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LA REDAZIONE DE L’ARCOLAIO PRESENTA IL NUOVO LIBRO DEL TITOLARE, GIANFRANCO FABBRI, “IL TEMPO DEL CONSISTERE”, UN VOLUMETTO DI PROSE CORTE DI QUALCHE TEMPO FA.

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Tra i files inediti dei vari autori della casa editrice L’Arcolaio spunta improvvisamente una serie di annotazioni di Gianfranco, risalenti agli anni ’90; ne è scaturita una miscellanea, composta da memorie, “minima moralia”, riflessioni, una sorta di Zibaldone privato che si presta  tuttavia al dipanarsi di un pensiero strutturato e coerente.
Nell’affiorare dei ricordi, espressi con una prosa “lirica” che gli è congeniale, è facile scoprire le tracce della sua attitudine al poetare.
Nella minuziosa attenzione al “fare” letterario della sezione “Il rovello  della scrittura” e nella scelta inusuale delle sue letture formative, già si  può scorgere “in fieri” la successiva vocazione editoriale.
Stupiscono emozionalmente alcune pagine allusive alla cronaca dell’epoca, (ad esempio, il terremoto di Assisi e la strage di Bologna), in grado di annullare le  distanze temporali e dialogare vivamente col presente.
L’alternanza tra armonia e disarmonia del vivere è l’essenza della fibra del “consistere”.

Enza Valpiani

Qualche testo:

dalla sezione “Echi del passato

Anno di grazia 1958

La solitudine di questi giorni cresce fino a un livello insopportabile.

Ma è inutile crucciarsi, non conta nulla inveire al cielo le ingiustizie patite.

È vero: sono ormai una donna vecchia, non posso guardarmi allo specchio.

Ma c’è il tavolo, davanti a me, grande come un lago. Sopra ci faccio navigare la tazza del caffellatte e i savoiardi. Isole felici, mi dico, quelle molliche più in là. Atolli di un oceano piatto.

Fosti molto urbano, il giorno in cui mi lasciasti. Eri sposato: che te ne saresti fatto di una come me? Una non affascinante, già verso i quaranta e con la vocazione, fortissima, ad essere zitella.

Le ultime volte mi prendevi all’impiedi, di fianco al divano.  Dovevi fare in fretta, non avevi più tempo da dedicarmi. Del resto, dovevo capirlo: tua moglie ti dava un figlio dopo l’altro. Tra noi non rimaneva molto da dire.

***

Dalla sezione “L’occulto sguardo del presente

Infine ho pensato a te che mi telefonavi.

Immaginarmi il discorso – non so, un qualcosa di poco im-portante: non fa nulla.

A te che nell’indugio potevi asserire un nuovo dogma, una sciocchezza bell’e buona: quant’altro tu avessi voluto.

Ed io ascoltavo di rimpiatto; come ad esperire cose nuove, dell’amore.

Mi dicevi che ti saresti uccisa, all’indomani.

Ed io, rispondevo che no, che non l’avresti fatto.

Immaginarmi soltanto, senza peccato.

E poi?

Quale coraggio?

Mi sono svegliato male, sudato nel bollore del lenzuolo.

E via di là a bere un goccio d’acqua, a fare un goccio d’acqua. Riprendere l’atto del dormire, senza riuscirvi. Pecora uno, pecora due, pecora tre, …

***

Dalla sezione “La suggestione della cultura

Giovanni Vailati

 Ieri sera ho iniziato a leggere, qua e là, il bell’epistolario del filosofo-matematico Giovanni Vailati, grande figura intellettuale vissuta tra la fine del secolo scorso e i primi anni del Novecento. Amico di Croce, di Papini e di Prezzolini. L’uomo che incuriosì anche Serra, con i suoi testi scientifici.

Ebbene, in questo volume sono riportate le lettere scritte a questi ed altri personaggi, e sono lettere perfette nello stile. In una, indirizzata all’amico Orazio Premoli, nel periodo in cui questi decise di prendere i voti religiosi, egli mostra le sue riserve in merito a tale scelta, ma non criticando, bensì im-maginando se stesso nei medesimi frangenti. Era un laico, Vailati, ma sapeva riconoscere alla religione un’energia positiva all’adempimento della buona condotta, della buona tendenza ad operare in modo etico.

