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PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI ANTONIO PIBIRI, “CHIARO DI TERRA”

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Libreria Cyrano Alghero,

ORE 21,30

Via Vittorio Emanuele, 11

 

Presentazione del libro di poesia

“Chiaro di terra”

 

Editore L’Arcolaio 2016.
Alla serata saranno presenti:

ANTONIO PIBIRI (Autore)
ANTONIO FIORI (Poeta, scrittore)
LETTURE di ENRICO FAURO (Attore, musicista)

JACOPO GARDELLI INTERVISTA IL POETA NEVIO SPADONI

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“Come un bottone tutto d’oro”. Ravenna secondo il poeta Nevio Spadoni

Giovedì 30 Giugno 2016

DAL GIORNALE “RAVENNA NOTIZIE”

Du ciacri col poeta romagnolo Nevio Spadoni sulla sua ultima fatica, “Ravèna”, ritratto-guida di una città in brevi bozzetti poetici, fresco di stampa per i tipi

de L’arcolaio

 I versi di Nevio Spadoni non mentono, almeno per quanto riguarda casa sua. “A me u m’è toch ‘na ca ch’l’è znina d’pösta | a e malapèna u s’i sta in du”, scrive nel suo ultimo libro il poeta di San Pietro in Vincoli. Davvero si tratta di “una casa piccola del tutto, che a malapena ci sta in due”, lunga e stretta come un viso smunto, quasi un antitesi ironica del florido Spadoni.

Ma per quanto piccola, è ben fornita di quello che Apollinaire richiedeva a una casa per essere vivibile: una buona libreria e qualche gatto sparso. Una delle due gatte di Nevio dorme nella penombra del patio che dà sulla strada, in quest’ora calda e sonnolenta del mattino; mentre, in piedi nel suo pensatoio carico di foto e premi letterari, Spadoni attende le domande.

L’eloquio di Spadoni è morbido, a differenza del suo dialetto; ma come il suo dialetto sa di antico. Molcisce piacevolmente le “c”, è costellato di quegli intercalari-lucciola che stanno diventando sempre più rari. Ma nonostante questo controllo, e soprattutto quando si fa più concitato, emergono in qua e in là nel suo discorso guizzi di romagnolo verace, zeta inconfondibili e inorgoglite; così come orgoglioso e fiero, Spadoni s’accalora nel raccontarmi dei suoi premi, dell’amicizia con grandi poeti, di una carriera degna di un fine poeta laureato. raccolta spontanea?

“L’idea è partita un anno fa, o poco più, su proposta del pittore Onorio Bravi per la rivista di Marisa Zattini, dove alcune liriche su Ravenna dovevano in un qualche modo accompagnare i quadri e i lavori di Onorio. La mostra è stata inaugurata lo scorso ottobre alla Manica Lunga della Classense, e comprendeva dieci poesie. Poi, dopo questi primi esperimenti, ho pensato che, se avessi continuato, avrei potuto sviluppare un libretto su Ravenna.”

Un lavoro maturato col tempo, quindi. Quali sono le prime poesie che hai scritto?

“Esatto, è un lavoro che è andato crescendo in seguito a questo spunto. Le poesie più vecchie sono le prime dieci in ordine di disposizione della raccolta. Le altre sono venute in conseguenza, nel giro di un anno o poco più. E poi, alla fine, si sono aggiunti anche due graditi interventi di amici studiosi, Alberto Giorgio Cassani e Giovanni Gardini, che arricchiscono la raccolta.”

Nella premessa al libro dici che “l’impiego del dialetto vuole marcare un’identità che costituiva, oggi non più, un tutt’uno col territorio e con la vita quotidiana del popolo ravegnano”. Voglio concentrarmi su questo “ora non più”. L’uso del dialetto, nel 2016, secondo Nevio Spadoni, che senso ha?

“Prima il dialetto costituiva un’identità perché era la lingua dell’oralità, del parlare quotidiano. Nella realtà contadina, soprattutto. Oggi è diventato un idioletto. Si prenda il caso di Raffaello Baldini e della sua poesia: è un dialetto mescolato con altre gergalità. Lo stesso Nadiani e altri ancora hanno seguito questa strada. Insomma, il dialetto non ha più la stessa purezza, quella arcaicità, quella originalità che aveva un tempo. Ma il senso dello scrivere in dialetto, oggi, non si esaurisce in un sentimento nostalgico. Per me significa scrivere nella lingua che mi è più propria, la lingua che mi ha dato l’imprinting. La lingua che è stata la mia prima lingua, appresa dai genitori, nella mia campagna nella quale ho abitato per 30 anni. Mi sono sempre sentito un archeologo della parola, alla ricerca di quel linguaggio legnoso che oggi è perduto, o va scomparendo. Ma non vivo mica fuori dal mondo: mi rendo conto che in una realtà multi-etnica, multi-linguistica e multi-razziale, ormai il dialetto lo parlano pochi. Alcuni lo capiscono, pochi lo parlano, e quasi nessuno lo scrive più. È diventata da lingua popolare lingua elitaria, scritta prevalentemente nell’uso alto, lirico.”

Raffaello Baldini diceva che ci sono delle cose che succedono solo in dialetto. Queste cose succedono ancora?

“No, le cose non succedono più in dialetto. Però, se vai in certe osterie particolari, in certi bar frequentati soprattutto da persone anziane dialettofone, vedrai ancora modi di fare, di comportarsi, modi di essere e anche di esprimersi che sono peculiari di un mondo passato. Ma ormai sono delle mosche rare. Anche perché questi santuari privilegiati sono luoghi un po’ rifatti, vecchie stalle un po’ rimodernate. Ma esistono ancora luoghi isolati, realtà sperdute, dove le cose succedono in dialetto, dove il vissuto diventa un tutt’uno con l’espresso. Ho insegnato tanti anni nelle scuole, nei licei ravennati ad esempio, e mi sono reso conto di come il dialetto ormai sia una lingua destinata alla morte. Alla requiem aeternam, come il latino. Ma allora cosa vuol dire? Vuol dire che devo tenere in vita questo morto? No. Ma è il mio modo di scrivere. Una forma di fedeltà a me stesso, alla mia natura.”

In che senso?

Ti faccio un esempio. Quando mi telefona mio fratello (e ne ho tre), se qualcuno mi parla in italiano, io capisco che con lui ci sono altre persone. Se mi parla in dialetto significa che siamo da soli, io e lui. Questo te la dice lunga su quello che succede con la lingua e col dialetto.”

In una poesia della raccolta, quella dedicata alla “radici ravegnane” di Pasolini, dici: “una cosa abbiamo in comune, o forse due | Parlo dei nostri dialetti | che fanno rivivere i morti”. Per lui era il dialetto di Casarsa, per te è il romagnolo. Da una lingua di realtà, il diletto è diventato una lingua dell’elegia e del ricordo.

“Ho avuto modo di leggere le sue poesie con il cugino, Nico Naldini, durante un convegno molti anni fa. E abbiamo parlato a lungo di Pasolini. Mi è dispiaciuto non avere avuto la fortuna di incontrarlo personalmente… Sì, in un certo senso quello che dici è vero: la lingua diventa uno strumento per poter parlare dei ricordi e, nel caso di questa raccolta, anche di descrizioni. Ma una volta non era così, era un tutt’uno con la realtà. Proprio Pasolini diceva che il primo linguaggio l’aveva imparato dalle cose: anche io. Quando ero bambino e l’estate la trascorrevamo a piedi scalzi lungo la carraia, ci arrampicavamo sugli alberi e scoprivamo la vita… ecco, il primo linguaggio ci è venuto da lì, nei riti, nei detti. Ci sono cose che potrei dire solo in dialetto.”

Esiste secondo lei uno Sprachgeist del dialetto romagnolo, una sua cifra peculiare, un suo stile che lo distingue dagli altri dialetti? Leggendo i poeti del Circal de’ giudeizi, o anche lo stesso Olindo Guerrini, il romagnolo mi pare essere una lingua molto dolce, predisposta all’elegismo, tutto il contrario di quello che sostiene Gianfranco Contini, ad esempio, quando parla di una lingua “ispida” e “irsuta”, quasi barbarica.

“Non c’è un solo dialetto in Romagna, ce ne sono tanti. Ce ne sono di irsuti, come il mio, quello della zona delle Ville Unite; ce n’è un altro più vellutato, come quello santarcangiolese. Ma ci sono anche tanti poeti diversi, tante sensibilità. Prendiamo i vari Guerrini o Talanti, o anche Neri, i poeti del primo Novecento: erano poeti legati a un certo realismo, a una certa ironia. Nel secondo Novecento è avvenuta una svolta, dovuta soprattutto a Guerra e alla sua raccolta I bu: la fine di un mondo, quello contadino, e l’inizio di un altro, il mondo industriale, freddo; e il poeta si adegua a descrivere questo nuovo mondo, pur con una lingua vecchia, antica.”

Cito queste parole, che sono della Szymborska: “il poeta moderno malvolentieri dichiara al pubblico di essere tale, quasi se ne vergognasse un po’”. Lei sente la vergogna di essere poeta?

“Di primo acchito ti direi assolutamente no. Non sento vergogna per la mia identità. Sento di avere delle cose da dire come altri le hanno, e secondo me la poesia è una ricchezza non solo per me, per il suo valore catartico, ma anche per gli altri, perché una volta scritte, le poesie non ti appartengono più. Poi, perché mai dovrei vergognarmi io? Semmai il mondo dovrebbe vergognarsi con le sue finzioni! Meglio, un certo mondo. La sua de-sentimentalizzazione della vita… Questa è la realtà povera, non quella di chi tenta, come un’antenna – e il poeta per me è un po’ l’antenna della società – di fare riflettere, di aprire la strada. OgnOgnuno ha il suo modo di stare nella vita. Come diceva Franco Scataglini, poeta anconetano: “Per me vita e scritura ene compagne, el sai | tuta scancelatura dopo dolor de sbai”. La scrittura è la mia identità, e non me ne vergogno. Ma chiaramente gli pseudo-valori di tanta gente fanno paura, l’apparenza, il possesso… ci si sente timorosi, si cammina come pecore in mezzo a tanti lupi.”

Ma stiamo divagando, torniamo alla raccolta. Ci sono molti luoghi che racconti e che descrivi, in questi tuoi bozzetti quasi impressionisti. Tanti di questi sono legati ad un turismo istituzionale: le chiese, i siti Unesco, l’eterna Ravenna dorata da cartolina. Mi parso però che le poesie più vibranti fossero quelle che parlano di luoghi personali e meno frequentati, luoghi del tuo passato e del tuo presente. Forse la più bella in assoluto è quella ambientata alla Bassona; ma anche quella sui Giardini Pubblici, sul Giardino delle Erbe Dimenticate, sul Sacrario dei 56 martiri. Sbaglio?

“In parte è così… Ma d’altronde è un po’ un debito che debbo pagare alla città: come non parlare di San Vitale o Sant’Apollinare? Però se noti, anche nella descrizione di questi luoghi il mio io partecipa. Quando parlo di Sant’Apollinare in Classe, ad esempio, scrivo: ‘Vorrei trattenere in una giumella | un po’ della tua passione | una goccia di quel mosaico di paradiso‘… Però sì, forse sono d’accordo con te, le poesie più riuscite e più briose sono quelle più partecipate di io e di vissuto.”

Meno male. La più bella definizione poetica che dai di Ravenna è questa: “in sta zitê che cme ‘na margarita la s’ sërra ad sera dentr’ un pton tot d’ôr”. Fermiamoci un attimo qui: la segretezza di Ravenna, il suo celarsi ed essere celata dai cittadini, è sempre stato un topos letterario fortunato. Poco prima citi Savinio, che conferma questa impressione di segretezza bizantina: per lui la città è “abbottonata fino al gargarozzo nel suo abito di pietra”. Questa particolarità di Ravenna è ancora attuale?

“Sì. Questa chiaramente è una mia nota polemica. Perché non vedo una grande apertura nei ravennati… Anche perché i ravennati in senso stretto sono ben pochi. Siamo tutte persone che sono venute dalle campagne, da destra e sinistra, di qua di là… E ci permettiamo di essere anche campanilisti. Una malattia che detesto… Secondo il mio punto di vista è una città che rimane sempre un pochino bizantina, in tutti i suoi aspetti, pro e contro. Ma pensa adesso al turismo: la nostra è una città chiusa, non è ospitale! Lo si evince da tante cose: i negozi e i bar che chiudono presto alla sera. E allora viene da dirti: ma ‘sta gente perché lavora? Solo per il proprio baiocco, o per la funzione sociale che svolge, come dovrebbe essere? Credo che possiamo migliorare ancora molto.”

Quindi questo vestito di Savinio bisognerebbe sbottonarlo un po’?

“Sì, sbottoniamoci un pochino. Questo oro rendiamolo a tutti.”

C’è una sezione della raccolta dedicata ad altri poeti e artisti, che hanno visitato Ravenna e che hanno contribuito a creare il suo idealtipo. Perché hai sentito il bisogno di chiamare in causa altri artisti, portando la loro visione?

“Volevo unirmi al sentire poetico di altri poeti su questa città, in una coralità di voci. Questo ho inteso fare, caratterizzandoli alla mia maniera, col mio occhio. Di Byron e Teresa aveva gia scritto per il Ravenna Festival, in un lavoro interpretato da Elena Bucci e Chiara Muti, avevo avuto modi di approfondire la vicenda umana e il passaggio di Byron. Anche per Oscar Wilde nutro grande simpatia. L’ho definito ‘palandron’: me lo immagino proprio ‘sto arnese grande che arriva a Ravenna sul suo cavallo… (Ride)”

Ho trovato molto affetto anche nei confronti di Giovanni Pascoli, ad esempio.

“Pascoli è un po’ il nostro padre. Lontano, è vero, ma è lui che ha aperto la strada alla poesia della modernità. Non soltanto in dialetto, ovviamente, ma anche per la lingua italiana, pur essendoci qualcosa che ha scritto che non mi piace affatto. Ma forse, questa simpatia, ce l’ho istintivamente per tutti quelli che hanno vissuto una vita piena di tragedie, per una forma di compartecipazione.”

La sofferenza aiuta la poesia?

“Assolutamente sì. A volte mi sembra di scrivere come in uno stato di sospensione, in cui devi riflettere su tutta la sofferenza che hai incamerato. Tanta della mia poesia è nata in seguito a forti e cocenti delusioni amorose. Non nel momento immediato, ma in quello in cui si rielabora il lutto, come si dice, lentamente. Il senso della perdita è molto forte: a sedici anni ho perso il padre – è stato più o meno il periodo durante il quale ho cominciato a scrivere – e ho avuto anche un’esperienza all’Ospedale Psichiatrico di Modena, a 19 anni, per un forte esaurimento e crisi depressive. E poi la mia vita sospesa, passata soprattutto fuori casa, sbattuto in qua e in là per mantenermi: ad Ancona, il servizio militare in Friuli, a insegnare a Como. Un periodo ramingo… la vita l’ho imparata per le strade e con la gente, sbattendo il muso. La poesia nasce qui, dalla tua carne, dalla tua sofferenza.”

C’è una frase di Ivan Simonini che mi è rimasta molto impressa, quando dice che non ci sono tanti ravegnani illustri nella storia perché in pochi hanno avuto la forza di rescindere le catene d’amore che li legavano alla loro città. Sei d’accordo con lui?

“Io credo che per crescere bisogna uccidere il padre, tutti quanti. E se c’era una cosa che mi sconfortava e mi stupiva era vedere tanti giovani nelle nostre biblioteche per anni e anni, lì, sempre lì: non si staccavano, non rompevano il cordone ombelicale, preferendo rimanere studenti fino a 35-40 anni. Si può amare la propria città anche percorrendo il proprio cammino e la propria storia… Ma Simonini ne dice tante. Dice anche che io sono il più grande poeta dialettale vivente in Romagna, quindi…”

 a cura di Iacopo Gardelli

DANIELA PERICONE vede recensito su IL POPOLO VENETO l’ultimo suo libro, “L’INCIAMPO”

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ARTICOLO PUBBLICATO DA

IL POPOLO VENETO

La parola poetica vigorosa e combattiva di Daniela Pericone

 

Con L’inciampo (L’arcolaio, Premio Francesco Graziano 2016) Daniela Pericone si colloca a pieno titolo tra le voci femminili più interessanti nell’ampio panorama della poesia italiana. Ormai il gruppo di poetesse di rilievo in Italia va di anno in anno infoltendosi e accanto a Antonella Anedda, Maria Grazia Calandrone, Anna Maria Farabbi, Laura Pugno, Silvia Bre, Marina Pizzi, Anna Toscano, Maria Pia Quintavalla, Rosaria Lo Russo, Paola Loreto, Victoria Surliuga si affianca la poetessa calabrese Daniela Pericone. E quest’ultimo libro sta ormai ottenendo consensi molto significativi.

“La poesia di Daniela Pericone, in questo come nei libri precedenti, scrive Alessandro Quattrone -nasce da una necessità incontenibile – oltre che da una potente volontà – di tradurre in parola vigorosa e combattiva il disagio generato da una realtà infida. (…)“L’inciampo” è infatti – dall’inizio alla fine – la denuncia di una mancanza, ma allo stesso tempo l’affermazione di un’energia. Perché il mondo è attraente, certo, ma la sua bellezza è nascosta, prigioniera nella cella sotterranea di un castello che occorre espugnare per poterla riconoscere e liberare.”

Elio Grasso scrive, invece, che ne “L’inciampo” “appare ampio e messo nel punto più fondo, lo spettacolo sommovente di una natura selvatica, dall’interno estromesso fino a posarsi sui fianchi, rivelando poi schiena e arti di un pensiero annodato, circondato e infine snodato.”

Bonifacio Vincenzi, infine, scrive che “Daniela Pericone con la sua saggezza dagli occhi pieni di lacrime, citando un verso di René Char, chiede alla poesia quella verità che non si può e non si deve accettare, la chiede, pur sapendo che la vita ha le sue regole, i suoi segreti ed è intollerante alla sentenziosità e all’ inconoscibile e, spesso, completamente assente.”

Giudizi diversi che di sicuro aiutano a capire il respiro, l’anima di questo libro reso straordinariamente vivo da poesie come questa:

“Accade prima o poi/ arriva da un silenzio/ oltre- umano/ che sbaraglia i fondali/ – cosa sia o non sia/ da che unisono nasca/ so chiamarlo solo/ liberando i levrieri/ agli alfabeti -/ da quale isola insorge/ da che inverno/ il capo reclino e una voce/ che placa e disseta le seti/ se disperde l’indivisibile/ riavvolge le dita di resina/ al bianco del ramo/ un sorso d’aria/ respirato in due.”

 

LA PRIMA RACCOLTA DI POESIE IN DIALETTO ROMAGNOLO DI NEVIO SPADONI PRESENTATA CON L’ARCOLAIO; SI TRATTA DI “RAVèNA” NELLA COLLANA “L’ALTRA LINGUA””

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Premessa

 

Con questa raccolta Nevio Spadoni si inscrive in una tradizione lunga e illustre, formata da un fascio di fili preziosi tra i quali riconosciamo quello dei padri del nostro dialetto e quello più antico degli scrittori di ekphraseis, le vivide descrizioni che dall’età classica al millennio bizantino hanno cercato, come ha fatto Nevio, di descrivere luoghi e opere d’arte trasformando il lettore in spettatore. Ci pare infatti di essere con il poeta, di vederlo ed ascoltarlo mentre ci mostra la sua Darsena, gli ori di Sant’Apollinare e i Mulnér col «garöfan ros int e’ su côr». Seguiamo l’itinerario urbano e suburbano che ha tracciato e siamo presi per mano dal suo dialetto, lingua materna che mentre ci immerge in un’identità profondamente locale, e dunque particolare, ci proietta verso qualcosa di universale: «Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio», ha scritto Tolstoj. E il paradosso è forse solo apparente: ci si inabissa nella complessità di uno specifico dialetto ma il linguaggio è sempre uno, ed è quello poetico.

La delicatezza con la quale Nevio narra la sua Ravenna è tale perché la lingua usata è quella parlata dai suoi concittadini, ed è bello immaginare il dialetto come una sorta di lingua “eterna”, legata al luogo in cui fiorisce e destinata ad evolversi insieme alla comunità di persone e alla civiltà di cui è espressione vivace.

Oggi Nevio Spadoni canta la sua, la nostra Ravenna che «Sot’a un mantël ṣmalvì / d’sól trapesa la nebia», torna ad essere ancora una capitale: della poesia, questa volta.

 

Massimo Cameliani

Assessore del Comune di Ravenna

 

Alcune poesie:

San Vitale, il sacrificio di Isacco

 

Te, fiôl d’un sacrifizi

d’amór e d’ingôs,

in Sa’ Vidêl

manê tot d’ôr,

t’culur ad nôt un zil

ch’e’ fóra e’ temp.

 

Tu, figlio di un sacrificio / d’amore e d’angoscia, / in San Vitale /ornato tutto d’ oro, / colori di note un cielo / che oltrepassa il tempo.

***

La pineta di Dante e di Byron

 

Tra i pen ch’i creca

una staṣon ch’la suda,

se pröpi te t’bot l’öc

t’avdré ’do ch’j à simnê al parôl sti du,

parchè una pêrta d’paradiṣ l’è a cve.

 

Tra i pini che scricchiolano / una stagione che suda, / se proprio butti l’occhio / vedrai dove quei due (Dante e Byron) hanno seminato le parole, / perché una parte di paradiso è qui.

**

Mausoleo di Galla Placidia

 

A l’so che a cve te t’an i sì Placidia,

mo me a fagh cont t’i sia,

e ögni tânt dri a e’ plàtan

ch’l’à piò ad duṣènt èn

a ṣgvec tot cvi ch’i t’ven a truvê pr avdé

manê d’ôr un pastór cun al su pìgur

e sa’ Lurenz ch’e’ va a murì bruṣê.

 

Lo so che qui non ci sei Placidia, / ma faccio conto che Tu ci sia, / e ogni tanto vicino al platano / che ha più di duecento anni / spio tutti quelli che vengono a trovarti per ammirare / un pastore vestito d’oro con le sue pecore  / e san Lorenzo che va a morire bruciato.

***

Uno scampolo della prefazione di Alberto Giorgio Cassani

Sbottonare Ravenna

 

 in sta zitê che cme ’na margarita
la s’ sëra d’séra dentr un pton tot d’ôr

 

Un campagnolo a Ravenna

  Solo un poeta pronipote di Eschilo poteva ricordarci che Ravenna, come Tebe, ha sette porte …

Ravenna, si sa, benché sia stata l’ultima capitale dell’Impero, è una tranquilla cittadina che piace molto ai turisti di passaggio.

Di passaggio, appunto. Come “ascoltare il cuore” di una città, se ti fermi soltanto qualche fuggevole ora? Non tutti sono come il Signor Dido (alias Alberto Savinio, alias Andrea De Chirico – quante maschere greche lui che greco, di nascita, lo era veramente) che in una mezza giornata, deviando dalla via maestra con la sua «vetturetta», ha colto, d’un fiato, l’anima segreta della nostra città: «Ravèna intunêda / sèna a e’ gargöz / int e’ su ’sti ad pré», come traduce, con maestria, Spadoni. Quel Savinio che, giustamente, in questi rapidi, ma profondi «quadretti», come li ha chiamati l’Autore – di settanta luoghi, più o meno famosi nel mondo, e di diciannove celebri personaggi che sono qui passati (e uno, tra i più grandi, «e’ ba d’tot cvènt nuiétar», ci è morto e vi è sepolto) – ha l’onore di apparire.

Ecco che, allora, le guide sono necessarie. Una volta erano viatici per forestieri da instruire nelle cose notabili di Ravenna, come quella di Francesco Beltrami (1783), o per persone acculturate che volevano sapere la verità storica sui monumenti della città (e non memorabilia frutto di retorica amplificatio), come quella altrettanto nota di Corrado Ricci (1884 e sgg.), altro nume tutelare ravennate presente in questo volumetto, colui «che nench par sta zitê u s’è dê da fê».

Ma nessuno aveva provato a scriverne una nel nobile dialetto ravegnano. O meglio, un illustre predecessore di Spadoni, che anche lui, in quest’aureo libretto, non pote-va mancare di essere ricordato, Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti, – «e’ ba de’ nöst dialet» – ci aveva lasciato un fulminante “saggio”: Il cicerone ravegnano, dove si prendevano in giro, alla sua maniera, varie glorie cittadine: «Ahn! che città monsiù! C’è poca gente / Mo si sta allegri ch’ l’è una cosa in grande. / Dante ch’ l’era un poeta intelligente / Appena capitò da queste bande / Patatrac! si morì d’un accidente».

Ancora con le poesie:

 

La Darsena

 

E’ sól l’è ẓa andê ẓo a là int la Dêrsna

in ponta d’pi,

sól un alöch e’ strid sóra a e’ muret;

l’è ’rmast a lè a cuntês agli ùtum nôv,

e a dìs ch’al mugiarà d’arnôv al nêv,

a cvè a Ravèna,

che int e’ su sâñgv la j à la libartè.

 

Il sole già è sceso là nella Darsena / in punta di piedi, / solo un gabbiano stride sopra il muretto; / è rimasto lì a raccontarci le ultime nuove, / e a dirci che muggiranno ancora le navi, / qui a Ravenna, che nel suo sangue / ha la libertà.

***

Sant’Apollinare in Classe

 

A t’gvêrd cun j oc d’ste temp ch’u n’è piò e’ tu,

o Pulinêra, sânt tra i sent d’Ravèna,

ṣgvêrd ad pastór ch’e’ mâñda a l’érba al pìgur

sota una cróṣ ch’l’è cvela de’ martiri.

Avreb cuntné int ’na ẓemna

un pô dla tu pasion,

’na gozla d’che muṣaich ad paradiṣ.

 

Ti guardo con gli occhi di questo tempo che non è più tuo, / o Apollinare, santo tra i santi di Ravenna, / sguardo di pastore che conduce al pascolo le pecore / sotto una croce che è quella del martirio. / Vorrei trattenere in una giumella / un po’ della tua passione, / una goccia di quel mosaico di paradiso.

***

Basilica di San Giovanni Evangelista

 

Dri la stazion di tréno

u j è un purtêl sparvérs

dnenz a una ciṣa.

S’e’ un fos stê par cla timpësta in mêr,

la n’i sareb,

mo la Placìdia la la vus, a e’ pat

ch’la s’fos salvêda.

Sa’ Ẓvân Evangelesta l’è e’ su nom.

Te gvêrda al cloñ

e chi salghé d’muṣaich int al murai!

 

Vicino alla stazione dei treni / c’è un portale maestoso / davanti ad una chiesa. / Se non fosse stato per quella tempesta in mare, / non ci sarebbe, / ma Placidia la volle purché / si fosse salvata. / San Giovanni Evangelista è il suo nome. / Tu  guarda le colonne / e i pavimenti in mosaico sulle pareti!

***

Sant’Apollinare Nuovo

 

Sta cisa ch’l’éra sôrta par j arien,

e dedichêda pu a Sa’ Marten

la s’trôva int la vi d’Roma.

E’ begna dìl ch’la j è un giuiël d’muṣaich

cun di culur ch’starloca,

dal prucision ad sent pusé e d’sânti,

cun la curona.

U j è pu un Crest ṣbarbê ch’divid j agnel

da i cavret.

E me a là pr êria a m’so vest tra cvi,

tra i cavret, u s’sa!

 

Questa chiesa che è sorta per gli ariani, / dedicata poi a San Martino / si trova sulla via di Roma. / E bisogna dirlo, è un gran gioiello di mosaico / con dei colori che scintillano, / e processioni di santi mansueti e di sante / con la corona. / C’è poi un Cristo imberbe che separa gli agnelli dai capri. / Ed io mi sono visto là per aria tra quelli, / tra i capretti, si sa!

***

Capanno di Garibaldi

 

Int la Baiona a là da Pôrt Cursen

u s’è gnascöst cl’ardì ad Garibêld

ch’u l’zarchéva j austrìach

ch’i vléva fêi la pël.

Int e’ trambost d’chi dè

de’ Melötzèntcvarântanôv Anita

la j à srê j oc, cla dòna, a Mandriôl,

e lò a strènẓar la su mân cunfuṣ.

J è pez ad stôria ch’a n’puten ṣminghê,

e che capâñ incóra a lè u s’diṣ

che la guiê dla libartê l’è lònga.

 

Nella Baiona là a Porto Corsini / si è nascosto quell’ardito di Garibaldi / in fuga per sfuggire agli austriaci / che gli volevano fare la pelle. / Nel trambusto di quei giorni / del Milleotto-centoquarantanove Anita, / quella donna, chiuse gli occhi a Mandriole, / e lui confuso a stringere la sua mano. / Sono pezzi di storia che non possiamo dimenticare, / e quel capan-no è ancora lì a ricordarci / che la gugliata della libertà è lunga.

 

***

Piluccar per postfazione (di Giovanni Gardini)

 

Nel sogno dell’acqua

 

Sbaglierebbe il lettore che si accostasse con leggerezza ai quadretti di Nevio Spadoni, ingannato dalla loro forma dialettale. Sbaglierebbero allo stesso modo il ravennate, che presume di conoscere la sua città, e il turista che, attratto dalla brevità dei testi, cercasse sintesi facili o innocue per una visita veloce all’antica città di Ravenna.

Fin dalle prime parole di questa singolare raccolta di scritti, affiora la vertigine: «Te, fiôl d’un sacrifizi d’amór e d’ingôs», (San Vitale, il sacrificio di Isacco) ed il rapido sguardo rivolto al giovane Isacco inginocchiato sull’ara del sacrificio, è già visione del tremendo spettacolo di quel lontano venerdì sul Golgota, dove un altro Figlio salirà, anch’esso innocente, sul patibolo.

Pagina dopo pagina, prendono vita storie remote – quella di Abramo e del figlio, a lungo atteso e invocato, segna appena un inizio – che s’intrecciano con ben altri amori e passioni, «Piò in là u s’è ṣmurtê che fugh che a cve u s’è apiê d’amór rubê», (Casa dei Da Polenta),  fino a diventare una consapevole, ma non drammatica, riflessione sulla vita: «e te ravgnân, mo nö t’n’avé par mêl /se a t’arcôrd che un dè /a durmaren un sòn,/ ṣminghé int un ẓarden ad érb ch’al dòndla /giost nenca ló, una staṣon int e’ vent», (Il giardino delle erbe dimenticate), parole dure, eppure vere, eco lontana di quanto disse Qoelet, il sapiente (Eccle 1, 4), o Isaia, il profeta, al popolo ribelle (Is 40,8).

A Ravenna fu dato il privilegio di incrociare grandi destini; i monumenti dagli sfolgoranti mosaici, ricchi di fini marmi lavorati da abili mani, lo testimoniano con forza. Già questo, poteva bastare per saziare la curiosità del colto viaggiatore o per compiacere la vanità del ravennate. Già questo, probabilmente, poteva bastare. Eppure Spadoni va oltre all’austero nozionismo e alla didascalia pedante, per offrire al lettore riflessioni pulsanti di vita che affiorano dai secoli lontani e portano linfa vitale al presente, quale tempo propizio nel quale attingere alle antiche fonti per essere dissetati: «A t’gvêrd cun j oc d’ste temp ch’u n’è piò e’ tu,/ o Pulinêra» (…). Avreb cuntné int ’na ẓemna /un pô dla tu pasion, /’na gozla d’che muṣaich ad paradiṣ», (Sant’Apollinare in Classe). Via Cavour e la chiesa di San Domenico diventano l’occasione per uno sguardo ironico e amaro sulla vanità del cuore umano: «e pu u s’véd la fira d’cvi ch’i créd/ che un ’sti e’ sia gnacvël / par ësar cvicadon». Nei Vangeli dell’infanzia del Cristo, scolpiti nel prezioso avorio della Cattedra di Massimiano, dall’annunciazione all’adorazione dei Magi, è raccontata l’origine del mondo: «J è di cvadret ch’i conta / com ch’l’è dê fura e’ mònd» (La cattedra d’avorio di Massimiano). A Galla Placidia, la grande signora, figlia, moglie e madre d’imperatori, l’autore si rivolge con ironico affetto, come a una di casa, da sempre conosciuta: «A l’so che a cve te t’an i sì Placidia,/ mo me a fagh cont t’i sia», (Mausoleo di Galla Placidia).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

un nuovo autore, eugenio vitali, entra nel catalogo l’arcolaio con il suo nuovo libro: “la traccia”

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UN NUOVO AUTORE ENTRA IN CATALOGO ARCOLAIO.

SI TRATTA DI EUGENIO VITALI

 

Il suo nuovo libro si intitola La traccia e si fregia della prefazione di DAVIDE RONDONI.

 

Eugenio Vitali ha una lunga carriera alle spalle, come recita la bio-bibliografia, che qui sotto volentieri riportiamo:

“Eugenio Gino Vitali è il poeta ravennate che tra il ’69 e il ’70 sorprese l’Europa con il Libro d’Affissione (manifesti di grande formato con cui tappezzò di poesie i muri delle grandi città italiane, dal Veneto alla Sicilia), un’operazione inedita per l’epoca e che aprì la strada a fenomeni imitativi, nel nostro paese e all’estero.

Classe ’34, dodici raccolte alle spalle (“Concerto Atomico”, per le edizioni Cappelli, gli valse nel 1984 la vittoria al Premio speciale Dino Campana e “Testata d’Angolo”, per le Edizioni dell’Orso, quella al Premio Internazionale Moncalieri nel 2006), liriche tradotte in Francia, Germania e Polonia, e un’intera silloge tradotta nella Repubblica Ceca da Zdenek Frybort – l’indimenticato traduttore de “Il Nome della rosa” di Eco – