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antonio pibiri intervistato sulla rivista Luminamundi

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LIMINA MUNDI

 

Il cerchio e la botte: ANTONIO PIBIRI

 

Un’altra intervista nell’ambito della rubrica dedicata alle interviste di autori, poeti e scrittori potenzialmente noti, modestamente noti, mediamente noti, molto noti; le interviste vengono pubblicate qui su LIMINA MUNDI in linea di massima il lunedì (non è un’indicazione rigida, ma orientativa).

Il titolo dell’intervista che proponiamo oggi indica che lo scambio di domande e risposte è rapido e conciso. Nelle risposte non è permesso dilungarsi oltre tre righe. Colpo su colpo, come i bottai che ne assestavano ai fasci di legna della botte e ai cerchi che li stringevano. Attività dalla quale deriva il noto detto: “Un colpo al cerchio e uno alla botte”. Qui da intendersi non tanto nel senso di mantenere l’equilibrio in una situazione scomoda, ma, piuttosto in quello del convergere, tra botta e risposta, al risultato comune di raccontare con le parole dei poeti il mondo della poesia.

Questa è un’intervista “tipo” che sarà sottoposta anche ad altri autori oltre a quello intervistato oggi che è ANTONIO PIBIRI.

 

 

 

  • Che cos’è per te la poesia e che cos’ è in grado di esprimere?

Non è sicuramente un “genere letterario”, sarebbe come svilirla, limitarla ad uno statuto; preferisco ripensare la poesia in termini di “qualità”, splendore creativo, brillio che un’opera può più o meno possedere.

  1. Quando e in che modo ti sei avvicinato alla poesia?

Mi sono avvicinato alla scrittura creativa molto ingenuamente, attraverso l’elaborazione del materiale onirico, in analisi, un “Diario onirico”, alla Meret Oppenheim, anche se con meno costanza dell’artista tedesca, che a quanto pare ha continuato a redigerlo fino agli ultimi giorni della sua vita.

  1. Chi sono stati i tuoi maestri o meglio i tuoi punti di riferimento?

Amo molto i movimenti e i poeti surrealisti (Francia, Romania, Spagna ecc.) per la loro carica eversiva. Ho avuto diversi punti di riferimento, troppi, perché credo che la scrittura debba essere in continua evoluzione, superarsi senza posa.

  1. Ricordi il tuo primo verso?

Assolutamente no, ma sarà stato qualcosa di molto manieristico, o peggio ancora un goffo scimmiottamento.

  1. A chi si rivolge la tua poesia?

Si rivolge a me e a tutti quelli  che credono in una trasformazione radicale della specie umana, oramai giunta a un drammatico bivio. Ma la poesia, come scrittura, è solo un raggio del movimento di una ruota, che è l’essere umano nella sua totalità demoniaca e angelica.

  1. E’ stata dichiarata la morte della poesia  e la sua marginalità nell’età della tecnica. In libreria i libri dei poeti contemporanei sono poco presenti e spesso relegati in un angolo, solo i classici godono ancora di un certo prestigio. Di contro c’è un fiorire di readings, di concorsi letterari e di premi. Tu cosa pensi di tutto questo?

Penso che la poesia debba essere impopolare, anti-mediatica, clandestina, tutto il rumore, amplificato negli ultimi decenni dal Web, è invece un modo per normalizzarla, renderla “fruibile” come qualsiasi altro oggetto di consumo. A mio avviso ha più a che fare con il silenzio delle tundre e dei deserti, che con la Società dello Spettacolo.

  1. C’è chi tenta un coinvolgimento nei fatti sociali del suo tempo, chi invece ritrova la verità della poesia e della vita nella sua Arcadia più o meno felice. Tu dove trovi   ispirazione? E come nascono le tue poesie?

Probabilmente nasce da un piccolo spazio mentale, dove l’Ego e le strutture sociali non imperversano, o sono meno presenti…e da svariati tipi di esperienza percettiva, sensoriale, intellettuale ecc, che richiedono una “registrazione”. Ma non tutto, sappiamo, è degno di nota.

  1. Secondo te i giovani di oggi amano ancora la poesia?

I giovani hanno seri problemi nel guidare la propria Attenzione su un qualsiasi punto focale. I mezzi di distrazione di massa, la cultura dell’alienazione, la scuola, continuano a fare danni incalcolabili sulle potenzialità poetiche(creative) delle nuove generazioni.

  1. Che   importanza è attribuita oggi alla poesia dal nostro sistema d’istruzione?

Un’importanza “scolastica”, dunque ipocrita direi.

  1. Ci sono degli orientamenti prevalenti nella poesia italiana ed europea?

Spero di no, anche se qualche cialtrone e club letterari cercano di indirizzarla, creare scuole e affiliati. Il movimento creativo non si lascia imbrigliare da nessuno, è una “terra senza sentieri”, mutuando un adagio di Krishnamurti.

  1. La poesia è in grado di influenzare il linguaggio?

Spero  sia in grado anche in minima parte di influenzare il moto del sangue.

  1. Può avere un ruolo politico?

La politica al momento è un connubio fra Potere e business, spero di no…

  1. é cambiato il “mestiere” del poeta nel tempo?

Forse richiede un grado di consapevolezza, responsabilità, e onestà con se stessi maggiore, ma la parola “poeta” è una lapide sociale, conviene usarla il meno possibile a pare mio.