Sono rimasto stupito dall’atmosfera di una classe sociale affatto elevata, per quegli anni in cui si credeva l’Italia un paese soltanto piccino, analfabeta e limitato. La biografia di questo personaggio colpisce invece per la raffinata preparazione dei docenti dell’ateneo torinese; per l’aria che si poteva respirare in quelle aule austere; per gli scritti, infine, così intrisi di cultura superiore e di umanità. Il meglio dell’intelligenza nazionale a contatto con lo stile discreto di una confessione su foglio che è, nel contempo, anche un saggio del tutto compiuto, già pronto per i tipi di un editore.

***

Dalla sezione “Il rovello della scrittura

Qui non contano i giorni, il loro avvicendarsi. È importante invece lo stato dei fatti; quell’impercettibile movimento che spesso trascende lo stupore. Si parla tanto di romanzo, in questo finire di secolo; si parla di crisi del romanzo e si fa accenno a una variante delle sue forme. La narrazione quasi sempre ha bisogno di un tempo al passato e di una certa capacità a ritenere: valori, questi, in forte abbattimento; tanto, che è più facile leggere testi scritti “in diretta”, in tempo reale.

Schermo visivo prevalente.

Però l’occhio non accetta una simile responsabilità; l’occhio vede ogni elemento, ma non scorge il pensiero. La sintassi  allora muta le sue forme e i suoi oggetti: le forme, intese come legamenti tra un periodo e l’altro del nuovo “sistema comunicante”; e gli oggetti, perché alle parole si sono sostituiti i colori.

I giovani oggi scrivono per tinte, in sintonia col “tempo reale”. Si può dire che per loro Proust sia morto del tutto; infatti essi non scorgono alcun valore nella codifica mnemonica; non contengono il passato: macinano il presente, ignorando il futuro.

L’atto del vivere.

Il piglio più dell’apparire che del “sentirsi”.

Si scrive per gag, per trovate.

Si avanza per organico difetto di direzione e si “fanno le pulci” alla logica dell’impianto.

Lo stile, infine. Esso è ruffiano/orale/molto svelto; senza fronzoli e di veloce lettura.

Ma alla fine, tutto risulta vano.

Ricordate l’adagio di Mengaldo su Govoni?

  Bello, ma chi ne ricorda un verso?

***

Dalla sezione “Frammenti e aforismi

L’uomo che si ritira per la contemplazione, che si apparta  senza un motivo, è chiamato dal proprio angelo alla simbiosi con lui medesimo.

Lo spirito si riappropria del corpo, ne declama l’amore.

L’uomo che si appresta a morire lascia al suo angelo l’ultima luce degli occhi.

L’uomo, di cui temere l’anima, appartiene comunque al pro prio custode; talvolta infatti lo si coglie con lui in confidenza.

A volte, specie se al buio, mi pare d’essere prossimo ai morti infiniti di tutte le epoche, e anche poi a questi ultimi nostri coevi. Ognuno di essi porta una tunica porporina: c’è chi ha fatto una qualche carriera: altri, invece, non sono che poca cosa; fanno gli sciocchini, giocano a palla; ridono infine di se stessi e anche di qualcun altro, di cui è difficile stabilire la natura.

Però quando mi guardano, non uno escluso, hanno addosso i segni di una presenza sconfinata.

***

Accumulazione paratattica per una tragedia

(Due agosto, 1980 – Bologna)

 Un’esplosione. Un tonfo immane.

Il bar sul primo binario, il piano di sopra.

La sala d’attesa, l’atrio centrale. Un’iradiddio, la voragine sul pavimento; i vagoni dell’espresso sotto la pensilina numero uno; il primo occhieggiare di certe braccia staccate, l’avvento epifanico delle membra – i corpi fatti a brani – sotto le carrozze, come nella hall e nel piazzale antistante.

Corpi sotto i taxi.

Cadaveri tornati bambini, bianchi di polvere.

Il bus 37 reso furgone funebre.

Lenzuola come tende ai finestrini.

L’occulto diniego della morte.

Il bus 37 corre all’impazzata lungo la via Indipendenza col suo reperto di persone arrese – una macelleria in movimento, al tempo del clacson intermittente.

Grida, bestemmie della folla.

Una fuga di gas?

Non una fuga – la bomba; lo squarcio delle sinapsi; le trombe di Eustachio frantumate.

