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“LA BALLATA DELLE PAROLE VANE”, DI MARINA MASSENZ, NELLA LETTURA DI MEETEN NASR

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Marina Massenz, La ballata delle parole vane, L’arcolaio, 2011, postfazione di Andrea Inglese.

 recensione di Meeten Nasr

Limpido, disciolto e aggiornato linguaggio, svelto se non addirittura rapido e tranchant, questo agile libretto di poesie di tema amoroso si presenta ai lettori come un’opera d’esordio che promette slanci affettivi, sorrisi e canzoni TV come piattaforme di lancio per successive elaborazioni di ben maggiore impegno. Niente di più erroneo, invece, in questa visione. Il titolo di tutta la raccolta è anche quello della sua prima sezione dove seduzione e vanità procedono di pari passo con una ironia tagliente, e talvolta con ira. I pretendenti (nuova edizione dei Proci omerici) in maglietta Lacoste si misurano con una seduttrice consapevole che “avanzando su una passerella/ lucente ondeggiava il suo/ vestito di seta sul sedere”  e “non si cura di muscoli/ lucenti, riccioli cascanti” (p. 11) o che “di giorno si trascinava/ da una spiaggia all’altra” ma di sera è “tutta smagliante, l’abitino/ attillato, le labbra di rossetto” (p. 13). Il suo letto è “una zattera grande” ed è “pieno di avventure” ma la protagonista non vuole “starci stretta, rannicchiata” e ne scaccia (dopo l’uso) i pretendenti (p. 15). E’ insomma la sezione del libero amore, delle esperienze affettive e sensuali, anche dell’occhio critico e impietoso sulle debolezze dei partner: “Era fatto di pasta e patate./ Mancavano rape, rucole/ e carciofi. Una dieta/ ipercalorica, ma senza sale” (p. 19). Ma alla ardita gioventù segue fatalmente, nella vita e nel libro, la maturità dei sentimenti, l’incontro mitico fra Amore e Psiche, l’esperienza del grande, unico “amore” che, come ognuno sa, fa spesso, forse sempre, rima con “fiore” (così cantava Umberto  Saba) ma soprattutto con “dolore”. 

Nella sua brillante e generosa postfazione, Andrea Inglese ci indirizza verso una struttura tripartita di questa raccolta sulla scia del classico Canzoniere (l’amore libero, ripetuto, parziale / l’amore unico, definitivo, forse anche coniugale, con le sue ben note, tremende frustrazioni e delusioni, le sue separazioni e disperazioni / l’accettazione della realtà: “fuochi fatui, amore, noi siamo…/ incapaci d’incontrarci” (p. 45) cioè la conclusiva accettazione dei limiti più interni che esterni).

Se questo è  certamente il traguardo che Marina Massenz si è prefissata di raggiungere con questa raccolta, ben altra evidenza si impone però a partire dalla constatazione che le date delle composizioni si estendono su ben 18 anni (1985-2003) e che le 13 poesie della sezione “Incontri unilaterali” per qualità lirica, coerenza, verità e varietà di accostamenti e di soluzioni delineano, anche nelle loro contraddizioni, il centro esistenziale, il nocciolo duro, il luogo delle speranze più ardite e delle delusioni più cocenti della vita e della carriera letteraria dell’autrice.  Tutte le poesie di questa sezione gridano, mai sussurrano, la loro verità. Dalla prima (p. 29) dove “il garbo” è “solo antipasto. Poi io/ …esplodo nell’urlo”, alla terza (p. 31) dove “no, io sono qui,/ sospesa tra cieli incoerenti”, fra “due tempi, epoche di lune storte”, alla quarta (p. 32) dove “dentro il suo passo tutto il futuro era/ scritto…./ già l’udivo, noi idoli ridotte a/ simulacri, come Cassandre cieche”, alla sesta (p. 34) dove “Lui, il grifagno, dorme/ con le ginocchia sul suo ventre,/ lei è rotonda e bianca./…Io passeggio/ in cerca dell’Aurora”. Alla fine – ma non c’è fine, solo delusione – lei chiede (p. 38): “Spiegami. Perché non capisco./ A Milano la nebbia, ed è giusto così./ Spiegami amore, finché ancora/ posso chiamarti.” E per tutta la terza parte l’amore resta lontano.

MEETEN NASR

LUCA MINOLA RIFLETTE SU “PORTA A OGNUNO” DI CRISTIANO POLETTI (DAL BLOG POETARUM SILVA)

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Dal blog  Poetarum Silva – the meltin’po(e)t_s

 

 

 

 

Cristiano Poletti – Porta a ognuno

(recensione di Luca Minola)

Porta a ognuno” è il titolo del nuovo libro di Cristiano Poletti, che subito in partenza presenta un metodo di lavoro chiaro: una forte struttura poetica. Quello che bisogna portare ad ognuno è il magma, le parole precise, le annotazioni frequenti su se stessi, il luogo unico e preciso da dove guardare il mondo e la realtà. Quello che bisogna portare ad ognuno è la poesia, diffondere, pareggiare il dolore con le parole. Il libro si divide in tre paragrafi, il primo “Posti al riparo” viene introdotto da una frase dei Vangeli che cala l’intero lavoro in una ricerca metodica, quasi religiosa.  C’è una dura memoria che cerca il passato, le ombre. “La carta vetrata dei ricordi/scortica i palmi,/pregandomi un ritorno; chiedo/cosa hai fatto, dove sei/stato, nel tempo.” Cerca i luoghi del passato e del presente. Per questo la prima sezione del libro si snoda in una continua ricerca dei luoghi che promettono, che offrono riparo e ricordi solidi. Gli spazi si muovono precisamente, pregni di parole, ostaggi dei versi e delle tentazioni dello scrivere; si descrivono precisi e finiti come nella poesia “Chiaro il resto”: “Su per la collina, poi in cima/ l’ordine di un disegno, la casa,/pare un cerotto messo al prato./ Confuso, il viso/ prestato al paesaggio,/ ferito dai giorni, non sa/ la trincea di ogni notte-/ ogni notte più scura”. O nella corta e compatta “Salita, ricordo” dove il verso breve e la capacità di sintesi si muovono, creando paesaggi in salita dell’anima, il vuoto delle stagioni umane, la distanza da sé: “ ….e spesso finivano/ nella vertigine, gli sguardi fissi/ sulla montagna. Loro sono/ io e mio padre. Verso/ la croce, sempre/ tutta in salita l’estate.” E proprio questa continua ricerca di sé agita nella poesia di Poletti domande e risposte e anche giudizi, forti ed estremi. Vogliono essere passione intesa come vita, urlo di ricerca e base per ogni atto d’amore, conosciuto e sconosciuto a sé, per questa novità che è essere se stessi. “Al parcheggio del Castorama”: “Presto diventerà il Self, mi dicono./ Io non lo trovo il posto, al buio./ Dell’insegna sotto il cellofan non sapevo./ Avanti e indietro, niente./ Poi, l’abito della sua voce,/ l’annuncio/ fino alla febbre e trovarlo/ in torace e mani”. Per finire e ritrovarsi in una pace impossibile, non perdonabile, ma piena e ricercata nella salvezza, vera, traversa, quella che sbrana e frena le menti, la propria salvezza. “Si/ e oltre l’affanno di due respiri/ nessuna intenzione di riprovare/ il volo. Così due colombe vanno via/ in finta pace con la parola del Signore”. Nelle ultime pagine della prima sezione si trovano due poesie che muovono vita e amore ma anche la ricerca di un mestiere, il mestiere della scrittura che entra nella vita, che diventa vita, la propria. “A Berlino scrive”: “Virgola, una virgola/ soltanto, sulla nostra pagina./ e ancora “Nel suo pericolo la luce/ piena di grazia, che taglia le ciglia/ e nessuno chiede. Nessuno/ chiede cosa vedi./ E sei via./ A Berlino/ scrivi”. E si continua con l’indagare se stessi, l’autore si confessa, elimina i nascondimenti, le ombre delle confessioni, “Da Nollendorfplatz a dove”: “Una crepa invece/ in mezzo alla notte:/ un uomo lasciato/ alla sua confessione./ Un taxi,/ ecco; il vento,/tornare a se stessi./ Notte, succede/ la notte”. Un bisogno deciso e obbligato, tornare a sé in una continua indagine spasmodica, perché non succede altro che il presente, l’eterno presente che si impone. E qui adesso non succede altro che la notte, ed è questa non un’altra, èla propria. Nella seconda sezione si apre forse la parte più bella e più ispirata del libro di Cristiano Poletti: “Giudicati, lo siamo già stati” dove il giudizio non diventa un alibi retorico verso quella che può essere inteso come un giudizio comune, universale volto alla debolezza umana, ma qualcosa che ormai si è superato perché infatti lo si è già stati e ora non c’è più giudizio né colpa da rendere ma solo sano e continuo sacrificio. Nel continuo quotidiano, ripetitivo di perdita e realtà, “Re al neon”: “Finì al neon il suo regno/ sopra scale di metallo/ sotto una pioggia battente./ Il vento, ripetitivo”.