  1. Alfonso Berardinelli ha sostenuto che oggi chi scrive versi non dovrebbe considerare valido nessun testo se non regge il confronto con un articolo di giornale o con una canzone. Intendeva probabilmente dire che i poeti contemporanei non sono capaci di comunicare con il lettore. Tu cosa ne pensi?

Bisognerebbe chiedersi seriamente cosa è “comunicazione”; i giornali sono più utili per lucidare i vetri, la canzone è musica, un altro discorso. Credo che Berardinelli si riferisca a un approccio superficiale con “la parola”, non sufficientemente critico e consapevole.

  1. Attualmente in che stato di salute versa la cultura italiana ed in particolare la poesia?

Il panorama è variegato. La cultura e la poesia italiana e non solo, risentono di un modello mentale oramai vecchio e disfunzionale.

  1. Il nome di un autore poco noto che meriterebbe di essere rivalutato.

Il parigino Thierry Metz,  Gherasim Luca … tra gli italiani sicuramente Bigongiari.

  1. C’è ancora bisogno della poesia oggi e perché?

C’è bisogno di un profondo rinnovamento culturale, spirituale…la poesia è, o potrebbe essere una “zona franca” dove operare e “farsi operare”, ma non sotto anestesia.

 

 

Note biografiche

Nato a Sassari nel 1968, Antonio Pibiri risiede ad Alghero. Dopo la Maturità sviluppa attenzione verso la scrittura creativa e la Musicologia, formandosi da autodidatta. Presenta i suoi inediti con l’attrice teatrale Fiammetta Mura, comparendo in diverse riviste specializzate( Crocetti Poesia, Il foglio Clandestino); nel 2004 stampa presso l’editore Magnum di Sassari la prima silloge: “Di quinta in quinta”, e nel 2010 con Lampi di stampa (Milano) “Il mondo che rimane”, con la quale vince il Premio Speciale della Critica (Premio Internazionale della città di Sassari, Ottobre in Poesia), e la Menzione d’Onore all’edizione 2011 del Premio Lorenzo Montano. Nel 2014, sempre con lo stesso editore di Milano, pubblica “Le matite di Henze”, a cui l’attore e musicista Matteo Gazzolo dedica una sua Lettura speciale, con musiche di Marcello Peghin al decacordo e live electronics. Le matite di Henze vincono il secondo posto al Premio Internazionale della Poesia (Sassari) edizione 2015. L’ultimo lavoro è del maggio 2016: Chiaro di terra, con l’editore L’arcolaio di Forlì.

Iniziano domani, 27 maggio, gli incontri di poesia a voltana (ra).

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PROTOTIPO DEFINITIVO senonnelsilenziofentcavalereVOLTANA (RA)

27 MAGGIO 2016 – ORE 20,45

GLI ANNUALI APPUNTAMENTI DI VOLTANA (RA)

***

Centro Sociale Ca’ Vecchia – P.zza Teseo Guerra, 1 – VOLTANA (RA)

 

Serata dedicata a due splendidi autori de L’Arcolaio.

BARBARA HERZOG e PAOLO GAGLIARDI.

CON I LORO ULTIMI LIBRI, RISPETTIVAMENTE:

“SE NON NEL SILENZIO” e “FENT, CAVAL E RE”

INTERVENTI MUSIVALI DEL GRUPPO JAMIN-à

ENTRATA LIBERA

 

VALENTINA DI CESARE INTERVISTA IL NOSTRO DAMIANO SINFONICO

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Nuova immagine prototipo con prefatore

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Il piacere di scrivere: intervista a Damiano Sinfonico

Tratto dal blog Finzioni

Si è scherzato un’ora intera.

Le risa si propagavano nel corridoio.

Una corrente magnetica.

Altre risa rispondevano dalle stanze intorno.

Si moltiplicavano lungo il reparto.

Poi è entrato l’infermiere, arcigno.

Ci ha rimproverati.

Come potevamo disturbare una tale quiete?

L’orario di visita stava scadendo.

Eravamo agli ultimi minuti.

Abbiamo riso ancora.

Qualcuno stava morendo.

 

Damiano Sinfonico (Genova, 1987) ha conseguito un dottorato in letteratura italiana e attualmente insegna italiano presso l’Università di Granada. Collabora con “Poesia” e con il blog “La Balena Bianca”, e è redattore di “Nuova Corrente”. Storie (prefazione di Massimo Gezzi, L’arcolaio, Forlì 2015) è il suo primo libro di poesie.

1) Storie è la tua opera prima, un lavoro di precisione oserei dire. Quattro sezioni compongono la raccolta, dove non vi sono isterismi né drammi generazionali e il tempo sembra sospeso. Cosa secondo te fa sì che un testo sia poesia?

Bene, cominciamo dalle cose facili. Per me una poesia mette in combustione uno stato emotivo o una comprensione del mondo. Deve partire da un contesto e poi svilupparlo, fino ad arrivare a un punto centrale che viene totalmente illuminato o trasformato alla fine. Dal primo all’ultimo verso è passata una storia. C’è del tempo in mezzo, qualcosa è cambiato, e chi ha vissuto quei passaggi alla fine non è più lo stesso di prima. Ci deve essere come una corrente che discende dal primo all’ultimo verso, e che li lega. Poi la precisione delle parole è essenziale. Per usare un’immagine più comune, una poesia potrebbe essere come l’odore di terra bagnata: un insieme di sensazioni che abbiamo già provato ma che ogni volta ci colma di un piacere intenso.

2) I tuoi sono versi non mi sembrano sociali nelle intenzioni, eppure riescono ad esserlo. Ti riconosci in questa visione?