Sotto l’hotel Milano, la prima postazione RAI; l’attesa della diretta.

Per tutto il giorno, un accorrere di pompieri, di reporter di una Tv locale, degli inservienti d’ospedale; i semplici barellieri, nella loro dinamica umiltà, da sotto le automobili tirano fuori i corpi disarticolati e le loro anime bruciate dallo spostamento d’aria.

E anche a sera, anche a notte fonda, alla mercé di un caldo africano [torvo marrone demoniaco] i gruppi elettrogeni, con le loro luci innaturali, eccoli pronti a fare il terzo grado agli ultimi resti umani.

Più in là, isolata e muta, attonita a se stessa, spicca una scarpa bene calzata al piede orfano della gamba.

 

Nota dell’autore:

estrapolare i testi da un tipo di progetto come “Il tempo del consistere” toglie al lettore la sensazione che il libro dovrebbe dare: l’idea di un secolo ormai finito. Amputa anche il colore della  struttura sociopolitica – l’intendere la vita e il costume. Mi auguro che rimanga, in chi si accinge a una lettura così parziale, almeno un lieve bagliore, un ammiccare timido ed empatico.

Grazie per l’attenzione.

Vostro Gianfranco.

 

 

 

UN EVENTO INTERNAZIONALE PER L’ARCOLAIO: LA SCRITTRICE LIDIA JORGE DEBUTTA NELLA COLLANA “PROSE” CON UN LIBRO DI RACCONTI, “PIAZZA LONDRA”. NOVITA’ ASSOLUTA PER L’ITALIA!

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Quando la musicalità delle parole echeggia ricordi, luoghi, persone

 

 (A Giovanni Nadiani)

 

Il progetto di pubblicare traduzioni di opere di grandi autori della letteratura mondiale, nacque anni fa grazie all’idea del caro amico e collega, docente di germanistica, Giovanni Nadiani, venuto a mancare proprio mentre chi scrive stava ultimando la revisione di Piazza Londra. L’iniziativa è stata sostenuta dalla Fondazione della Cassa dei Risparmi di Forlì, dal DGLAB – Direção Geral do Livro, dos Arquivos e das Bibliotecas portoghese e dalla Scuola Interpreti e Traduttori dell’Alma Mater Studiorum, sede di Forlì. Dopo diverse pubblicazioni di testi tradotti dal tedesco, dal francese, dall’inglese, dallo spagnolo, ritenemmo opportuno insieme a Giovanni proporre un libro in lingua portoghese, una raccolta di racconti della grande autrice lusitana Lídia Jorge. Da poeta di animo gentile e abile conoscitore delle lingue qual era, egli colse la potente vena malinconica e magica che scorre attraverso le pagine di Piazza Londra, la cui traduzione italiana viene ora pubblicata grazie anche alla felice condivisione del progetto da parte de L’Arcolaio, casa editrice forlivese particolarmente sensibile alle “altre lingue e  letterature”.

Con piacere Giovanni avrebbe letto nella versione italiana i cinque racconti che compongono il testo, ne avrebbe apprezzato la scrittura declinata al femminile, il velo onirico che aleggia su tutto il testo e domina sulla concreta prospettiva spaziale nella quale si muovono i protagonisti. Vari sono infatti i luoghi chiaramente riconoscibili, funzionali alla narrazione, aperti e chiusi: la piazza, il negozio, la strada, il pianerottolo, la carrozza del treno.

Nel primo racconto “Piazza Londra”, la vicenda è ambientata in una delle piazze più note di Lisbona; nel secondo, invece, si svolge in uno spazio chiuso, un importante negozio di Ginevra, con l’indicazione precisa della via che funge anche da titolo – “Rue du Rhône” –, mentre il terzo, Bianca Neve, si sviluppa lungo uno dei viali centrali della capitale lusitana, la notissima avenida EUA.

Anche “Viaggio per due” propone una storia un po’ surreale che viene narrata all’interno di una carrozza di un treno italiano ma si ambienta nello stretto spazio di un pianerottolo di un bel palazzo borghese a Lisbona. L’ultimo racconto, il più lungo della raccolta, è un dichiarato “Omaggio tardivo a Yilmaz Güney” dedicato dalla scrittrice al regista turco nato nel 1937 e morto in esilio a Parigi nel 1984. Il fil rouge di “Profumo”, infatti, rinvia al film “Yol”, e lo spazio appare ben delineato (stanze domestiche, camere d’albergo, città,  teatri, quinte, camerini, aeroporti). L’epilogo della storia ha tuttavia quasi il sapore di una visione, di un sogno tra le strade di Bruxelles ammantate di neve.

