO AGLIECO RIFLETTE SU “LA TRACCIA” DI EUGENIO VITALI

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Eugenio Vitali: non leggerti al plurale

 

Eugenio Vitali, LA TRACCIA, L’Arcolaio 2016

 

Propongo di leggere questo libro a partire dal testo finale p. 77.

La vita mi sfugge,
non riesco a perforare
la parola.
L’ombra
appassisce i dadi,
appena lo scarto
di una nascita.
Ricordo
il segreto
dell’oro delle polveri
ma tutto si perde,
la morte raggira il sarcofago.

È scrittura stilata sul limite, riassuntiva, forse, per questo più libera.
Non si avverte una struttura portante cercata, quanto, piuttosto, grumi, ricorrenze e urgenze.
Molte le poesie dedicate ad amici, parenti, figli. E poi la guerra, la campagna, figure portatrici di etica; persino un maestro. Una traccia, insomma, attraversa queste poesie, e la traccia è il battesimo del poeta.

Sempre una traccia
dentro me.
Il tempo è solo un intarsio,
pensavo,
e con i miei abiti vestivo il tramonto,
lo portavo a ballare.
pag. 45

Tutto questo avviene perché lo sguardo ha avuto il tempo di imprimersi sulle presenze avvertite per la prima volta nel mostrarsi di segni, di splendori nella luce, di brusìi nell’ombra. Lo sguardo è stato lungamente esercitato fino alla frequentazione di una geometria formale, necessaria a contenere un certo andamento surreale, dentro le maglie di un micro racconto.
Bellissimi, dunque, i testi in cui Eugenio Vitali rievoca la guerra, i figli, ma anche certi passaggi assertivi ed esortativi, a dirci di una parola vitale, alimentata dall’esperienza piuttosto che da stili e modelli letterari.
Leggiamo, per esempio, il ricordo di un’infanzia al sole, nell’aia della vecchia casa, in cui il maresciallo passa a chiedere se tutto va bene; e l’episodio assume il significato di un epos, di un mondo che forse poteva ancora insegnarci il senso e la dispersione, parole utili per il nostro presente, non per il progetto di un’intera vita.
Senza astuzie ma nell’umiltà delle cose che sanno di non durare.

Sebastiano Aglieco

*

Lo chiamavano Sfrondazil,
mio padre.
Mi sentivo insonne e alto come lui.
Aveva gli occhi cromati d’azzurro,
sul volto ogni compimento,
le ginocchia piegate dalle ore
come un cosisia.
Guerra del Carso, guerra d’Africa
ma più memoria di sé.
Sul birocchio scalava giornate,
il suo respiro
scremava
il dolore del mondo,
diceva che altro non bisognava aspettarsi.
Quando se ne andò
non servì una corona presa
da un golgota,
la morte aveva la pelle secca,
si mise sull’attenti
per quell’uomo
a cui era bastato un cucchiaio di sole.
I famigliari lo baciarono,
lui disse
“è assuro morire da vivi”.
p. 45

 

*

Non leggerti al plurale,
leggiti all’inverso,
slacciati le mani,
togliti il cappello.
Un’invenzione dell’ombra,
dà credito al sole.
Balla
sulla tua ignoranza,
serra la mano, il fiore, le astuzie.
Sarai altro
prima di voltarti.
p. 49

 

UNA PARTE DELLA RASSEGNA STAMPA SUL LIBRO “E’ BAL” DI NEVIO SPADONI DA CUI E’ TRATTO L’OMONIMO SPETTACOLO

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CORRIERE DI ROMAGNA

29 febbraio 2016
“E’ bal” di Nevio Spadoni secondo Magnani e Marzocchi.

