

LA MATERIA CHE CONTA.
RIFLESSIONI SU VARIAZIONI NEL CLIMA DI CAROLINA CARLONE
di Jean Soldini
Recensione tratta dalla rivista “Cenobio”, LXVIII, n. 1, gennaio-marzo 2019.
Per parlare dell’ultima raccolta poetica di Carolina Carlone [1], Variazioni nel clima [2], inizierò dalla quarta sezione intitolata “Nel bagliore verde”. Mi ha infatti particolarmente, energicamente interpellato per il suo lasciar parlare la natura, cercando d’abbreviare il più possibile la presenza dell’uomo. Quest’ultimo sta dentro una realtà di cui diventa, in un riuscito tentativo, meno di uno spettatore discreto o marginale. Mi torna alla mente, in proposito, Franz Marc e soprattutto La mucca gialla (1911), quadro conservato nel Solomon R. Guggenheim Museum a New York. Mucca osservata dall’uomo. Come sarebbe possibile altrimenti? Nondimeno, l’uomo tenta di farsi dimenticare per l’eccitazione prodotta su di lui dall’immagine del mondo. Marc fa così uscire dalla tela quello strano, incontenibile, eccessivo divenire animale della felicità. Non è imitazione dell’animale, immedesimazione. È lasciarsi contagiare dall’altro. Impurità, contaminazione che è potenza d’essere che fa saltare le frontiere.
Abbreviare la presenza umana in un divenire altro è paradossalmente anche il modo più efficace per schermarla, cioè difenderla, proteggerla da chi la maltratta, la caccia, la uccide. Da tale violenza il libro comincia (sezione “Papaveri”): «Hanno già chiuso le porte / blindato gli avamposti / giurato vendetta e radar / ai molteplici infedeli / di questa Terra» (Ore 13: presagi, p. 19). In Nella frontiera si ricorda Miran Hrovatin, fotografo e cineoperatore, ucciso con la giornalista Ilaria Alpi il 20 marzo 1994 in Somalia: «Sempre staneranno / la giugulare dal suo nido / / non si fermeranno / davanti a un corpo che trema / non davanti a una preghiera» (p. 32).
Nella quarta sezione (“Nel bagliore verde”) rilevo scelte orientate in prospettiva postantropocentrica. Utilizzo questo termine evitando quello di postumanesimo che mi appare più ambiguo anche perché, troppo spesso, banalizzato rispetto alla ricchezza del dibattito internazionale, alla varietà delle sue accezioni e delle sfumature di queste ultime. Parlare di postantropocentrismo non è in ogni caso, l’ho appena suggerito, privo di qualche ambiguità. Per esempio il capitalismo attuale, subordinando sistematicamente tutto l’esistente all’imperativo del mercato, potrebbe essere definito postantropocentrico [3]. Consideriamo, tuttavia, che il mercato capitalistico è il prodotto di una visione indiscutibilmente antropocentrica. Prodotto che, dichiaratosi per ciò che è, vale a dire fine unico, è andato sempre più sfuggendo a ogni possibilità di controllo razionale da parte dei suoi stessi protagonisti.
Per postantropocentrismo intendo una visione che non si stanchi di ripensare, fuori di ogni ecologismo tristemente moralistico, l’uomo entro la totalità di quell’esistente sopra il quale senza sosta pretende d’innalzarsi. Una visione che abbia il coraggio non solo di riavvicinarlo agli altri animali, ma pure alle piante e alla materia. Con le parole della filosofa, fisica e femminista statunitense Karen Barad, potremmo dire: «Il linguaggio conta. Il discorso conta. La cultura conta. Vi è una tendenza significativa per cui l’unica cosa che sembra non contare più è la materia» [4]. Con balzo culturale e temporale notevole – siamo all’inizio del secolo scorso –, che si contrae inaspettatamente davanti a noi, risuonano queste parole di Charles Péguy: «quasi certamente, negare il cielo non è pericoloso. È un’eresia senza avvenire. […]. Negare la terra, invece, è allettante. Prima di tutto è distinto. Ed è questo il peggio. È dunque questa l’eresia pericolosa, l’eresia con un avvenire» [5].