Ad essere sincero no, ma non avrei nulla in contrario. Spero che chi li legga se ne senta coinvolto.

3) Ripensando alle parole di Lukacs che sosteneva che “La poesia è la rosa sull’abisso”, i lampi di vita delle tue Storie sono così: ovattano  l’esistenza del singolo e riescono ad isolarla dal resto che pure resta visibile. Il tuo è un modo di “salvare” la purezza di certi momenti dalla volgarità della fretta?

Sicuramente. Mi piacerebbe soffermarmi su ogni poesia e “spiegarla” alla luce di questa tua intuizione. Ogni poesia ricrea un’atmosfera, la sottrae alla fretta, alla consunzione. Per esempio L’ultima colazione, in place des Vosges. mette insieme il piacere di fare colazione all’aperto in un luogo così bello e i ripetitivi percorsi nei tunnel della metropolitana. La tensione è alta perché ci sono una partenza e un addio, ma per me quella poesia tiene insieme e fotografa anche alcuni pezzi di una stagione della mia vita.

4) Ho amato subito i tuoi versi, per la loro sincerità e anche perché non mi pare vi sia un’ansia da prestazione che invece impera in molta poesia contemporanea. Chi sono i poeti che più ami?

Vorrei dirlo sottovoce, ma per me la poesia è Montale. Ultimamente ho letto delle poesie splendide di Virgilio Giotti, triestino, morto nel 1957. Un altro che mi pare grande è Angelo Maria Ripellino, la sua È tanto che non ti scrivo è incredibile. Una volta su “Poesia” ho letto un gruppo di poesie di Ghiannis Ritsos e me ne sono innamorato. Poi naturalmente ci sono anche alcuni che sento come dei fratelli maggiori, che ho letto di più negli ultimi anni e da cui ho imparato molto: penso a Massimo Gezzi, Azzurra D’Agostino, Tommaso Di Dio, Jacopo Ramonda, Yari Bernasconi.

5) Lo scrittore Alain Bosquet ha affermato: “Il poeta dapprima trova. Egli cerca dopo”. È la stessa cosa anche per te?

La frase di Bosquet è molto bella e anche enigmatica, sfuggente. Potrei dire di sì, nel senso che, scritta una poesia, ci vuole del tempo per ricollocarla nella propria vita; e una volta nata, l’autore è costretto a inseguirla per ritrovare il piacere di comporla, ma credo che non lo proverà più.

 Valentina Di Cesare

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PIER DAMIANO ORI RIFLETTE SULL’ULTIMO LIBRO DI ANTONIO PIBIRI, “CHIARO DI TERRA”

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PIER DAMIANO ORI PARLA DEL LIBRO DI ANTONIO PIBIRI,

“CHIARO DI TERRA” .

ACCOUNT FACEBOOK DEL CRITICO LETTERARIO.

 

Antonio Pibiri è uno dei più felici incontri che io abbia fatto nella poesia in questi ultimi tempi. Ho avuto il piacere di ricevere da lui il suo Chiaro di terra, appena pubblicato da L’Arcolaio. Io ho scritto il breve ragionamento che segue.

Chiaro di terra, vive di una contraddizione fondamentale: è una poesia di narrazione che contemporaneamente mira a cogliere assoluti nella vita quotidiana e nella vita in generale; sempre la nostra, che “ci trascende”. Lo fa soprattutto collegando arcaicità, intesa come immutabilità delle costanti umane, e osservazione della quotidianità; “Hai suonato i flauti / notte di vento / con la mia casa // imbracci premendo la lingua / contro il borodo dei vani, gli abbaini / le micro-fessure tra porte e finestre / le trombe tibetane sotto il pavimento. / L’elenco è incompleto.” La lingua, alta, è usata sapientemente per esplorare l’oggi, attraverso immediate precipitazioni: “la sua testa era un piccolo interno borghese”.

La vertigine non ci abbandona mai nei testi di Antonio Pibiri; così il suo “pensiero poetante” nasce proprio da una vertigine, temporale e culturale, e alla vertigine ritorna dopo un lungo viaggio che può durare anche solo, a volte, un singolo verso. Natura e vita quotidiana precipitano continuamente: ognuno si riconosce nell’altra. Strada senza scampo perché lo scampo sta in quello scarto; così prossimo a non vedere più le cose ma esclusivamente le idee che le sorreggono.

Pibiri fa errare i propri testi dalle cause naturali o psichiche, al fatto così com’è, o meglio, come lo si vede. perché c’è un “colmo” di cultura nella sua poesia che spontaneamente si riversa nell’esperienza: “Non altro non / la paura di chi / dice cos’è”. O anche, altra vertigine: “L’alba mira alle gambe.”

Osservatore per essere pensatore, secondo, a me pare, la lezione di Schopenauer, attraverso, a volte, l’arte pittorica: “Una screziatura color macero/di foglia sul muro di cucina ./ Un rorschach rupestre.” Pibiri non teme le contaminazioni, ma non le cerca. È il mondo che osserva ad essere contaminato. L’autore non giudica, non sempre, ma si difende con l’uso di termini desueti dentro un testo tremendamente contemporaneo.

La natura non ha più una voce assoluta, ma solo una voce che si avverte. La cultura diventa un tramite per continuare a trasmetterla, quella voce: tradizione e annunciazione; dove la tradizione è persa e l’annunciazione non ha ancora oggetto definito.

La poesia di Pibiri è una poesia dell’attesa: testi della terra di mezzo che hanno a che vedere con ciò che si è perso e con ciò che ancora non si trova.