DA RAVENNA NOTIZIE.IT

Una danza macabra

La prima volta che ho visto in scena E’ bal è stato lo scorso luglio a Castiglione, per il festival Corposamente. Roberto e Simone recitavano all’aperto, sotto l’argine del Savio, illuminati da una bella luna piena. In platea – com’è naturale aspettarsi quando si ha a che fare con un testo in dialetto romagnolo – l’età media si aggirava attorno ai ’60-’70 anni.
Ricordo soprattutto che rimasi stupito per le tante risate del pubblico. Intendiamoci: il testo di Spadoni nasce come divertissement, ed è disseminato di quel tipico umorismo salace e popolare che, grazie all’uso sapiente del dialetto e di espressioni idiomatiche, risveglia facilmente un sorriso o una risata – tanto più per chi il dialetto romagnolo lo parla fluentemente. Ma era come se nessuno si fosse accorto del profondo lavoro di rilettura che aveva impegnato per mesi Magnani e Marzocchi. Attraverso il corpo di Roberto, e grazie alla stridente musica di Simone, l’Ezia, la protagonista di questo monologo, cessava di essere un semplice personaggio umoristico. Il patetismo delle vivide descrizioni di Spadoni veniva totalmente stravolto; la sua bonaria misoginia acuita ed estenuata dall’interpretazione di Magnani, fino al punto di renderla qualcosa di affatto diverso: un’introspezione allucinata e inquietante, un’ossessione quasi gotica concentrata sul decadimento fisico e sulla tragedia esistenziale della follia. Un altro spazio, un altro pubblico. Immerso nell’atmosfera intima di Vulkano, a San Bartolo, il testo arriva diretto, senza perdere uno iota della sua efficacia. La musica s’integra perfettamente con testo, e sferraglia nelle nostre orecchie
come una bestemmia o un’offesa. Ma soprattutto: poche risate, e molti brividi. L’armonia e la dolcezza dei quinari di Spadoni, la cui metrica è sorretta dalle tantissime parole tronche del nostro
dialetto, viene totalmente abbandonata dalla voce di Magnani. Il trucco e le luci puntate sul suo viso ne deformano i tratti in una smorfia inquietante: gli zigomi sporgono in fuori, la voce gracchia come il suono di un rapace o delle unghie sulla lavagna, ed ecco che Ezia diventa un teschio, un memento mori. La sua voce non è quella del matto del villaggio, ma della disperazione, della vanità che non si rassegna al passare del tempo. Il ballo che dà il nome al monologo non è più quello ridicolo e volgare di una stramba qualsiasi in giro per la Romagna in cerca di “ôn caz ad êrt”; ma l’annaspare inquietante e scomposto di un corpo che si sta sfaldando e di una psiche che sta cedendo il passo alla follia. Una danza macabra sui generis, insomma, che lascia davvero il pubblico muto e annichilito.
Sembra di vederla questa Ezia “ch’lé una sgrézia”, quasi ritratta davanti a noi come in uno dei quadri di Géricault, quelli dedicati alle “monomaniache dell’invidia”. E il testo è tanto più efficace in quanto la coppia Magnani/Marzocchi ne ha saputo rintracciare la linfa mitologica che lo nutre: il tòpos è quello della strega. Di fronte a questa grande prova d’attore e a questa interessante ricerca sonora, di fronte all’intelligente impianto luci azionato da Andrea Napolitano, il testo di Spadoni cresce, e in poesia e in efficacia, fino a raggiungere lo scopo delineato dal suo ultimo formidabile verso: “zùg strâmb dla vita, ch’et lasa mòt”; muto come il pubblico prima degli applausi.

JacopoGardelli

4 marzo 2016
Il ballo, il dileggio, di Ézia la ṣgrézia: Roberto Magnani delle Albe nel
poema in dialetto di Nevio Spadoni  (CORRIERE DI BOLOGNA)