In varie poesie del libro, ma soprattutto nella prima sezione del secondo paragrafo, circola, gira e muove il vento. Il vento della vita che deve essere portato a tutti, come nel titolo, deve riempire tutti di qualcosa di nuovo ed esatto, di una parola. Come detto fin dall’inizio, il libro è pieno di riferimenti biblici, estratti e riconversioni di frasi mutate in una legge, “A futura memoria”: “Li rimettiamo al vento i nostri debiti”. Nel secondo tempo della seconda sezione, viene avanti il Poletti più enigmatico, quello più vicino al De Angelis pregno dell’essere: “La scienza esatta/ dei giorni./ Chiedono mentre si svegliano/ tutti – lei no,/ non si chiede/ se essere tempo/ sia destino del destino./ O soltanto nel polso dell’età/ un grado inferiore del sangue/ era diverso, era già/ nella matematica delle stanze”. Un Poletti cruento che venera i martiri: chi illustra la propria vita, chi dice, chi scrive, sempre sul filo, in pericolo, ostaggio di se stesso e del suo tempo. “Culto dei martiri/ mi dici con grazia;/sia in pietra sia in legno,/ spina e fianco lì/ da vedere e chiedi/ mistero/ della fede appeso/ per questa molletta/ non importa come/ sul filo, la notte”. E ancora i luoghi dell’intimità, cifrati, estratti dai ritardi del mondo, nelle follie degli istanti che non torneranno, schiavi del tempo e monito per chi sembra aver perso grazia e identità. “Al caldo del letto una cucitura/ gli serve tra sé e le parole. Tutte/ quelle che mai gli ha detto. Quelle zitte/ nell’idiozia del ritardo, non lette/ neppure adesso, sul libro del sonno./ Finire poi nel parco degli adulti./ Fine del giro. L’ipotesi è in fiore”. Introduce la terza sezione del libro “A memoria” una frase in epigrafe di Antonio Porta fra il tempo e il destino di ognuno di noi. Sezione molto dolorosa, piena di sofferenza ma anche di amore, di molto amore, semplice, d’impatto come questo: “Il “tu” che uso ancora/ è rimedio contro di me./ Se sia amore questa cosa/ io davvero non te lo dico”. Fino ad arrivare alla poesia “Se sbaglio un sorriso” che si apre con una citazione di Valerio Magrelli (autore molto amato da Poletti) “ “Sono il paziente della mia passione”/ mentre il buio è cosa di tutti-/ specchio per qualcuno, sbrego notturno/ per altri- proprio non so/ se sbaglio un sorriso al mattino/ chissà se l’ironia/ è per altri, che dormono ancora,/ per l’orizzonte dell’umano, per sé”. Perché l’orizzonte dell’umano è dentro ognuno di noi, è la vastità che abbiamo dentro, la nostra intensità. Tutto questo si spiega e si realizza nella poesia “Giorno”: “Campane per tutta la valle,/ eco di ogni attività muta./ Due passi dal silenzio perché tornasse/ in montagna, qui, al suono/ sacro dello zero./ Qui e taceva. Giugno/ annunciava già il suo ultimo/ giorno di novembre”. L’animo sprofonda nel paesaggio, nel dolore, porta l’eco della quotidianità che non rallenta, che resta muta, nel dolore, nel suono sacro dello zero, che è il richiamo alle origini, alla sacralità del vivere, all’essere. Tace e annuncia giorni d’estate che sembrano un autunno inoltrato. Un autunno dell’anima. Dovessimo accostare Cristiano Poletti, ormai al terzo libro, con autori che sicuramente servono d’appoggio e che sono influenti in alcuni aspetti della sua opera, potremmo fare i nomi dei due autori già citati e quelli di Raboni e Sereni.

Ma Poletti ha caratteristiche proprie e una ricerca tutta personale e risulta che è un lirico puro, travolto da se stesso.

 

Luca Minola