Crinale difficile su cui lavorare, ma altamente etico percorso con una lingua esatta ma libera.

Chiaro di terra mi sembra un testo importante, nel contenuto, che è del tutto risolto, grazie a una linguaggio poetico forgiato ad hoc, pienamente realizzato.

PIER DAMIANO ORI

 

ADRIANA GLORIA MARIGO RECENSISCE “LA VOCAZIONE DELLA BALENA” DI CLAUDIO PAGELLI

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In questo affare strano e confuso che chiamiamo vita: “La vocazione della balena ” di Claudio Pagelli

Dal blog Samgha

 di Adriana Gloria Marigo

 

«Si dànno, in questo affare strano e confuso che chiamiamo vita, circostanze e occasioni bizzarre nelle quali si prende tutto l’universo come un gran tiro birbone, anche se non se ne capisce che vagamente il senso, e si ha più che il sospetto che tutto quanto il tiro sia stato giocato soltanto alle proprie spalle. Tuttavia, niente serve a scoraggiarci, per niente sembra valga la pena di metterci a litigare. Si buttan giù tutti i fatti, tutti i culti, e le credenze, e le opinioni, tutte le asperità visibili e invisibili, per nocchiute che siano; come uno struzzo dallo stomaco possente trangugia pallottole e pietre focaie. E in quanto alle difficoltà e alle angustie di poco conto: prospettive d’improvvisa rovina, pericolo di rimetterci la vita o un braccio, tutte queste cose, e perfino la morte, sembrano non più che bottarelle date bene e con le migliori intenzioni, allegre gomitate impartite da quel vecchio invisibile e inspiegabile d’un giocherellone.» 1 scrive Herman Melville in quell’epica metafora della vita che è Moby Dick ricorrendo alla narrazione della caccia all’esemplare di un capodoglio bianco che non si lascia catturare, porta distruzione a ogni tentativo di ramponamento, fino all’ultimo dell’inabissamento del Pequod e della morte di Achab. La letteratura ci consegna storie di balene e mari ribollenti burrasche a partire dai testi sacri, passando attraverso la storia del burattino di legno più famoso, Rudyard Kipling, Julian Green, Paul Auster e dunque possiamo riconoscere in questo tema la forte presenza di un mito dalla natura terribile e potente che sovrasta l’uomo, l’obbliga a tenere in conto il rapporto con il tremendo, e che quando chiama alla sfida, alla lotta, quasi fosse una vocazione, impone di mostrare le virtù necessarie a condurre e  superare l’impresa.

L’allegoria della natura terrifica, il suo aspetto di caos allucinante, la logica bizzarra degli accadimenti, devono essere stati introiettati e poi trasposti alla coscienza da Claudio Pagelli, che sulla questione compone La vocazione della balena, L’Arcolaio, 2015 secondo una personalissima interpretazione collocata alla latitudine della città, dei suoi riti, delle complicanze che implica il tempo frequentato nell’ordinario e nello straordinario del vivere quotidiano. Tanto da accompagnare il titolo di copertina con una fotografia in bianco  e nero che riproduce un moderno abituale leviatano: traffico di città in ora serale in cui campeggia un mezzo pubblico che inghiotte persone di ritorno dal lavoro, assiepate come accade sui mezzi di trasporto di una metropoli nelle ore di punta quando, pur di rientrare a casa, si accetta di trovarsi stipati entro tram, bus, vagoni di metrò, essere investiti dalla sensazione di straniamento che il frenetico andare scolpisce sui volti, sui corpi, sui gesti, sottrae percentuali di sogno o  insinua derive di visioni.

 Superate la prefazione di Guido Oldani, le epigrafi che citano M. Houellebecq, S. Cattaneo e di nuovo G. Oldani, incontriamo la poesia che apre alla raccolta strutturata in quattro sezioni assumendo il compito impressivo di dichiarazione o limine oltre il quale si manifesta il paesaggio permeato di lembi d’insensatezza, incongruenza, di contraddittorio, che sono supporto al senso di caos e al tempo stesso sua materializzazione: oggi siamo tutti sprovvisti di verità personale, però testimoniamo l’omologazione come la sola verità plausibile,  in quanto « è nel buio, si dice, che s’affilano / i ferri del sangue, che s’impara / il mestiere feroce dell’inganno, / eppure la luce persiste scaltra / mondo dopo mondo / a tatuare di stelle la schiena della notte…/».2,  tuttavia restando implicati anche nel piano della autenticità, laddove si può dare inizio a dimensioni creative, ossia a pensiero in cui l’empatia esercita un ruolo di prestigio poiché capace di cogliere i varchi attraverso i quali cambiare o addirittura sovvertire canoni usuali.

Entrando nella prima sezione ci troviamo nei dintorni di Chisciotte: Pagelli non disdegna i classici  ̶  si avvertono i retaggi senza che questi, per esuberanza o richiamo alla visibilità, si manifestino alacremente  ̶ , ne tratta con i modi dovuti alla sobrietà e in particolare alla destinazione d’uso contemporaneo, alla rivisitazione entro il contesto dei temi affiorati sin dal titolo e dall’immagine di copertina. Ecco allora in  L’inferno di Chisciotte sette poesie testimoni di contesti attualissimi, di spaccati di vita  e lavoro ad alto tasso di alienazione che dal piano reale trovano facilmente la via per un piano d’irrealtà a significanza di come ciò che si frequenta  e vive rimandi a cause prime, logiche connesse con la struttura psichica degli uomini, lo spasmo di darsi una direttrice esistenziale che conforti rassicurando: «cosa vuole che interessi una proposta futurista? / la mia tecnologia è la mano che cura i magneti / la pazienza degli aghi che annusano direzioni com esegugi…» 3 .