È incantatorio il giambo di Nevio Spadoni, il ritmo prima ancora della lingua, un romagnolo duro, terroso, con folate impetuose di vento di mare. “Al bala al tet / al scösa al bala / al va a spas / al pê ad sas / al s’êlza al ṣbasa / l’è tota masa…”. A leggerlo un po’ si capisce (“Ballan le tette / scuotono e ballano / a spasso vanno / paion di sasso / in alto e basso / è tutto grasso…”: così, senza virgole, punti e virgole, punti). A sentirlo recitare da Roberto Magnani, accompagnato dai suoni materici di Simone Marzocchi, in quel bugigattolo buio, avvolgente, che è il VulKano di San Bartolo di Ravenna, se non sei di quelle parti decifri poche parole isolate. Ma vieni incantato, e spaventato, indignato e rapito dalla storia della donna protagonista di E’ bal, dal fiato del suo avanzare, dagli sguardi di chi la deride, dalle critiche dei paesani, dalle sue risposte di smarrita selvatica ferocia, dal suo continuare continuare continuare a incedere nel dolore, emarginata di paese, di campagna, dal superbo petto esibito come sfida per quanto squarciato da lame taglienti di offese. Spadoni è l’autore di L’isola di Alcina (2000) e di Luṣ (1995 e 2015), due spettacoli di Marco Martinelli e del Teatro delle Albe portati in scena con perfezione musicale e incrinatura di ribelle sofferenza, introspezione preghiera e bestemmia, da Ermanna Montanari. Il dialetto è lo stesso dell’attrice, quello delle Ville Unite, alcuni borghi come Campiano dove il ravennate (o quello che resta di esso) si è conservato più duro e campagnolo, senza le contaminazioni della città. Per quanto poco ne sappia io di dialetto di quelle zone, mi sembra evidente anche come il poeta lo abbia reinventato, anche solo conservandone la sua patina più ostica, antica, atavica, trasformandolo in lingua dell’anima, in orizzonte per dissodare arcaici dolori, ancora attuali, e rituali di sacrificio ed espulsione del diverso.
Alcina è un’abbandonata, Bêlda, la protagonista di Luṣ, è una veggente contadina, considerata una
strega e da tutti sfuggita di giorno e ricercata in segreto, con quella cattiveria che nei paesi può
azzannare senza edulcorazioni. Roberto Magnani anche lui viene da quei luoghi. Lui, a metà strada tra i trenta e i quaranta anni, non è dialettofono, anche se afferma di aver sentito parlare in casa in vernacolo. Lui è cresciuto alla scuola delle Albe. Anzi: ha iniziato quando era studente a fare teatro alla non-scuola, poi è diventato “palotino” (uno dei giovani protagonisti del coro dei Polacchi di Marco Martinelli dall’Ubu di Jarry, 1998), infine è entrato a pieno diritto in compagnia e ha provato anche, qualche anno fa, un primo assolo in romagnolo, Odiséa. Lettura selvatica di Tonino Guerra. Ora la maturazione appare completa, nel garbo insinuante, nell’ironia appassionata e metallica, un po’ tenera un po’ sarcastica, deliberatamente sforzata, con cui porge i versi di Spadoni, con la metamorfosi che subisce quando da narratore diventa voci dei paesani malevoli e quella ancora più travolgente di quando, illuminato dal basso, incarna la protagonista, che il poeta definisce subito, con un gioco di parole devastante: “la s’ciâma Ézia / mo pr e’ paéṣ / a capirì / l’è sól ‘na ṣgrézia”, una disgrazia, una ṣgr-ézia (Ezia e il contrario di Ezia, tradurrei, essere, individuo, e nulla sociale). Nei panni della donna la voce s’incavernisce o va negli acuti, il volto diventa maschera, con un bagliore luciferino in più, gli occhi si allargano, il viso si deforma, e in ciò senti il peso delle parole di piombo e letame che chi la circonda le scaglia contro, e tutta la sua violenta, ribelle reazione.
Ezia, a trentasei anni, è stata abbandonata dall’uomo con cui stava da anni. E non si rassegna, e non si chiude nella sofferenza: incede con le tette dure, con un passo che sembra balli, come un cavaliere
dell’apocalisse, un vendicatore o semplicemente una che vorrebbe strappare la gioia alla vita. E non se ne importa se non si sa chi sia suo padre, se le malelingue la dicono nata dal prete e da una madre
puttana, se l’accusano di sembrare una cagna in calore. Lei non se ne cale, e va avanti, avanti, andrà
avanti facendosi largo fra quelle voci, fra fischi e lazzi, con ritmo da filastrocca, per anni e anni, fino a
che, senza accorgercene, la ritroviamo con i capelli bianchi, la pancia gonfia, i denti cadenti… Sempre in cerca di un altro moroso, che lei non trova, perché ormai “al dôrma al tet”, dormon le tette, e intorno a lei, dopo il dileggio, si fa il vuoto, viene scacciata, e a furia di camminare un giorno muore. E allora diventa, per il paese, una donna santa. Sarà il Signore, che pure si prende con lei la libertà di qualche scherzo di troppo, a darle pace, a offrirle in premio solo un consiglio per un’altra volta che torna in vita: non dare retta, pensa a mangiare, a bere pensa, e quei coglioni manda a cagare!
Magnani racconta stretto in un abitino elegante alquanto striminzito, camicia con i volant e un
cravattino da cantante di liscio del dopoguerra, da presentatore di tombola paesana, col ciuffo ben
pettinato e la voce che va suadente, sull’onda dei versi di Spadoni, e poi affonda nel lazzo tagliente o
sprofonda nel dolore trattenuto, ributtato in faccia ai fetenti, nel tormento dell’emarginazione che non si arrende e sfida e lotta. Lo accompagna una melodia incalzante di tromba di Simone Marzocchi, che poi nell’ombra produce suoni stridenti, metallici, rugginosi, e i loro doppi elettronici. Sono il vento, la bufera prodotta dal pedale di una vecchia Singer, i denti di una sega, una lama di metallo rugginosa sfregata, suonata con un chiodo, parete che chiude come ombra minacciosa la scena, come eco, come fantasma della donna offesa.
Lo spettacolo è breve e bello. Chi non conosce il dialetto poco capisce, ma entra nel giro, nel ritmo, nel vortice, nel gioco delle orride parti, nella ribellione di questa umiliata resistente. Un solo appunto: come ha fatto Montanari in Luṣ avremmo gustato di più questa suite danzante con sovratitoli in italiano. E sarebbe davvero un bel secondo (o primo) tempo a Luṣ, in un dittico di questo poeta, Spadoni, che ci consegna ogni volta ritratti di donne commoventi, esaltanti, umanissimi, grondanti dolore, immaginazione, dignità, voglia di orizzonti oltre mura soffocanti.