Non si tratta d’immaginare di trascurare l’uomo ponendo, da uomo, nuove gerarchie. Bisogna abituarsi, esercitarsi a pensare senza gerarchie il nostro stare nell’esistente che fu preumano prima della comparsa dell’uomo. L’esistente con la sua origine intesa come semplice ‘provenire’, senza cause e punti di partenza. Esistente invece di natura, nozione che preferisco evitare considerando quanto sia artificioso tagliare in un continuum, quello con la cultura. La parola ha inoltre un temibile carattere incantatorio.
La discesa nell’esistente, ravvisata in “Nel bagliore verde”, si annuncia gradualmente già dalla prima sezione (“Papaveri”) e, in generale, nella pressoché totale assenza di punti, anche alla fine di ogni poesia. Il nascondimento dell’uomo nell’essere è inizialmente un lasciarsi guidare, un «seguire la fiamma delle cellule / lungo il sospiro nascosto in ogni corteccia» (Appoggiarmi a te, p. 29). Oppure, nella terza sezione (“Il fuoco verrà”), è essere «più a tuo agio / fra le macchie di un giaguaro / / o nell’oscurità / che silenziosa varca il bosco» (Giaguari, p. 49). È però l’ultima lirica della terza sezione (In veglia, p. 51) che risolutamente anticipa la sezione seguente:
Mi racconti la fatica immobile
delle querce
che salvano, salvano in legno
lo scorrere del tempo
Qualcuno racconta. Chi è il soggetto di quel raccontare? Un essere umano? Un albero? Un filo d’erba? Un sasso? Mi si racconta una fatica che si presenta come un vero lavoro. Solitamente associamo il lavoro all’uomo o anche agli animali; tuttavia, sulla base di un modello antropocentrico (formiche, api). Qui non si parla di un’occupazione riconducibile all’uomo e, quindi, collegata al movimento, all’agitazione. Qui la fatica che quell’attività comporta è immobile e singolare, all’altezza di quel nuovo, inedito rispetto di cui il mondo delle piante comincia lentamente a godere, ciò che in un tempo, il nostro, dai rari meriti non è poco. Richard Karban, professore di entomologia e membro del Center for Population Biology della University of California, ci ricorda che «I comportamenti vegetali sono stati qualificati come più semplici di quelli degli animali. Recenti scoperte mettono in discussione questa idea rivelando livelli elevati di sofisticatezza che in precedenza si pensava fossero di dominio esclusivo del comportamento animale» [6].
Lo sforzo immoto delle querce, in questa poesia di Carlone, ha a che fare con la salvezza. Non rispetto a se stesse o, di riflesso, all’uomo che al suo godimento tutto riconduce. Ciò che viene salvato è lo scorrere del tempo per lo scorrere del tempo. Non ci si oppone a esso, non lo si annulla, non lo si rallenta. Lo si salva in quanto fuggevolezza impossibile da fermare. Le querce non ne salvano la memoria. Salvano proprio il passare del tempo. Quello scorrere su cui basano la loro durata, la loro forza, la loro tenacia, il loro essere legno vivo. Quel legno in cui salvano il tempo. Non un più generico “salvare nel legno”. Il tempo non si mescola al legno. È fatto legno; neppure quercia. Nessuna allusione poi, coerentemente, agli anelli di accrescimento da cui l’uomo ricava l’età degli alberi. Non è il tempo trascorso di cui si parla qui. Lo ripeto: è lo scorrere del tempo.