Vi è un crescendo, un andamento liturgico, nella successione dei contenuti delle sezioni che si presentano come minuscole sillogi: Bestiario d’ufficio introduce al corpo centrale della raccolta presentando esemplari umani trasmutati in animali di differenti dimensioni e carichi di significati archetipali e che del resto la poesia non ha mai disdegnato, come E. Zolla ha evidenziato in Archetipi quando analizza il contributo dei romantici inglesi fino a Dylan Thomas; in questa seconda sezione Pagelli propone la poesia come esperienza di archetipi e il risultato, che fonda la radice mistica nel numero sette – tante sono le brevi poesie impressive  ̶ , è quello di ottenere un paesaggio percorso da «un pensiero (che) s’infila / quasi per sbaglio nell’aria  ̶ /» 4 , «l’urticante indifferenza delle cose /» 5, «una coccinella più grande della mano / che gli parlava del destino…/ 6, «lei che abita quel corpicino / di ragno bianco, quasi cercando / la via di fuga da questa trappola di parole /» 7 offrendo uno squarcio sull’assurda e forse ottusa manifestazione dell’essere quando esprime «lo sbilenco universo / della poca sopravvivenza / il magro avanzo della buona novella / smarrita nei nostri occhi  ̶  / 8.

Arriviamo in Caffè in sette quarti  a un  microcosmo di vita che corre in fretta, in sentore di competizione e qualche delirio, distorsioni e perdita di sé, capacità d’illudersi prontamente deluse, identità blandite da furori narcisistici, seduzioni, mistificazioni, sensi di colpa: quasi un prontuario “in situazione” declinato in quartine smilze, su cui l’autore ha lavorato di scalpello costruendo otto sculturine nell’aspetto di un verso incisivo, elegante, particolarmente assertivo pur nella discrezione dei puntini di sospensione, quasi a lasciare intendere la possibilità di un ribaltamento di piano, dell’avvento di una realtà toccata dalla grazia, dalla realizzazione del desiderio: Pagelli, in queste sette quartine in cui l’aggettivazione è ridotta ai minimi termini lasciando uscire delicata sonorità musicale, tende alla prossimità con quanto Melanie Klein scrive riguardo alla capacità di sognare bellezza e verità, ossia «Il poeta (…) sta sul confine tra veglia e sonno ed è perciò esente dalle paure, dai terrori che il loro sfiorarsi (…) produce.» 9.

Gli esemplari umani in sembianze di animali si trasformano in esseri di legno in Burattini; la versificazione qui assume corpo, abbandonando la rarefazione di Caffè in sette quarti, quasi una compensazione alla struttura aerea evanescente del codice dei desideri, poiché i temi della terza sezione gravano di densità materiale «il corpo aperto come una rosa / e una pozza rossa intorno da far paura» 10, carnalità egoiche che impastano inganno «la ragazza ne ha fatta di strada negli anni / col suo profilo francese e la lingua svelta / educata al codice degli inganni…/ 11, ingratitudini, movimenti micragnosi, vicinanza predatoria «non conta la noia  ̶  recita sbracato il direttore  ̶  / sette contatti utili l’ora, mi raccomando / il cliente va soddisfatto ad ogni costo / anche slogando un poco gli arti  ̶  da bravi  ̶  / che senza fatica la lingua non trotta, il mercato non tira…/ 12.

La circolarità della raccolta si conclude come specchiatura del titolo e dell’immagine di copertina, lasciando trasparire che la metropoli all’inizio intuibile da quel tram che riporta il numero uno, è Milano, affidando per traslato il nome a quello del luogo antico “Bovisa”, zona di campagna passata attraverso riassetti urbanistici importanti fino ad assumere l’aspetto odierno di quartiere adatto alle avanguardie culturali: è in questa plaquette di otto poesie che il poeta affida il sentimento per la città nominando atmosfere «… il treno scivola / sottile sui binari odorosi di maggio / fra campi veloci ed alveari di periferia  ̶  /» 13, ammettendo devozioni «a maggio le mani s’incendiano / come giardini di marte / sotto pelle s’apre un mondo / di specie nuove  ̶  fiori scabri e rose nane  ̶  / il rito cinico nella bocca di primavera, / nella pancia buia della bovisa / scivolano piano i lombrichi delle nord / quasi fluorescente il mio commiato dal finestrino…/» 14, connotando le trasformazioni che rimandano a malinconie per un passato di cui restano vaghi segni mentre si afferma l’insensata mancanza di attenzione lungo il va e vieni spasmodico di un quotidiano che genera estranei, «timidi mitili, pesci azzurri / ed altre specie minori in arrivo al binario sei» 15,   solitudini invereconde «l’ombra di granchio del vecchio professore / sbanda un poco sulle scale, nella borsa marrone / qualche lisca di sogno, / una frase di commiato / sugli appunti dell’estrema lezione…/»15.