Massimo Marino

CORRIERE DI BOLOGNA

4 marzo 2016
E’ bal

Una luce soffusa, quasi crepuscolare, illumina alcuni fili al lato della scena. È un’oscurità velata ad accogliere l’occhio dello spettatore, mentre la ruota di un vecchio arcolaio non smette di
girare, scandendo, a poco a poco, un ritmo che pare girare su sé stesso, in un angolo di scena che diviene, fin da principio, potente e dirompente fucina di immaginari possibili. E’ Bal, (il
ballo), ultima creazione del Teatro delle Albe, è una minuziosa tessitura di frammenti, tra quel che appare visibilmente e quel che si palesa solo tramite l’ascolto. Simili a “sarti” del suono e
della voce, Roberto Magnani, attore funambolesco sui fili di una parola “sputata” in un dialetto fresco e potente, e Simone Marzocchi, trombettista e poliedrico compositore di musiche non convenzionali, aprono il “loro ballo” così come si fa in un antico laboratorio d’arte: ago e filo alla mano, puntellano per salti, vuoti, picchi e silenzi, la storia di Ezia, donna ai margini che abita la pianura ravennate, ma abbraccia ipoteticamente tutte le vite di quei protagonisti che vivono all’ombra di storie senza nome. Il ballo articolato in scena si muove così per piccoli passi, a tratti rapidi, a tratti invece lenti, senza mai sovrapporsi, creando un continuum verso una profondità di senso, oltre che di suono.
Se Odiséa (2009) si era dimostrata come la scommessa riuscita per una “lettura selvatica” tratta dal testo di Tonino Guerra, E’ Bal tende il passo poco più in là, dimostrandosi per Roberto Magnani, giovane talento cresciuto nella non-scuola delle Albe, come la possibilità di riprendere il lavoro di
ricerca su quel “dialetto di ferro” già ormai ampiamente elaborato da Ermanna Montanari e Marco Martinelli. “Quando Nevio Spadoni mi ha proposto questo testo – confida Magnani – ho subito pensato di unire il mio lavoro a quello di Simone Marzocchi nel suo percorso di ricerca musicale. Il buio produce visioni, ed è seguendo questa linea che abbiamo lavorato”. Si compongono in questo modo le voci multiformi, incarnate di volta in volta dallo stesso Magnani, che danno spessore alla storia e alla vita di Ezia. A partire da quella del narratore che comincia raccontando i trentasei anni della protagonista, la ricerca di un amore che se ne è andato, tra le voci di paese che intervengono mentre la tromba di Simone Marzocchi soffia e butta fuori aria senza suono: come a voler fare esplodere istanti muti e sordi, prima che sgorghi, improvviso e folgorante, il flusso di coscienza di Ezia. È una maschera statuaria a dare vita alla sua voce: immobile, illuminata da una luce a tratti abbagliante che pare farla debordare dal contorno nitido che la ritaglia nell’oscurità, pronuncia parole a tratti stridule, risucchiate da un sorriso guardingo. Racconta la vita negata, il ricordo sbiadito di quella vecchia giostra arrugginita e l’immagine della cavallina, metaforica promessa di un cavaliere, e dunque d’amore: sono i sogni al rovescio, gli stessi che prendono forma mentre il suono freddo di un chiodo sfregato contro una sega appesa al soffitto ne restituisce la forma, sospesa in aria insieme a quella delle parole pronunciate da un sibilo di voce. Mentre Ezia corre e tenta invano di scacciare le voci che la inseguono schernendola, una lastra di alluminio posta al fondo della scena inizia a vibrare. Si creano vortici, rimbalzi dentro a quello che pare uno strumento magico, contornato da una luce quasi abbagliante. Diventa specchio, intervallo spaziale tra riflesso e profondità della corsa di Ezia: non è che eco, lancio di un suono gettato, non raccolto e destinato a tornare indietro. Proprio come quei sogni al rovescio che Ezia rivede sulla giostra. “Oh la mi tësta e’ pê ch’la m’s-ciöpa”. La testa scoppia, persa tra visione e realtà, mentre il gioco del ballo si esaurisce nel suo triste epilogo di morte. E’ Bal si definisce come una cristallina metafora della vita, così come la considera Nevio Spadoni: “camminare e correre per inseguire quel barlume di felicità cui tutti avremmo diritto”. E l’abile scarto, difficile e non scontato, generato dalla messa in scena, si intravede proprio nell’essere riusciti a condurre la parola di quell’aspro e dolce “dialetto di ferro” oltre ad una forma immobile, senza sfumature o sbavature, conferendone sostanza, altalenante tra
tinte tragiche e comiche. Se il senso di un dialetto stretto spesso sfugge, il chiodo di ferro, la lamina in metallo ritagliano, cuciono, intessono per dare forma a quel significato e per lasciare che i suoi fili continuino a girare nell’arcolaio, anche quando “e’ bal” è una matassa difficile da districare, in nodi non udibili e visibili. Solo in questo modo la partitura testuale-musicale tende il suono proprio lì, dove la vista non ha accesso: la musica evoca la non-voce di Ezia, commistione di umiliazione, di abbandoni, di emarginazione. La parola, sputata in un “dialetto di ferro”, diviene tramite vocale e poetico, non per tradurre, ma per evocare. L’ingegnosa tessitura del registro linguistico e poetico inventa una musica altra. Il buio della visione, verso cui Roberto Magnani e Simone Marzocchi hanno teso la loro sinergia creativa, si avvicina alla penombra prodotta da un significato alle volte non immediatamente decifrabile (in particolare per i non romagnoli), ma compone una partitura del senso che dimostra come la parola verace pronunciata in dialetto aggiunga materia e forma non previste, che va oltre ad un senso propriamente letterale. E quando un lavoro artistico origina un lento e accurato ascolto in chi osserva, non si può che tendere l’orecchio e sperare che quelle energie sospese, così difficili quanto rare, continuino a sottrarre dall’oscurità immaginari di profonda bellezza e intima realtà.

Carmen Pedullà

FRANCO NANNI RIFLETTE SU “AUGURAZIONE” DI MIRO CORTINI

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Sapersi fragili è un prezioso dono
Ovvero… da Beckett a Carver e ritorno in un nanosecondo
Franco Nanni legge Miro Cortini

Leggere Miro Cortini sottopone a una esperienza molteplice. A prima vista, al primo contatto
giunge una scrittura consapevolmente sovrabbondante, allitterante, pirotecnica, eccessiva
per antonomasia, che riporta al Beckett di Puttanoroscopo. Una esondazione verbale inarrestabile
che spinge il lettore a porsi domande forti, “Che cosa sto leggendo? C’è qualcuno là
dietro?” E la risposta arriva, come il poeta stesso finisce col suggerire nei suoi versi,

Sento che ci sei.
Non ti sento ma ci sei

Che cosa, dunque, c’è? Che cosa sta dietro questo caleidoscopio di giochi, dove Miro può
dire di sé stesso

Divagavo nel labirinto di specchi
Dove le chimere si fanno vere confondendoti

Viene da chiedersi la ragione, la sostanza, la materia di cui è fatto il poeta. Di quali cellule
sia composto il suo corpo, di quali umori sia intriso. La risposta è una, una sola:

Sapersi fragili è un prezioso dono
Sapersi fragili è un prezioso dono

Ecco allora che anche i giochi di parole, le allitterazioni irrituali, divertite, compiaciute e
barocche, tutte riportano a questa fragilità che traspare in trama nella stoffa variegata e a
colori vivaci del suo scrivere. Ecco allora che anche le acrobazie più azzardate possono essere
lette per quello che sono,

Ricerca termodinamica di contatto anche laido
Purché griffato da abbracci vitali!

E quale griffe più adeguata del tornare al dialetto nativo, e al ricordo semplice, illetterato perfino,
della nonna, la nonna che

…l’an gné piò
E cun lì tòtt un mond c’an no piò neca me

Eccolo finalmente nudo, semplice, che arriva dritto all’emozione dimenticando i secoli europei
e la loro vuota erudizione, divenendo un Carver poeta, poeta illetterato perché
americano, nativo, non piegato dalla masturbazione verbale, dove le parole veicolano vissuti,
sentimenti, memorie, e, appunto, tutte le nostre fragilità, preziosi doni senza i quali non serve
parlare, non serve poetare.

FRANCO NANNI

SEBASTIANO AGLIECO SU COMPITU RE VIVI

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Daniela Pericone: diario della vita agra

Posted on 12 ottobre 2016

Daniela Pericone, L’INCIAMPO, L’Arcolaio 2015

In questo libro, densissimo, Daniela Pericone ci mostra una voce continuamente in lotta, in esercizio di equilibrio, in cadute e coraggiose reazioni.
I testi vivono di un senso di precarietà. Siamo nella zona del Montale più disilluso, la cui presenza si percepisce, quasi letteralmente, soprattutto nei primi passaggi. Tuttavia è solo un punto di partenza.
Assistiamo, infatti, al vorticoso alternarsi di equilibrio e perdita, avvertibile nella ricorrenza di varianti poetiche intorno a grumi ricorrenti; Daniela Periconi sembra così esercitare la parola e la vita, forgiandole a una fiamma più intransigente.
Il libro potrebbe leggersi, allora, come un diario della vita agra, nello sfondo di un paesaggio dirupato, antico e immutabile. E non è un caso che questi esercizi di resistenza appartengano a una voce femminile, la quale non sembra iscriversi nella zona, quanto di moda!, di una poesia del corpo, con risvolti di body art o teatralizzazione come è avvenuto per certe poetesse. Piuttosto leggiamo di una resistenza raccontata con la dignitosa malinconia del perduto e dell’inarrivabile.
La tensione del libro si situa nei territori della ricerca esistenziale che fa emergere, dal contesto più ampio delle composizioni, versi minimi di natura sapienziale, recitati a se stessa come piccoli proverbi; una forma per traghettare la propria vita verso un orizzonte minimo, di una minima gioia, di un frammento di serenità.
Succede che, quando vita e parola si contaminano e si permeano, la poesia è  investita della ricerca di una bellezza difficile, più responsabile. Perché, scrivendo, non cerchiamo la perfezione ma il senso del nostro accadere.

Sebastiano Aglieco

*

Non chiedermi nulla, nulla
ho da dire, né altro m’attende se non
con poco sguardo
sentire quest’ora – ogni ora –
scorrere a balzi sui fianchi senza
sapere se sia polvere d’ossa
o tritume di stelle quel che
resta sospeso confuso al rosso
del fiato alla volpe dei capelli
p.17

*

Ecco come si scrive
con quali pezzi si costruisce
la casa delle ciglia
due o tre nomi a colori
un mozzicone di matita
basta a scovare il bianco
nel nero.
p. 31

*
Ti ho visto tornare
ti ho parlato
da quanto tempo non mi venivi a trovare
eri vero, come sempre, eri presente
ero io che non c’ero, ero dall’altro lato
cielo inverso inventato
mi sono sentita svanire svanire svanire
ero io, rediviva, a morirti.
p. 41

*

Anche se le mani
sono dietro la schiena
i ginocchi stridono e i piedi
sono scogli che trascinano al fondo
se la lingua ha perso tutti i suoni
l’uno dentro l’altro i colori
si confondono nell’acqua senza luce
e il bene si rintana dentro il male
per ogni lampo di resa per lavare il sale
cercami ancora, aggràppati ai miei occhi
da un sangue cresciuto nelle notti
incolpevoli senza destino.
p. 54

GIORGIO LINGUAGLOSSA RECENSISCE “NUOVE NOMENCLATURE E ALTRE POESIE” SUL BLOG “L’OMBRA DELLE PAROLE”

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Anna Maria Curci  POESIE SCELTE da Nuove nomenclature e altre poesie (L’arcolaio 2015) con un  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e uno stralcio della  Postfazione di Gianfranco Fabbri

 

Anna Maria Curci è nata a Roma, dove vive e insegna lingua e letteratura tedesca in un liceo statale. Suoi testi sono apparsi in riviste, in antologie e su lit-blog. È nella redazione di “Poetarum Silva”, della rivista trimestrale “Periferie” e del sito “Ticonzero”. Ha pubblicato in rete traduzioni da testi di diversi autori, prevalentemente di lingua tedesca. Sono pubblicate in volume dalla casa editrice Del Vecchio sue traduzioni di poesie da: Lutz Seiler, La domenica pensavo a Dio / Sonntags dachte ich an Gott (2012), del romanzo Johanna di Felicitas Hoppe (2014), di poesie da: Hilde Domin, Il coltello che ricorda (2016). È in uscita, per le edizioni Canopo, la sua traduzione del racconto I fortunelli di Felicitas Hoppe. Sue sono le raccolte di poesia: Inciampi e marcapiano (LietoColle 2011), Nuove nomenclature e altre poesie (L’arcolaio 2015).

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Dalla lettura del libro, sappiamo che il «principio di realtà» ha sconfitto il «desiderio», e che quest’ultimo si è limitato a non sporgere querela, si è rifiutato di redigere la «rinuncia». Sta qui, in questo gioco ironico di parole e di veti incrociati una delle linee di forza della poesia di Anna Maria Curci. Il principio ironico e il principio di realtà sono però in antitesi, poiché il primo obbedisce al principio di piacere, come Freud insegna. Il soggetto è destinato ad oscillare tra «desiderio» e «principio di realtà», ed ecco allora che gli giunge in aiuto il principio di ironizzazione, che altro non è che una strategia di difesa e di disparizione dell’«io» di fronte alla complessità del mondo. Il risultato è il decentramento del soggetto autoriale dalla struttura poetica. Non è più rinvenibile nella poesia della Curci un soggetto ultimo che dia un ordine purchessia al mondo, tantomeno la struttura poetica può essere abitata dal senso, anche per via della scomparsa della Interrogazione, poiché se non c’è Fondazione non ci potrà più essere neanche una Interrogazione fondamentale, e così la poesia resta in balia di mezze o quasi interrogazioni, di un mezzo parlare, di un montaliano «balbutire». Abbiamo così le frasi sconnesse di «Talia», la musa che presiede alla commedia, poiché il mondo si dà appunto nella forma di commedia ed ha una struttura comediale. Con la scomparsa, dicevamo, del soggetto ultimo, è venuto meno anche il controllo che tale soggetto esercitava sul mondo, e difatti esso si è dileguato anche dalla forma-poesia, sembra dirci la Curci, la quale eccelle nei suoi finti quadretti idilliaci dove non c’è né il soggetto né il destinatario, e non c’è traccia di alcuna angelologia di rilkiana memoria, anzi, gli «angeli» sono diventati dei poveri diavoli,  i poveri angeli devono andarselo a cercare il senso che si è perduto «tra l’ugola e il tubo digerente»:

La diceria dell’angelo che guarda
prova da tempo a farsi mio custode.
Se è un canto dal silenzio o di sirene,
sta tra l’ugola e il tubo digerente.

Quello che al poeta resta da fare è scrivere «distici del doposcuola» o «distici del disincanto», con uno stile tra l’assioma e l’aforisma senza la pretesa di innescare o disinnescare  il senso (come l’aforisma classico) ma lasciando intravvedere al lettore i mattoni del vuoto che esso aforisma vorrebbe dissimulare. Non è un caso che il libro si chiuda con una sezione titolata «Canti dal silenzio». Un «silenzio» che non è più chiave di nulla, né delle idee platoniche né dell’empirico frastuono del mondo mediatico, né del senso né del non-senso. Si ha l’impressione che sia un «silenzio» che chiude il «discorso poetico», ma non per un eccesso di pessimismo quanto per una esigenza di restare fedele alla assunzione del principio di ironizzazione e del decentramento del soggetto propri della sua poetica. Dalla «nomenclatura» degli oggetti al loro «silenzio», questa sembra essere la parabola della poesia di Anna Maria Curci.

 

Dalla Postfazione di Gianfranco Fabbri

Gli “oggetti” di Anna Maria Curci, nello specifico, sono in realtà testi poetici, i quali si configurano come elementi che riescono a parlare dell’uomo, attraverso il “vento” salutare dell’elucubrazione. Il progetto, il libro, pare assemblato con notevole garbo logico: sette sono i capitoletti che lo compongono: Nuove nomenclature, Staffetta, Sonetti sparsi, Dodici distici del disincanto, Distici del doposcuola e Canti del silen­zio. Sette scompartimenti tematici, allora, che indicano no­menclature diverse, ma con una fonte comune: l’uomo e il suo percorso storico.

Prenderò come scampolo esemplificativo le prime due sezioni. Nuove nomenclature pare denotare una sua natura recente, nel corso del tempo; vi si leggono testi come Clandestino, Declassamento, Macelleria, NASDAQ, Rigore, 11 Settembre, tanto per citarne alcuni. Queste poesie posseggono un’ironia notevole, anche se talvolta dolorosa. Sono composizioni fitte di riferimenti, di citazioni di personaggi non solo letterari (Brecht, Bolaño, Musil e altri) dei quali il lettore potrà assorbire la coloritura che più gli riesce evocante, per intuire a suo modo il grande messaggio che la Curci intende emettere all’esterno. Testi gelosi di sé; frammenti, alcuni di essi, con versi gnomi, o rotti, o convulsi, che sembrano vietarsi alla moltitudine. Testi comunque aristocratici che pretendono una volontà di comprendere il loro senso recondito, eppure diretto – quasi spudorato –. [«Manovra / narcotizza / spiazza af­fari //… // Come a Fish / nell’Arturo / Ui di Brecht /…»;  De­classamento, p. 12]. Un dettato molto sofisticato, questo di Anna Maria; a tratti anche violento e sanguinolento, come Macelleria, in cui si possono leggere (ma anche auscultare) gli odori della carne e della morte: «L’ho visto, da bambina, funzio­nante. / Era a Roma, era al monte dei cocci. / Mio padre, col suo ca­mice e coi timbri, / lo conosceva con l’antico nome. //… // Fu la sua sede poi in periferia, / innocuo il nome: solo centro carni. / Con Brecht, Santa Giovanna dei Macelli, / pensavo al mattatoio di Testaccio. //…» (pag. 19). Da queste posizioni a quelle della sezione successiva, Staffetta, non è tanto la differenza concettuale che stupisce, quanto l’atteggiamento del dettato, a mio avviso più assonante – più eufonico, come se il branco dei significanti formulasse una musicalità più energica, sincopata al punto da mutare, in un certo senso, la struttura del significato. Vi si gustano, qua e là, assonanze come “rammendo / rammento” o “inadeguatezza / guazza). Come in Massacro in sol maggiore 2011, dove la decodifica appare in più punti ardua, cattiva. Ho pensato: dovrò qui seguire un’altra via per entrare nel muscolo del pensiero di Anna. Come detto pocanzi, mi sono piccato di seguire un binario più eufonico-disfonico, attraverso l’abbigliamento dei significanti. Qui e altrove, a sottendere il discorso apertamente musicale. Su una improvvi­sazione di Jaco Pastorius: “… Pare facile, dici, / dispensare bellezza / da una corda di basso / Ma il drappeggio è salato // … // Alle stelle si urla il prezzo: / di armonie irridenti / è mercato nero.” (p. 38).

Il senso recondito che muta impercettibilmente il punto di vista è catturabile in tutta l’opera; occorre però scendere nel sottosuolo della lingua-radice, affrontando le stalagmiti del derma profondo del tessuto retorico. Un universo bambino, alle origini arcaiche della comunicazione, crea farciture di analogie, di sinestesie. Lontani parenti delle similitudini e dei tessuti metaforici all’interno di un clima che addiaccia le parole senza forma e senza peso.

I Quadri viventi dell’elucubrazione sono di già oggetti del pensiero?

Parrebbe, Staffetta, la parte più sostanziosa del libro curciano: quella che più ha colpito la mia attenzione. Ad esempio, a chi appartiene in Rosso Azerbaigian la voce che consiglia all’autrice quello che dovrà scrivere? Il dettato di queste pa­gine è forte, di senso astratto spinto, e non onirico: non si sa se più mentale o viscerale. Così come nel testo Fuori classe, dove nessuna coordinata dà senso (e quindi ristoro) a questa nomenclatura di oggetti mentali e linguistici, che pare composta da un dio di più buona volontà, ma declas­sato a gestore dell’infernetto generato dal poeta stesso.

Anche le sezioni successive conducono ad un arricchimento di nomenclature, come a significare il lento ma irreversibile cambio della guardia, all’interno delle agitazioni che la lingua e il modo di usarla dell’uomo producono. E l’esito è la lettura che tenta con tenacia un nuovo formulario e un nuovo “codice” aderente alle problematiche dei tempi difficili che il mondo sta vivendo.

 

 

Macelleria

 

L’ho visto, da bambina, funzionante.
Era a Roma, era al monte dei cocci.
Mio padre, col suo camice e coi timbri,
lo conosceva con l’antico nome.
Fu la sua sede poi in periferia,
innocuo il nome: solo centro carni.
Con Brecht, Santa Giovanna dei Macelli,
pensavo al mattatoio di Testaccio.
Sociale, sale ancora a narici
marchiate squarto di macelleria.
In cella frigorifera hanno messo
quel ricordo di garretti recisi.

 

 

Vuoto di valori

 

Lo sento dire e lo ripeto, così,
schiacciato beneficio d’inventori:
serpeggia, incede, non incontra inciampi
un diserbante vuoto di valori.
Ma c ‘è mai stato un pieno? Il quesito
solletica le froge stupefatte
di cavalli a motore a scoppio tardo.
È aria fritta che sniffano, con blatte.
C’è la fila alla pompa di benzina,
scarseggia il carburante d’ideali
e il vagheggiar d’aedi impavesati
prende quota, è in rialzo, frulla ali.

 

 

Rosso Azerbaigian

 

Se raccogli le cocche dell’abito
rincorso tra banchi vecchi di città
e ti disseti assorta e scosti piano
i capelli, pianto sospendi e acquieti.

 

Fuori classe
A fatica trascino
le quattro carabattole più amate
case-motto da manto declassate
a ripari ambulanti.

A sostenere il mondo
per velleità prescelta ti condanni
d’abnegazione tu sciorini i panni
e sempre giri in tondo.

Non mi distoglie scherno
e quel pallore mio già m’innamora
l’idillio di natura non ristora
chi sceglie l’auto-inferno.

 

 13 agosto 2011

Berlino è piena di inciampi
e moniti, Stolpersteine.
A Bebelplatz leggi lampi
di Hassan, da Almansor di Heine:

«Non fu che un preludio: chi fa
rogo di libri, persone
brucerà». Lo ricordano
stele di cemento a Shoah.
Ma i turisti affollano
i negozi di Ampelmann,
storcono bocche, sbuffano
come a Federico il Grande
il cavallo, che esibisce
capi di stato maggiore
e con la coda spazzola
poeti a Unter den Linden.

Io guardo muri dipinti,
la sera un video di Arte
su JFK, quel giugno, lì.
Se vuoi, dai voce alla storia.

 

Patres

Sono nipote di un eroe di guerra
miracolato a un filo, poi travolto
da un camion per improvvida manovra

e di un coscritto fuggitivo, preso
e recluso nell’isola severa.
Non vidi mai l’eroe, l’altro mi crebbe.

 

Nottetempo

Nottetempo il principio di realtà
ha preso a schiaffi il vecchio desiderio.
Il malmenato, a schiena contrapposta,
ha bofonchiato: non sporgo rinuncia.

 

Traducendo Zärtlich di Oskar Pastior

 

Con Pastior porto le civette ad Atene;
gelosamente, al ritmo di Tirso.
E mi sorride la saggia noncuranza
del cuore che saltella, carezza
immemore di ingorda indifferenza.
Imbatti (incontri veramente fortuiti?)
Cinque: Obliquo

 

«Sia la tua veste fatta di percalle».
Fu Talia, ancora lei, a sussurrare.
Alle sue spalle scorsi, era penombra,
sagoma incerta e dura a decifrare.

Con la pezza di stoffa sotto il braccio
sigaretta di filo e metro al collo
già mi squadrava Obliquo e scosse il capo:
«Non cercare tra sete il tuo tessuto».
Distici del doposcuola
I
Diffida sempre dei superlativi:
aggraziate hanno le punte a scomparsa.
II
Se disseta a trattini, non estingue
affogare le righe nell’ordito.
III
Giungono giorni da affondo nell’incavo,
non affiora nemmeno il ripescaggio.
IV
Che ti lambicchi a ricercar parole?
Il sorpasso da destra è autorizzato.
V
Assennata e composta la bambina
sorseggia il tedio tutto fino in fondo.
VI
«Potere contrattuale di un fuscello»
mi disse, calmo e secco, scarrafone.
VII
Avvelenano i pozzi alla riserva.
Gomitate sghignazzano compari.

 

 

Da: Rivista l’ombra delle parole

 

https://lombradelleparole.wordpress.com