A Giovanni, appassionato amante di ogni linguaggio e di ogni musica, abbiamo voluto dedicare la traduzione dei cinque racconti; egli ne attendeva la pubblicazione con curioso interesse, per scoprire con quali sonorità e suggestioni si possano traslare nella lingua italiana la cultura ed il dettato portoghese. Questo idioma neolatino è infatti particolarmente ricco di fonemi dolci, espressi da una semplice cadenza musicale come il  suono languido di un fado.

 

Anabela  Ferreira

 

Dalla quarta di copertina, una nota editoriale di Enza Valpiani:

 

“Cinco contos situados” recita il sottotitolo portoghese della raccolta, ma il lettore non si lasci fuorviare dal termine “situados”, vale a dire collocati in uno spazio urbano, circoscritto; nei luoghi, pur rappresentati realisticamente, come Piazza Londra, irrompe sempre all’improvviso l’“oltre” di una diversa dimensione. Come nella poetica di Montale, sembra di assistere al miracolo di una “epifania” attraverso un “malchiuso portone”; gli oggetti stessi, nella loro con-cretezza, (una borsa, un biglietto, un anello, un flacone di profumo) assumono un sapore magico e rivelano una inaspettata  verità.

Lasciarsi sedurre dalla vita degli altri è il vizio antico dello scrittore. Lidia Jorge, con uno stile serrato ed un ritmo iterativo – simile ad un mantra – scava nelle profonde radici dell’animo umano, alla scoperta di un mondo perduto di  primitività ed innocenza.

 

Una narrativa ipnotica. Lídia Jorge meriterebbe di essere la seconda scrittrice in lingua lusitana incoronata dal premio Nobel per la letteratura                                                     

  Le Figaro

 

Il Portogallo può contare tra i suoi cittadini tre dei principali scrittori di oggi: Josè Saramago

Antonio Lobo Antunes e Lidia Jorge. Lei scrive con una capacità di sintesi magnetica ed una incalzante bellezza.

The Inquirer

 

GIAN RUGGERO MANZONI RIFLETTE SU “LA MATITA E IL MARE”, L’ULTIMO LIBRO DI LUCIANO BENINI SFORZA.

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LA MATITA E IL MARE, di Luciano Benini Sforza, Edizioni L’Arcolaio, dirette da Gianfranco Fabbri. Considero Luciano, ravennate, uomo appartato, gentile, di una sensibiltà armonica, amante del Genius Loci (al pari mio), una delle voci poetiche più interessanti che oggi abbiamo nella mia terra e in Italia. Egli dà continuità, in questo suo ultimo libro, alla ricerca, che lo caratterizza da sempre, riguardo un paesaggio -tema (la sua terra rivierasca e romagnola). Il suo appare come un mondo estraneo ai rumori frenetici della contemporaneità in cui la memoria, le radici e i piccoli riti umani assumo dimensioni di un lirismo altissimo, infatti sempre delicato e sfumato è l’andare del verso. Poesia sentita e “seria”, quella di Benini Sforza, come serio e liturgico deve sempre essere il rapporto con l’Opera. Scrive Gualtiero De Santi nell’introduzione al libro: “Da questa attitudine per così dire universale e sovratemporale, ecco l’abbandono alle cose del mare e di ciò che gli sta vicino: il sentirsi onda, conchiglia, sabbia, cefalo; il volersi trasportati da un’acqua che si sa contigua al corpo dell’interlocutore e ad esso si riconduce. Tutto ciò in quel modo secondo cui quanto costituisce un punto fermo affiorante dal mare o dal nulla (le isole e le sponde lungo le quali va a allungarsi il respiro poetico) rinvia costantemente ad una identità. In primo luogo quella dell’autore («sono un insegnante con gli occhiali e ricordi o idee sulla fronte», Intorno) e poi delle persone conosciute da sempre: gli abitanti del paese, i propri alunni, i familiari nell’ultima toccante sezione della raccolta.

GIAN RUGGERO MANZONI

UN NUOVO AUTORE ENTRA IN ARCOLAIO: E’ DANIELE SERAFINI CON IL SUO ULTIMO LIBRO, “TRA LE RADICI E L’ALTROVE”.

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Daniele Serafini da oggi impreziosisce la nostra collana “I codici del ‘900”. Autore di lunga data e di grande eleganza, è stato un importante redattore della casa editrice Moby Dick – fondamentale realtà culturale del territorio romagnolo, purtroppo chiusa recentemente per la scomparsa di Guido Leotta e Giovanni Nadiani, colonne importanti di quella società -. Daniele fornisce in questo suo ultimo progetto una summa della sua opera poetica, chiusa con una raccolta inedita che prende il titolo di “Polvere di stelle”. Traduttore finissimo, è tuttora figura notevole nel campo della poesia internazionale. Ci piace, qui, farlo presentare da Davide Rondoni e Angelo Andreotti, i due poeti e critici letterari che hanno seguito con riflessioni acute questo suo nuovo prodotto editoriale.

Un libro per molti versi memorabile, “Tra le radici e l’altrove”. Lo consigliamo con vivo interesse, orgogliosi di averlo nel nostro catalogo.

Una prima manciata di testi.

Da “Paesaggio celtico”  (1993)

Elogio dell’ombra

Là dove estremo

si apre il paesaggio

Ravenna gravida giace

orfana di sale e di vento.

Ma se oltre la piana

altra vita s’adombra

e trae conforto,

è la parola schiva

che qui cerchi

non la frase ampollosa

dove il vuoto s’addensa.

***

Fin de siècle

Da limpidi clivi del Galles

dove il mare balugina

e il vento fende straniero lo sguardo,

il cuore volsi oltre il confine

ma non vidi che impronte dissolte

assorte tracce di perdute stagioni.

Poi, inattesi, giunsero tersi

gli anni del rimpianto

e la rinuncia mi sembrò vana,

l’esilio una fede mal riposta.

Per quanto testimoni di rovine,

non è più tempo

di recitare la morte

***

Da “Luce di confine” (1994)

Il trionfo della luce

I giorni crescono in un intrico di colori

che non conosce l’esilio della luce

ferma tra stalattiti, forme

inermi, assenze.

I tuoi gesti riparano

dalla caduta del sole,

dal silenzio del corvo.

Ombra che si fa ombra e incanutisce

nella stretta dei corpi.

Il sentirti è vedere, oltre le apparenze.

***

Da “eterno chiama il mare” (1997)

Estate normanna

Di te ho veduto il prodigio,

dolce estate di Normandia,

assorto in ampie distese

di covoni e di pioppi.

Di te ho bevuto l’esilio del mare,

adagiato sui tuoi fianchi leggeri,

in attesa che la pioggia d’agosto

liberasse la terra accidiosa.

Di te ho gustato il sangue salmastro,

che riposa su alture dolenti,

dove i corvi oscurano l’aria

e un rilucere di croci bianche

accoglie anche il vento marino –

sola voce ad urtare il silenzio.

Colleville, agosto 1994

***

Intermezzo

Frammento dalla prefazione di Davide Rondoni

Serafini, avventuroso pudìco

Di questo libro, auto-ironico e malinconico monumento a oltre trent’anni di poesia, mi ha convinto la forza visionaria, quasi opposta al generale tono malinconico da esule che Serafini ama mettere sul tavolo come abile giocatore. Non fidatevi. Le apparenze ingannano, o meglio in arte anche le apparenze sono un linguaggio. Qualcosa da interpretare. Serafini me lo ricordo col foulard, anni fa. Un poeta col foulard. E allora, ok, potremmo fermarci a dire che questo è un buon libro di poesia, umanissima, civile e malinconica di un uomo intelligente e sensibile, che sente correre il tempo sulle rive del mare e talvolta in luoghi lontani del mondo.

Una voce colta, raffinata da letture e passeggiate e da una certa esperienza di cose del mondo. Un padre aviatore, una madre amatissima. Come se fosse il piccolo referto di una vi- cenda tutto sommato minore.

Ma no, c’è qualcosa qui che ci avverte. Dall’anima del poeta o che cosa Serafini ha incastrato tra mente e cuore, tra voce e verso, tra gli occhi e il foulard, arriva un avviso. Guarda bene. Piccolo referto un cacchio. E vicenda minore non vuol dire niente. In poesia sono tutte vicende importanti. E non perché sia più o meno importante il poeta ma perché lì, a lui, il mostro magnifico dell’esistenza ha chiesto che gli venisse data voce. E questa è la cosa importante. Solo la sventura è muta, diceva la Weil. E se c’è una voce, allora…

“Per quanto testimoni di rovine, non è più tempo

di recitare la morte”.

(…)

Altri testi:

Da  Dopo l’amore  (frammenti a due voci(2004)

II.I

La spiaggia di Ouistreham, vasta e vaticinante. Il sole scende obliquo e si nega nel mare. Tu che giaci in rarefatta nudità. In te accogli salsedine e voci. Il tuo corpo è ardore di luce, sussulto che la sete placa e riaccende.

II.II

Ho tagliato i capelli, messo il profumo delle migliori occasioni, ho indossato il tailleur cremisi e sono uscita come se dovessi incontrarti.

Seduta in un caffè del centro, ho atteso che l’ombra del ricordo mi si posasse accanto, come una farfalla insolente, una vecchia abitudine – un battito d’eternità che oggi io mi regalo, nonostante la pioggia, nonostante il dolore.

***

VII.I

Un figlio che non mi hai dato; un figlio che non ti ho dato. La paternità della scrittura non riscatta dalla sterilità dell’Io. E tuttavia anche le parole, quali figli, hanno occhi che ti scrutano e ti giudicano – anche le parole se ne vanno nel mondo, orfane e solitarie.

***

Da   Quando eravamo re   (2012)

Tornando a Campoformido

(A mio padre, aviatore)

Tornando a Campoformido

è come se la tua foto,

quella con la tuta da volo

stretto ai compagni di squadriglia

e il volto dischiuso al futuro,

non fosse mai stata scattata.

Tornando a Campoformido

è come se, all’improvviso,

tu uscissi dall’album di famiglia

per ritrovare, nella sera illune,

un bagliore di giovinezza

una luminescenza d’ali

che non si piegano al vento

né al flettersi del tempo.

Tornando a Campoformido

è come se, d’un tratto,

tu avessi di nuovo vent’anni

e mi chiedessi, con un sorriso complice,

di staccare le nostre ombre da terra

per prepararci insieme

a un decollo senza paracadute.

***

Polvere di stelle

(Poesie inedite)

Su queste colline

(Pensando a Gabriel Rosenstock e a William Wall)

I poeti amati

i poeti incontrati

discendendo calanchi

lungo vene di gesso

I poeti tradotti

forzando la lingua

a un nuovo statuto

dai riflessi di vite.

I poeti serviti

tradendone i suoni

hanno nomi scolpiti

su queste colline

Nomi di cose vere

come un rosaio

o il muro sbrecciato

che sorride alla luna.

Brisighella, 2014

***

Sillabario

Questo taglio di luce

che lacera la valle

e distende lo sguardo

oltre la macchina da presa

nel fruscio di folaghe e canneti

disegna percorsi sconosciuti:

lo specchio d’acqua

eletto a sillabario

l’orizzonte in fuga

in un vortice di vuoto

il cuore fattosi palude

nell’eco dei miei passi

sospesi in un punto

che allo stesso istante

è cominciamento e approdo –

salutazione angelica

tra l’origine e la foce.

***

Un frammento dalla postfazione di Angelo Andreotti

Daniele Serafini e la poetica della lontananza

Selezionare poesie per un’antologia significa, per l’autore, costringersi a riflettere sul proprio percorso poetico per mostrarci quali poesie per lui sono ancora “attuali”; ma, rovesciando la direzione dell’osservazione, consente a noi di conoscere anche quali per lui non sono “più” così fondamentali. La selezione in fondo è una dichiarazione di poetica, e in quanto tale fa chiarezza sul suo intero percorso (almeno fino a un oggi che è già ieri), e ci aiuta a mettere a fuoco i temi attorno ai quali ancora muove la sua ricerca, ripresentandosi a volte in forme o significati o punti di vista differenti, che sono i cambiamenti di postura, di passo, di direzione.

Fin dalle prime due raccolte poetiche compaiono alcune parole chiave che resteranno una costante per Daniele, come per esempio memoria, esilio, oblio, morte, nostalgia, confine. A queste parole, usate con maggior consapevolezza nelle raccolte successive, se ne aggiungono altre tra le quali congedo, e le varie declinazioni di partire e restare che, unendosi alle precedenti, configurano sempre più un orizzonte poetico riassumibile in un unico sentimento, quello della lontananza, e allora se è vero che «raccontare la lontananza è dare presenza a quel che è sottratto alla presenza» (A. Prete), allora Daniele è poeta della lontananza.

NEVIO SPADONI RECENSISCE “LA MATITA E IL MARE” DI LUCIANO BENINI SFORZA

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Nevio Spadoni riflette su “La matita e il mare” di Luciano Benini Sforza

 

Se dovessi riassumere con una sola parola il complessivo lavoro poetico di Luciano Benini Sforza, userei il termine stupore, perché racchiude in sé un atteggiamento di meraviglia, ma al contempo di disorientamento. Forse il termine rimanda con troppa facilità  al “fanciullino” di pascoliana memoria, o al “fanciullo” che piange di Corazzini, con quell’ondata di mestizia e carica sentimentale di un crepuscolarismo di maniera. Ma non è così nel caso del nostro autore che ha affidato alle stampe La matita e il mare, sua settima raccolta, nella pregevole veste tipografica de L’arcolaio. Pur vero è che la poesia di Luciano si sostanzia di cose semplici, quotidiane, a volte minimali, ma anche di realtà di grande respiro, di rimandi esistenziali, e rimane sempre attuale nel suo caso l’espressione di Leone Tolstoj: Parla del tuo villaggio, se vuoi essere universale. Marina di Ravenna è appunto questo luogo privilegiato, cuore del poeta con le sue onde, maree, burrasche e attimi di calma che pulsa, e abbraccia quella realtà di cose e di persone a lui intimamente care, specie quelle che affollano la “memoria” come  quella di nonna “Giulia”, figura fondamentale nel suo passato. E quasi come da contrappunto emerge la giovine figura di Nicole che bussa alla porta per dire che il pranzo è pronto: … Si mangia. È ancora un giorno estivo. / Ti vedo in modo chiaro, / ora sei davanti a me, Nicole, / vela, vita in movimento: / nuoti col tuo costume giallo, / con i tuoi dodici anni  /in un altro mare.  Questi versi mi richiamano alla mente Viola vestita di limpido giallo, la figlia di Giovanni Papini che il poeta descrive nella sua leggiadria, e la freschezza di tanta poesia di Umberto Saba, per la sua semplicità e immediatezza. La poesia di Luciano è moderna, non ermetica, rifugge da ogni forma di retorica; è sobria ed elegante, soffusa di quella nostalgia direi tipica dei personaggi che abitano luoghi di mare, dove il tempo pare dilatarsi, specie quando si attende  un qualcuno che da qualche altrove dovrà arrivare. Parlavo di stupore, incanto per la bellezza del paesaggio, ma anche di tenerezza e bisogno di abbracciare una realtà di persone e cose che spesso sono distratte e stordite o involgarite da questo mondo globalizzato, massificato e anonimo. Siamo in un tempo di consumismo sfrenato e di mercificazione, che azzera la purezza di quel mondo povero e semplice, ma terso, degli affetti del passato, nella realtà rurale contadina. Così in alcune liriche Luciano parla del mare che ci porta, quando non inghiotte, esseri disperati che cercano la strada di una vita dignitosa. Non ci troviamo di fronte ad un poeta dallo sguardo chiuso e prigioniero di un io narcisistico, ma di un uomo che ama la ricerca, e ama condividere quella bellezza che dà sapore alla vita, fatta di relazioni autentiche. Una poesia alta, quindi, dai toni delicati, sobri, intensamente lirica e libera da schemi stereotipati e usuali, che sa parlare al cuore e destare emozioni, perché colma di profondi sentimenti umani. Il libro si avvale della puntuale e professionale presentazione di Gualtiero De Santi, e della illuminante testimonianza di Emanuele Palli.

Nevio Spadoni

PRESENTIAMO LA RECENTE RASSEGNA STAMPA DEDICATA A “AUGURAZIONE” DI MIRO CORTINI

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RASSEGNA STAMPA RELATIVA AL LIBROAUGURAZIONE” DI MIRO CORTINI

 

DAL RESTO DEL CARLINO DI MERCOLEDI 9 NOVEBRE 2016

 

Augurazione”: debutto poetico per l’autore Miro Cortini.

Parole che lasciano il segno. Parole semplici e parole ricercate. Parole da interpretare. E, perché no? Magia di parole. Su tutto questo si potrebbe parlare a lungo con Miro Cortini, il cui primo libro di poesie dal titolo “Augurazione” è stato stampato tre mesi fa per conto della casa editrice L’arcolaio. Il libro verrà presentato il 10 novembre, ore 18,30, alla Vecchia Stazione di Forlì, in via Montesanto 20. Sono circa quaranta le poesie riportate nel libro e di queste quattro sono scritte in dialetto romagnolo con relativa trasposizione in italiano. “Augurazione” è il primo libro di Cortini, da sempre appassionato di una scrittura che “sarà il prolungamento di me stesso – si augura il poeta – un percorso mentale, tratti destrutturanti, ‘serpi tra sterpi’, scarti di accelerazioni, spesso non consequenziali”. Come sempre accade, le poesie aprono nuovi scenari e nuovi confronti tradotti in versi, in strofe o semplicemente in parole immaginifiche. Sono parole che traducono uno stato d’animo usando talora una terminologia inaspettata e ricercata, perché è quella che la mente suggerisce e che a volte impone in quel particolare momento. Una poesia, questa, che sceglie vibrazioni intime, prive di struttura e di coerenza interna, ‘un guazzabuglio di mescolanza in bilico’ dove le parole sono proiezioni di un sentire che supera i limiti della realtà, come, ad esempio, ‘magicarsi’. Ed è proprio da questa magia che il poeta si lascia afferrare, la stessa che incanta un pittore quando ha in mano i colori. Cortini nuota fra parole dolci e amare, in un turbinio di matafore derivate da quell’altro da sé inaspettato e sorprendente.

ROSANNA RICCI

 

DAL “CORRIERE DI ROMAGNA

 

“Augurazione”, la più recente raccolta poetica di Miro Cortini viene presentata il 10 novembre alle ore 18,30 alla “Vecchia Stazione” di Forlì, in via Monte Santo. Pubblicata da L’arcolaio, con la prefazione di Cesare Ricciotti, l’opera si presenta a detta dell’autore, come “un cammino che in narrativa sarebbe un romanzo di formazione e si traduce qui in un percorso mentale, in tratti destrutturati, “serpi tra sterpi”, scarti e accelerazioni spesso non consequenziali”. Una ricerca, quindi, fra memoria di luoghi e di tempi che, tutti e a vario titolo, hanno contribuito a fare dell’autore la persona che è oggi: una ricerca che molto si esercita attraverso la parola, naturalmente la parola “poietica”, capace di creare, appunto, mondi e realtà, o di permettere che essi affiorino alla coscienza, propria e altrui. Cortini si esprime per illuminazioni brevi e concentrate, con un largo ricorso a quegli strumenti “a-logici” così significativi nelle mani di chi sappia usarli. Così è per esempio in “Rumori” dove “Ad acquisite certezze / si dovrà scavare fosse / e portare fiori a ciò che scivola il declino. / Il dubbio è l’unguento di cui mi rivesto / sfido chiunque a resistere al fetore”, o in certi versi di “Bella”: “Il pianto giovanile è rugiada / ora condensa di nebbie / annuncio d’autunno”. Interessanti anche i “Quattro passi nel dialetto”: la cifra resta quella, fra memoria di sé e ricordo delle figure importanti della vita, come la “nonna Ernesta” con il suo saggio rapporto con il televisore appena entrato in casa. Il sapore del dialetto, l’immediatezza della lingua più propria e la concretezza che essa possiede danno però un’ulteriore svolta alla ricerca di Cortini: la rendono sua e allo stesso tempo la universalizzano, rivelandone la sostanza profonda di meditazione sul tempo che passa e sul cambiamento che questo porta e sul cambiamento che questo porta con sé. Qual è dunque la “augurazione” del poeta? È lui stesso a rivelarlo, nell’epilogo della raccolta: “ fare in tempo / ad appiccicare l’ultimo stoppino / dell’ultima cera – memoria dell’ape- / E che sia miele”.

 

MARIA TERESA INDELLICATI