___________________________
 1  H. Melville, Moby Dick, Cap. XLIX, pp. 290-291
 2  C. Pagelli, La vocazione della balena, L’Arcolaio, 2015, “tatuaggi”,  p. 11
 3  Ivi, “la bussola”, p. 18
 4  Ivi, “le oche”, p. 25
 5  Ivi, “meduse”, p. 26
 6  Ivi, “la coccinella”, p. 28
 7 Ivi, “il ragno bianco”, p. 29
 8 Ivi, “il pollo”, p. 30
 9  E. Zolla, Archetipi, Marsilio, Venezia 1988, 2005, p. 124
10 Ivi, “il pugile”, p. 45
11 Ivi, “la manager”, p. 4712 Ivi, “l’intervistatore”, p. 51
13 Ivi, “il viaggio del plancton”, p. 55
14 Ivi, “i giardini di marte”, p. 56
15 Ivi, “la vocazione della balena”, p. 62

 

 

 

ROBERTO ZACCARIA RECENSISCE IL LIBRO DI ANDREA LABATE, “LA RESA DEL MARGINE”

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UNA IMPECCABILE E SIMPATICA COLLABORAZIONE TRA DUE AUTORI DE L’ARCOLAIO! ROBERTO ZACCARIA RECENSISCE IL LIBRO DI ANDREA LABATE,

“LA RESA DEL MARGINE”.

ARTICOLO PUBBLICATO SUL BLOG “LA COSTRUZIONE DEL VERSO” E IN SIMULTANEA LANCIATA SU FACEBOOK E TWITTER.

 

Leggendo la poesia di Andrea Labate, milanese, alla sua prima pubblicazione, ho subito pensato al movimento tutto italiano della neo-avanguardia: in particolare a “La ragazza Carla” di Elio Pagliarani, coi suoi ritmi monotoni, quegli spazi claustrofobici, e quel cielo colore di lamiera. “Edifici fatiscenti”, “latta fusa”, “stridere del gas”, “notte meccanica”, “puzza schizofrenica di un’alba da impiegati”, sono tutte espressioni in qualche modo riconducibili alla poesia di quegli anni. E non è da escludere un’influenza di Pagliarani su Labate visto che lo stesso Pagliarani, romagnolo di nascita, trascorse molti anni della sua vita proprio nel capoluogo lombardo.

Al di là di ciò, la poesia di Labate Leggendo la poesia di Andrea Labate, milanese, alla sua prima pubblicazione, ho subito pensato al movimento tutto italiano della neo-avanguardia: in particolare a “La ragazza Carla” di Elio Pagliarani, coi suoi ritmi monotoni, quegli spazi claustrofobici, e quel cielo colore di lamiera. “Edifici fatiscenti”, “latta fusa”, “stridere del gas”, “notte meccanica”, “puzza schizofrenica di un’alba da impiegati”, sono tutte espressioni in qualche modo riconducibili alla poesia di quegli anni. E non è da escludere un’influenza di Pagliarani su Labate visto che lo stesso Pagliarani, romagnolo di nascita, è  molto legata alla geometria, alla precisione: è l’autore stesso a parlare di “terra sparsa sulle diagonali”, “ferri a bisettrice nella pancia”, “una lapide ricorderà la sagoma”. Si assiste ad una generale esigenza di definire uno spazio e un confine a tutte le visioni. Ma ciò non fa dell’autore un sostenitore dell’ordine e della fissità del mondo e delle idee. Anzi, è palpabile in tutta l’opera una preoccupazione legata all’incertezza di questa vita e all’impossibilita, da parte dell’individuo, di tracciare una linea precisa e visibile: “l’aria stride attorno al melo/ si sfrega ai grattacieli, qualcosa non funziona”, come a ricordarci che l’uomo raramente è padrone di sé stesso e che non esiste quindi una “sicurezza”. E ancora: “Non c’erano vuoti da arginare/ solo l’orientarsi dopo le apparenze/ sulla vita che palpitava sul drenaggio/ e non credeva alla rigidità delle corsie”.

La preoccupazione si traduce in sensibilità, quella sensibilità nei confronti anche delle piccole cose: lo stato trascurato dell’arte, lo scorrere inesorabile del tempo, il rimpianto per un amore perduto, la sofferenza per una madre che piange.

Il tema più frequente è lo scontro uomo/società, quest’ultima intesa non solo come ordine prestabilito di leggi create dall’uomo, ma anche come semplice collettività e insieme di individui.

Andrea è consapevole di vivere in un mondo “altro”, in un “mondo addormentato”, sentendosi come in apnea: nei confronti di esso, alcune volte domina la rassegnazione, come quando ci dice che il singolo non può sovrastare l’ordine costituito. Altre volte invece tenta di uscirne, richiamandosi alla legge naturale, se così vogliamo dire, oppure imponendosi egli stesso, impuntandosi quasi su quegli atteggiamenti che la società definirebbe poco educati.

Mi pare che nel libro vi sia costantemente la tendenza a scavalcare questa vita umana, sociale, fatta di preconcetti e rituali. In altri termini, la resa del margine – la cui espressione non ricorda tanto un ridare, un restituire, quanto piuttosto un dare, un definire – non è un arrivo, un qualcosa di chiuso: tutt’altro, è un punto di partenza per andare oltre dopo averlo delineato. È lecito pensarla in questo modo? La resa del margine è da interpretarsi come un vedere cieco che necessita di un superamento, verso l’uomo?

 

ROBERTO ZACCARIA

 

 

 

 

l’arcolaio presenta un nuovo libro, uscito quest’oggi: si tratta di “Chiaro di terra” del poeta Antonio Pìbiri.o

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Kenosi e ascolto nella poetica di Antonio Pibiri

di   Davide Zizza

 

Un assaggio di alcune poesie:

 

 

La parola non sostituisce l’assassinio.

Il simbolico lo argina.

Dice Caino – non so scrivere

parlo poco

e incontrerò mio fratello

in fondo al campo e le pietre

per tradirlo.

Giungi in tempo parola!

che richiami i figli per nome…

o del come fosse

finzione il temporale e gioco la ferita

La parola non sostituisce l’assassinio.

Il simbolico lo argina.

Dice Caino – non so scrivere

parlo poco

e incontrerò mio fratello

in fondo al campo e le pietre

per tradirlo.

Giungi in tempo parola!

che richiami i figli per nome…

o del come fosse

finzione il temporale e gioco la fer

.

– Un trucco di rosse bacche

mi inciderà la fronte.

 

*****

“fuori dal limbo non v’è eliso”
Elsa Morante

 

Al primo centro abitato, autogrill,

lungo la strada, non so dopo quale

tornante, dopo senza tormento.

 

Al primo ceppo o donna nel paesaggio,

bestie da tiro, dressage, la carne rossa

al banco, i domestici nella fretta di rincasare.

 

Lungo la strada e impervie sinòpie,

smarrita, franta in un prisma

di gioco a perdersi ovunque

comunque.

 

*****

Res derelicta, la terra sacra

 

Il vecchio cotonificio abbandonato nel regno.

Le radici del ficus e del vino lo sollevano al sole

rompono la linea retta lì sull’attenti

per il garbo di Dio.

 

Un dove interrogato in sogno, souvenir

che appartiene a nessun tempo.

Pietre in equilibrio la sua certezza.

Non uno sbavo di seme umano

dentro il perimetrale.

 

Di quei ruderi mio sovrano,

tutto il tempo sveglio ma con occhi

meravigliosamente chiusi.

 

*****

Un aranceto piantato nell’incolto

stretto da pianterreni a invaso.

La notte puoi vedere i suoi frutti per terra:

splendono tra erbe, nel segreto crespo

di foglie, e cerchioni arsi in ruggine

(o era la grande ruota di Duchamp?).

Non di scorze al suolo l’impressione

ma tonde lanterne colme di sé, pleiadi,

lampadine da uno scampanìo di ghiere

e per sortilegio ancora in vita nel buio.

La bio-luminescenza che radia

una natura morta, nella stanza

sempre in ombra del padre.

 

*****

Omaggio a Leonard Freed

 

Una pompa d’acqua fuori controllo per la pressione

picchia convulsamente sull’asfalto. La coda del drago.

Ma il sole esaspera, e i bambini di Harlem accorrono

seminudi, saltano divertiti tra le sferze gelate,

in festa per il refrigerio.

Gli adulti intorno li guardano

con in mano le pietre

del disdegno.

 

*****

Da “Visioni dell’ultimo”

 

Si stacca in volo il gheppio

improvviso da cespugli

 

il lentischio sul mare.

 

Lo videro gli amanti?

Nessuno lo vide

metà

e metà

con Dio?

 

*****

Il lampione

ultimo avamposto

sperduto sul nudo litorale

d’infermi

e straniamenti di De Chirico

possedeva per magione un raggio

d’ombra pari alla buca da golf

ma con foglie lobate

quanto basta

grandi a proteggerci?

 

*****

Come si costituisce una parentela?

Come percorrere

 

indietro – il sangue in discesa,

avanti – su rampini, gli alti fondi.

 

Incontrerai Dio dietro la siepe

sul dito portante,

alla combustione solare di mondi.

 

Ma prima ancora le scimmie, le pulci,

un bosco di felci, i bambini.

 

*****

Da Le mani per terra

 

tra i dolori che

non richiedono nessuna ferita

Ingeborg Bachmann

 

L’ozio dei semi

 

Ogni crisi impupa

dentro un sonno oro

se nero su sangue è coccinella.

Il principio colorante, prisma

che sparge in bocca luce, seme.

Raffina quel che tace.

 

*

 

Il frutto centrato dalla lingua.

Le mani ricordano essere dieci dita.

Il resto calchi per nani da giardino

o dietro la siepe la cura

oziosa delle unghie.

 

*****

 

Il temporale notturno non era

notizia di angeli come folgori

o indiscrezione barometrica.

Gli abitanti del borgo marino

potevano farne esperienza

solo per alberi semi-abbattuti

le ustioni sulle povere bestie

l’acqua sporca nello scantinato.

Ragazzini scendevano lungo la costa

alla ricerca di frammenti tubi di quarzo

reperti di una battaglia

per soffiarci grida cerchiare l’occhio.

Ninnoli scarichi oramai gli schianti.

E tutta la luce drammatica dal cielo:

sconfitta

             in ginocchio sulla rena.

 

*****

Wellen

 

Sul traghetto per l’isola con noi

una comitiva di ciclisti sordomuti

l’inquieta boscaglia dei gesti.

Non emettono alcun suono.

Sono smorfie? Sorridono.

Stiamo tornando dove l’origine

è ignota. Ingenui. Stiamo tornando

con il mare.

Dove il Santo e le capre

a uno sgomento apparire

ci ricoprono d’oro, di vita

selvatica, linnea.

L’odore del letame sulla via

non spaventa, somiglia alla terra.

Abbiamo avuto la stessa opportunità

di morire, negli anni, degli anni.

Come ora. Chi più? Chi

meno?

 


Postfazione di Davide Zizza

  «ma il giorno bagna con la sua luce la terra»

  1. VIVIANI

C’è una vibrazione sonora e tersa nelle poesie di Antonio Pibiri. Questa vibrazione non costituisce però una musicalità fine a se stessa. Il poeta tende l’orecchio alla ricerca di un’armonia nel verso, evitando di modellare un semplice telaio metodico/melodico. In genere una scrittura poetica degna di tale espressione (e questa di Pibiri lo è senza dubbio e seriamente) troviamo una grammatica, una semantica interiore tendente ad intrecciare suono e senso, legandoli indissolubilmente. Giunti fin qui, potremmo tagliar corto sull’argomento dicendo che il compito del poeta – parola brutta! – è di saper comunicare una verità, un messaggio con le parole giuste. Sostanza e forma pertanto. Il che, a ben vedere, non è nemmeno facile poiché una poesia deve saper creare una sintonia fra il contenuto e l’espressione testuale. Tuttavia non risiede nelle sole due categorie il compito del poeta. C’è un mondo – nella poesia in generale –, una situazione interna; essa racconta una perdita edenica e un tentativo di recupero, ovverosia una morte e una resurrezione ed è la morte e la resurrezione delle esperienze, della vita quotidiana e delle nostre percezioni vissute e catturate, impigliate nelle parole del poeta. Quindi non è solo l’accordo fra significante e significato, per dirla con Pedro Salinas è qualcosa che sta «di là, più oltre» capace di suscitare nel poeta la volontà di entrare in un mistero per sciogliere i lacci della sua ricerca.

Pibiri aveva già imboccato tale direzione con la precedente raccolta, Le matite di Henze. Vale, prima di pronunciarci su Chiaro di terra, spenderci due brevissime righe. Per un compositore le matite sono strumenti pratici per la trascrizione, la traduzione tecnico-simbolica della musica sullo spartito, ma rappresentano pure il lavorio costante indirizzato alla definizione dell’opera d’arte. Le matite diventano il prolungamento del cervello, la manifestazione di un operare. Allora singole sfumature daranno insieme luogo all’immagine, una associazione di linee, forme e colori restituirà un dipinto, simboli di uno spartito formeranno la musica che allieterà il nostro orecchio. Con tale spirito di attenzione Pibiri lavora sulla densità della parola poetica, sulla significatività della sua immagine-simbolo, la svuota delle sue connotazioni, la declina con durevole persistenza, la elabora con spasmodica puntualità. Per dirla con un termine preso a prestito dalla teologia cristiana, nella sua scrittura egli esprime una «kenosi», nel senso proprio di «svuotamento» della parola per riproporla in un lucore slegato dalla pura referenzialità, sempre teso a sciogliere il nodo di quella ricerca tenace citata pocanzi. La kenosi si configura quindi come discesa nel vuoto per poi risalire al significato più pieno.

È questo il risultato più forte e sostanziale rinvenibile in Chiaro di terra. Notiamo il gioco voluto sull’espressione, non un ormai riconoscibile chiaro di luna, non l’osservazione di un qualcosa esterno a noi. Pibiri effettua un’inversione di sguardo, di visione e per comprenderla basta raffigurarci il nostro pianeta notoriamente diviso nella parte notturna e nella parte diurna: il chiaro tanto ricercato nella terra non è la parte diurna già evidentemente illuminata (nondimeno pure quella può nascondere qualcosa dietro la sua apparente solarità), è la parte notturna, oscura, dove tutto sembra uguale e indistinto; lo sguardo del poeta affonda proprio laggiù per cercare il respiro nascosto e fuggente della vita e delle cose intorno a lui. A tal proposito la sua poesia non prende posto se non per l’esigenza di comunicare l’indispensabile, un indispensabile utile all’umana comprensione. L’autore si tiene perciò lontano dall’autoreferenzialità, alcuni «io» incontrati qua e là nei testi si riferiscono non ad una prevalente soggettività, bensì ad una sensibilità empatica e comprensiva capace di vestire i panni dell’altro. Non staremo ad esporre un classico elenco delle tematiche di Chiaro di terra – eppoi perché infrangere il suggestivo mosaico creato con tanta cura dall’autore? Sentiamo echi derivanti dall’arte, dalla letteratura, dalla musica, si avverte l’esercizio di ascolto e di osservazione di quelle espressioni artistiche, da lui coltivate con assiduità; e ancora non abbiamo considerato del poeta l’attitudine al tonalismo e alla fotografia nelle sue descrizioni. Si tratta di una mente che sente e fa affidamento a delle mappe sicure per incamminarsi nel suo percorso.

Un ultimo chiarimento. All’inizio la raccolta doveva intitolarsi Le madri del deserto. È importante sottolinearlo perché la maternità accennata nelle epigrafi di ogni sezione e parafrasata in molte poesie riflette una caratteristica sia umana sia simbolico-primordiale. Eppure nel cambio non se ne perde l’incisività rispetto al senso: la terra visitata dalla nostra lettura è ricollegabile sia alla maternità genitrice sia alla nostra appartenenza all’antica idea della terra-madre. Per concludere, Chiaro di terra si pone come poesia dell’ascolto meditato, necessario, dal dettato e dallo stile acuti, protesa alla conservazione di quell’esperienza sedimentata, rappresa nel fondo e poi dissepolta al «chiaro» della coscienza. In un tempo in cui tutto si consuma velocemente e ferocemente, in cui il mondo circostante si muove pari a un mero ingranaggio senza valore, Pibiri sceglie il recupero della distensione, i tempi regolari, il processo di stratificazione che ci permetta di avvicinarci con lo spirito giusto e senza fretta al senso del nostro muoverci in questa terra. In altri termini, per Pibiri la poesia è lo spazio – o uno degli spazi – entro cui l’umanità ha ancora la possibilità di esprimersi nella sua pienezza.

 

Davide Zizza