In Galassia, prima lirica della quarta sezione (p. 55), riscontro caratteristiche simili a quelle evidenziate in In veglia:
Abito i margini
del bosco quotidiano
e tocco le cortecce
a una a una
Conosco la distanza
fra le chiome
e anche la frenesia dell’acqua
che si aggrappa ai piedi
Come muschio
accarezzo in silenzio
questa galassia vegetale
Il soggetto che avvia il testo è solo apparentemente scontato. La scrittura è tale da non rendere obbligatoria la presenza dell’essere umano. Per ottenere questo effetto non serve però nascondersi dietro un’impassibilità meccanica. Ci vuole, anzi, una parola «che suoni d’umano»; e per forgiarla occorre salire su un’incudine, farsi «ferro e martello» (Ancora una parola, nell’ultima sezione intitolata “Lettere e bellezze d’ultima istanza”, p. 79). Le emozioni – in primo piano o ridotte al silenzio – devono lasciare che l’esistente si dica nella sua indifferenza a-morale nei nostri confronti. Perciò il ferro va percosso e ancora percosso. La parola deve uscire sulla «lingua ostaggio fra i denti» (Rasoterra, prima sezione, “Papaveri”, p. 25), bisogna sbattere «contro gli spigoli» (Spigoli, prima sezione, p. 27). Il risultato è un linguaggio che non va sopra le righe, che non si compiace in esacerbazioni dannose all’asciutta limpidezza del testo.
Dicevo che il soggetto con cui inizia Galassia è solo apparentemente scontato. Potrebbe essere il vento a parlare, a toccare le cortecce a una a una nel suo procedere, a conoscere la distanza tra le chiome, la frenesia dell’acqua. Il vento che come muschio accarezza questa galassia vegetale. In ogni caso, anche se fosse l’io lirico nulla pare fatto per metterlo in risalto. Vediamo bosco, cortecce, distanze, acqua che si aggrappa ai piedi facendoci dimenticare il resto del corpo. Vediamo muschio e ci perdiamo in una galassia vegetale. Dall’esistente è portato via il ricordo di un io davanti al verbo. Più precisamente, ci sono solo un toccarsi, un accarezzarsi, un conoscersi di esistenti. Sembra realizzarsi quanto Jean Arp auspicava parlando delle opere d’arte concreta: «dovrebbero restare anonime nel grande atelier della natura come le nuvole, le montagne, i mari, gli animali, gli uomini». E concludeva: «Sì! Gli uomini dovrebbero rientrare nella natura!» [7].
Dall’esistente è portato via il soggetto, che sia trasparente o opaco, uomo o vento. Se questo accade è in virtù di quella «frammentazione dei versi», del «loro sbriciolarsi e condensarsi sulla pagina» di cui parla il poeta Luciano Benini Sforza che, nella sua prefazione, rende onore a questa raccolta «intensa, davvero intensa e forte» (p. 9). Nella postfazione Mariangela Gritta Grainer, riprendendo quel pensiero, suggerisce «frammentazione “lineare”» (p. 92) [8]. La esemplificano bene «Come muschio», «questa galassia vegetale» e, in mezzo, «accarezzo in silenzio». Tre versi quasi autonomi. Quello centrale distanzia e compatta gli altri due.
La seconda poesia di “Nel bagliore verde” s’intitola Da secoli:
Parlami della luna
del suo riflesso lungo il sentiero
nelle notti di pienezza
di quel suo passare
leggermente oltre gli alberi
e del lupo
che ti cammina a fianco
verso le radure
Dimmi dei ghiri
delle voci
ai piedi dei castagni
che sanno da secoli
che tacciono nel buio
«Parlami» apre alla luna, al suo riflesso. «Dimmi» apre ai ghiri, alle «voci / ai piedi dei castagni». Anche qui nessun soggetto definito. Quei due verbi potrebbero trasformarsi in una sorta di due punti da nulla preceduti:
: della luna
del suo riflesso lungo il sentiero
nelle notti di pienezza
Il riflesso della luna si muove lungo il sentiero e questo movimento continua nel passare oltre gli alberi. Non s’arresta e prosegue col «lupo che ti cammina a fianco». Nella seconda parte del testo ghiri, voci ai piedi dei castagni portano ancora con sé un residuo di attività. Tutto si ferma poi a terra dove quegli alberi tacciono nel buio. Via ogni voce. Silenzio. E via la luce. I castagni, inoltre, hanno un’altra caratteristica: stanno, certo, ma soprattutto sanno da secoli. Qui l’invito iniziale a parlare, l’invito a dire con cui inizia la seconda parte, quel parlare legato all’uomo e che presuppone conoscenza è messo ai margini dal sapere secolare dei castagni. Il segno d’interpunzione evocato poco fa trova qualche giustificazione.
Un cenno ora, alla terza poesia di “Nel bagliore verde”. Quando tutto si è placato:
Salgono
dalle rive del fiume
quando tutto si è placato
Piccoli lumi
avvolgono nella loro danza
anche i corpi pesanti
Ogni scelta lessicale e sintattica comporta uno scarto per cui diventa difficile se non impossibile ricentrarsi su un soggetto e, in particolare, su un soggetto umano. Il controllo delle emozioni cerca di lasciare da solo l’esistente. Salgono piccoli lumi dalle rive del fiume, quando tutto si è placato. Che cosa si è placato? Non un’interiorità e nemmeno un’interiorità che la natura placata acquieterebbe. I piccoli lumi con la loro danza, con la leggerezza che possiamo prestare loro avvolgono pure i corpi pesanti. Giustamente, di quali corpi si tratti non è dato sapere. Corpi di uomini? Corpi di animali selvatici? Colline? Montagne?
L’ultima poesia della sezione è In qualche prato:
Ancora
col passo zoppicante
hai esplorato
le pareti del bosco
Una cascata leggera
racconta millenni d’acqua
e pagine di roccia
E noi possiamo ancora giurare
che esistono ranuncoli
in qualche prato
‘Giurare’ è il termine più importante. Non è ‘affermare’ che da qualche parte esistono ranuncoli. È giurarlo. Non può esserci dire più solenne. Noi uomini siamo ancora capaci di qualcosa d’importante. Siamo in grado di «giurare / che esistono ranuncoli / / in qualche prato». Ne esistono ancora. Non molti. Quindi giurare acquista una rilevanza maggiore. All’inizio della lirica, chi ha esplorato le pareti del bosco «ancora / col passo zoppicante»? Un animale, un essere umano? Opto per un uomo o per un soggetto umanizzato: si parla di pareti (la casa), di cascata che racconta, di pagine di roccia. Cascata di natura poetica ben diversa dalle querce che salvano lo scorrere del tempo. L’uomo o ciò che lo rappresenta non è solo incerto sulle gambe; è forse vecchio. È scomparso? Il verbo è al passato, mentre i verbi che seguono sono al presente. È il poeta di un tempo andato? ‘Noi’ che possiamo ancora giurare siamo, invece, esseri del presente. Il nostro compito, se siamo pronti a prenderlo veramente sul serio, se siamo pronti ad assumerci questa responsabilità ha un sapore di salvezza in questo «nostro mondo / sicurissimo e orrendo» (Iban, nell’ultima sezione intitolata “Lettere e bellezze d’ultima istanza”, p. 78). Difficile dire meglio, con così poche parole: un mondo sicuro di sé, che nella sua arroganza è una vera e propria fabbrica d’insicurezza e, pertanto, innalza la sicurezza a bene supremo.
Entrando nella sezione “Vento fossile” ricompare, in Reti, il mondo sconvolto dall’uomo: «Si disfano le reti / a brandelli / le nostre foreste». La “salvezza” viene dal mare, dai suoi fondali che salvano «resine, scafi, / ossa, speranze / / e piccoli morti» (p. 66). In A fondo il sangue «si diluisce nel sangue». Non c’è granello o mollusco «che non conosca il suono / che sta distorcendo il fondo». Che cosa troverà di noi un archeologo della prossima era? Non troverà «forse nulla / perché il nostro oggi / si sarà scomposto / in disordinate molecole / / smagnetizzato / avrà raggiunto la sua forma / oscura» (p. 67). La sua forma oscura, come se fosse quella che più corrisponde al destino umano. Come se l’umano si fosse piegato, appiattito sulla sua parte buia. L’epoca in cui viviamo sembra mettere in piena luce quel lato. «Un vento fossile / scioglie il respiro / che ci tiene insieme», un’impronta di vento immemorabile disperde il respiro che ancora ci è comune. Ci sono tuttavia «Percezioni nuove / variazioni nel clima / ossidazioni». Qualcosa produce reazioni. Niente che abbia un profilo minimamente definito, benché sia evitato il sepolcro che si chiude senza speranza. Siamo nell’ordine di quanto, nella prima sezione, s’incontra in Spicciolo di silenzio:
Seme di carrubo
generato
nella stessa sostanza
del sangue
che già ci tocca i piedi
e ci corre incontro
Con “Lettere e bellezze di ultima istanza”, la sezione conclusiva, ecco ricomparire il filo della ribellione in Iban («Dai ribelli / abbiamo ereditato / il canto scomposto / benedetto dai fulmini», p. 78) o in Pronti all’uso («Cercate l’asprezza furente della ruggine / il ringhio profondo del mare / quando coi denti rosicchia le dighe», p. 81). Ecco annuciata l’ora, per quanto fragile, di una rinascita in Strofinare l’aria la cui delicatezza contrasta con l’asprezza di prima: «Vulnerabili scintille / / è ora / / che le nostre ali più antiche / escano dall’ambra / e tornino a strofinare l’aria» (p. 83). Ribellione, rinascita, memoria che resiste senza nostalgia. La memoria si fa essere autonomo, animaletto coi suoi guizzi: «in noi saltellano ancora / memorie di rondini, / respiri, arilli» (Lungo i tornanti, p. 74). Memorie, pensieri di rondini, respiri, involucri di semi saltellano vivaci al pari del seme di carrubo della prima sezione e «che già ci tocca i piedi / e ci corre incontro» (Spicciolo di silenzio, p. 23). S’annuncia un pensiero che è materia. Non è solo da essa inseparabile. Con Carolina Carlone la materia, echeggiando Karen Barad citata all’inizio, comincia nuovamente a contare. In tal modo l’uomo può continuare a resistere con il resto dell’esistente e non contro di esso.
Ginevra, ottobre 2018
JEAN SOLDINI
[1] Carolina Carlone (Ravenna, 1964) è insegnante. Ha studiato all’Università di Bologna, dove si è laureata in Storia contemporanea con una tesi di stampo economico la cui sintesi è stata pubblicata, nel 1989, in «Padania. Storia cultura istituzioni» (rivista semestrale dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara). Con Azelio Ortali, allora direttore del Museo Ornitologico di Ravenna, ha pubblicato il volume Il Museo Etnografico Cavazzutti di Ravenna. Storia di una scoperta (Ravenna 1990). Come poetessa è autrice di: La stanza del tè (Ravenna 1999), Col passo degli esuli. Trittico (Ravenna 2000), Webcam (Ravenna 2002), Ponti mobili (Ravenna 2003). A queste raccolte, ha fatto seguito Alessandro speaks. Tessitura a più voci (Villa Verucchio 2006).
[2] Con interventi di Luciano Benini Sforza, Mariangela Gritta Grainer e Nevio Casadio, L’arcolaio, Forlì 2018.
[3] Cfr. Rosa Braidotti, Four Theses on Posthuman Feminism, in Richard Grusin, a cura di, Anthropocene Feminism, University of Minnesota Press, Minneapolis 2017, p. 39.
[4] Il testo originale, giocando sulla parola matter, è molto più espressiva: «Language matters. Discourse matters. Culture matters. There is an important sense in which the only thing that does not seem to matter anymore is matter» (Karen Barad, Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter, in «Signs. Journal of Women in Culture and Society», XXVIII, 2003, 3, p. 801).
[5] Charles Péguy, Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle, in Œuvres en prose complètes, Gallimard, Paris 1992, vol. III, pp. 676-677.
[6] Richard Karban, Plant Behaviour and Communication, in «Ecology Letters», 2008, 11, p. 727.
[7] Jean Arp, Art concret, in catalogo Konkrete Kunst, a cura di Max Bill, Kunsthalle, Basel 1944, p. 11.
[8] Mariangela Gritta Grainer (1946) è presidente dell’associazione Ilaria Alpi. È stata parlamentare del Partito Democratico della Sinistra e membro della commissione bicamerale d’inchiesta sulla malacooperazione tra Italia e Paesi in via di sviluppo. Ha poi partecipato come consulente alla commissione parlamentare che ha indagato sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.