

Stefano Zanoli è nato a metà degli anni Sessanta a Cesena, città in cui ancora vive, nei dintorni della via Emilia. Ha pubblicato articoli su riviste accademiche, durante il dottorato in geologia, e tuttora mette a frutto la sua formazione naturalistico-umanistica insegnando e scrivendo libri di scienze per gli editori Le Monnier e A. Mondadori. Negli anni novanta intraprese un viaggio lavorativo in Africa, nella Nigeria di Abacha, Abiola e Fela Kuti, e questo libro è la narrazione di quella esperienza.
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Dalla nota editoriale di Enza Valpiani.
Una storia di migrazione, inseguendo il miraggio di un lavoro, la “discesa agli inferi” in un luogo sconosciuto: irrompono nelle pagine fotogrammi di miseria, malattia, disperazione, persino abiezione e “riverbero di denti bianchi nei volti dalla pelle scura”. Questo non è tuttavia il viaggio a cui ci abituano le cronache quotidiane, è un viaggio alla rovescia, in un mondo alla rovescia, dove l’“altro” è un bianco che precipita nel cuore profondo dell’Africa. Lo stile, talora originalmente stravolto e sospeso tra gerundio ed infinito, esprime lo choc spazio-temporale del protagonista; l’impasto linguistico, abbracciando la sonorità italiana e il pidgin-inglese, suscita e svela l’orrore della mancata “promessa” culturale e coloniale di Conradiana memoria.
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LA RECENSIONE DI GABRIELE ZANI
Stefano Zanoli, di Cesena, a Cesena insegna Matematica e Scienze in una Scuola Media e, sempre per l’ambito scolastico, ha redatto libri di scienze pubblicati da Le Monnier e A. Mondadori: tutto ciò in ragione degli studi compiuti presso l’Università di Bologna, che gli valsero, nel 1990, una laurea in Geologia.
D’altra natura, non precisamente “per le scuole”, anche se a mio avviso parimenti “utile” e “formativo”, è appena uscito Una stagione in Nigeria, per conto della benemerita casa editrice forlivese L’arcolaio di Gian Franco Fabbri, senza comunque dimenticare che il libro fu prima stampato da una tipografia cesenate nel 2012, dunque in poche copie fuori commercio, evidentemente destinato in primo luogo agli amici. Ed è stata senza dubbio l’insistenza degli amici che ha convinto Stefano a uscire finalmente allo scoperto, ossia con un editore vero, vincendo le ritrosie e il connaturato riserbo che lo contraddistinguono. Ne è del resto una prova tangibile la lettera-prefazione dell’amico scrittore Luigi Riceputi, che compare in entrambe le edizioni, estratta dallo scambio epistolare che a suo tempo accompagnò la stesura dell’opera di Zanoli.
L’edizione “clandestina”, va detto, recava in ultima pagina la dicitura “Cesena, 2000-2005”, appunto il luogo e gli anni della stesura, che però ora nell’edizione “ufficiale” l’autore non ripropone, forse per uno scrupolo che a mio parere risulterebbe ingiustificato, dal momento che tra l’una e l’altra edizione non si scorgono che minimi e minimali ritocchi. Dico ingiustificato perché in questo libro le date hanno indubbiamente un loro peso, trattandosi della testimonianza di un’esperienza (lavorativa, come geologo, ma soprattutto extra lavorativa) realmente vissuta, in Nigeria, a Lagos, in un preciso arco di tempo, quattro mesi del 1996, tra aprile e luglio, quindi vent’anni fa, quando l’autore aveva giusto trent’anni. Inoltre, dalle suddette datazioni, veniamo a sapere che il libro non è stato scritto “in diretta”, bensì a una decina di anni di distanza dagli episodi narrati. E infatti chi avrà il piacere di leggerlo si accorgerà ben presto che non si tratta del tipico libro-sfogo di un esordiente, ma il libro di uno scrittore avvertito e dai molteplici registri espressivi, nonché di un fine lettore, come viene fuori dalle tante citazioni che vi circolano, più o meno esplicite, dagli amatissimi Melville e Conrad, Celine e Sereni. Per non parlare del titolo stesso, che non a caso rimanda all’Inferno del giovane Rimbaud, perché anche la Nigeria, per come la visse il ragazzo Zanoli fu davvero, in ogni senso, un inferno.
Qualche anno fa, allo scoccare della mia terza decade, ebbi l’occasione di dare una svolta importante alla mia vita; lasciare tutto per trasferirmi là dove, seppur vagamente, pensavo di poter trovare tutto e, forse, diventare un uomo adulto a pieno titolo; lasciare l’Europa, mondo immutabile e sicuro, per andare in Africa. Fu così che me ne andai a sbattere il muso in un risvolto ancor più doloroso del normale principio di realtà. Una sberla da rimanerne intontito, paralizzato nell’afasia d’un groviglio informe di parole, dentro una tempesta d’emozioni, impietrito e agitato allo stesso tempo; uno di quei momenti in cui la vita pare abbia preso una piega drammatica “irreversibile”, si sia come cristallizzata in una vibrazione monocorde, nella frequenza di un eterno presente, privo di futuro e orfano di un passato lontano.
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A Lagos, ex-capitale amministrativa della Repubblica federale di Nigeria, la più grande città dell’Africa occidentale, megalopoli-formicaio del nuovo millennio, ci andavo per lavoro, convinto che, del resto, “lavorare” fosse il modo migliore per viaggiare. Viaggiare; e non “visitare”. Sì perché nella mia testa ronzante di quei giorni c’erano soprattutto motivi romantici, non tanto impellenti prosaici bisogni. Ragioni oscure non razionalizzate. Una irrequietezza radicata in anni felici in via di sbiadimento per caso andata a incontrarsi, nella matassa delle cause-effetto della vita, col filo contorto d’una “occasione di lavoro”.
GABRIELE ZANI
Un po’ di prosa…
L’Africa dunque… l’Avventura, il Viaggio, la Vita adulta. L’ingegnere mi stava illustrando alcuni dettagli, non parlava tanto del lavoro, diceva che vivendo in Africa il problema è di passare il tempo; che oltre al lavoro laggiù non c’è molto da fare; lavoro e soddisfazioni di lavoro; e oh, i tropici… e sui tropici aveva fatto tutto un discorso vago e allusivo (le comodità che avrei avuto in compenso, lo stipendio, il vitto e l’alloggio compresi, l’ottima mensa, e l’importante esperienza di lavoro, e poi fra qualche anno avremmo visto). Non m’ave-va fatto tante domande; e forse se m’avesse scandagliato un po’ meglio, incalzato, se avesse scalpellato le fessure che attraversavano, ancora invisibili, le mie visioni e suggestioni, io non lo avrei passato quell’esamino facile, come invece era accaduto. Tacevo annuendo timidamente, in una incerta e ingenua recita d’entusiasmo. Avevo tre o quattro giorni per pensarci; bisognava partire subito.
Durante il rito di commiato da quel primo colloquio “esplorativo”, avevo buttato lì un po’ nervosamente che certo, eccome se mi interessava, ma che così avrei anche dovuto lasciare tutto, mica era facile, partire e lasciar tutto (e l’avevo balbettato come se in realtà non mi sarebbe costato granché, come cercando la sua complicità mentre lui, dall’alto della cravatta che spenzolava dalla mascella, mi sembrava volgersi ad uno sguardo ineffabile di ambigua comprensione). A questa mossa, con cui si scoprono razionalmente le carte del buon senso, e che può essere anche apprezzata in questi casi (ma in ogni caso io non l’avevo calcolata), confidenziale, come extra-colloquio, a rinforzo di quella nostra complicità di circostanza, l’uomo aveva risposto, con una certa solennità, che se sua moglie gli avesse posto l’ultimatum… allora beh… lui avrebbe scelto il lavoro; un’ultima confidenza aggiunta quasi con tenerezza, che mi aveva lasciato la sensazione di essere già altrove, là fuori, oltre quei vetri affumicati che precludevano la vista dei dritti pioppi romagnoli, di essere ormai anch’io uno di quegli uomini virili e sobri, anch’io della schiera materiale di una realtà più concreta, calcestruzzica… cioè tutto il contrario di un accademico, essere già uno della compagnia; una sensazione come di vento leggero dal sapore esotico, che carezzava la mia mente aperta e sognante (quella mente richiusa da mesi nella vallecola).
Io non ce l’avevo la moglie, dissi, però avevo la “morosa”, che faceva ancora l’università; forse non c’era tanta differenza, dovevo comunque partire e lasciar tutto. Poi ci fu una pausa di silenzio in cui ritenni opportuno non aggiungere parole superflue (quello era un mondo di poche parole e di molti fatti). Io avrei voluto dire subito sì, senza pensarci tanto; sì… la testa scalpitava, i pensieri correvano lontano. Che ci pensavo a fare? Volevo partire e basta; prendere al volo quel biglietto inatteso che vedevo già staccato e appoggiato sul tavolo tra noi, nello spazio della formale conversazione; al diavolo le conseguenze…
Aspettavo fermo a un incrocio la luce verde del semaforo. Davanti a me, perpendicolarmente, oltre il vetro del parabrezza, scorreva il flusso ben noto di suoni e colori, auto e motorini rumorosi, biciclette e pedoni. Il volto della mia città di provincia che forse tra poco avrei abbandonato insieme a quelle immagini familiari, che ora vedevo diverse, assorbita la tonalità emotiva di chi deve partire, di chi se ne sta per andare. Occhi registranti, pure, gli stessi colori e contorni, ma mente e cuore che reagiscono agli stimoli in maniera diversa. Partirò, mi dicevo, e dalle viscere saliva, rinforzato alla coscienza, il desiderio di abbandonare il quieto tran tran di quei marciapiedi, un sì profondo e impulsivo, incurante d’ogni conseguenza, apoteosi di uno slancio vitale. Via me ne sarei andato, a vivere nel mondo, fuori, lontano, e sulla cresta di questo pensiero pareva quasi che i contorni di ciò che stava intorno nella strada fossero più nitidi. Preda di quell’esaltaltazione che prende chi è pervaso dal sentimento della partenza, ero immerso nell’incantesimo di sentire la cinghia del mio essere aderire alla ruota della vita “vera”, di afferrare improv-visamente il senso delle cose, le dimensioni dello spazio, in un diverso e più reale scorrere del tempo, ora tangibile. Era l’ebbrezza del viaggio, il mondo che già cambiava intorno.
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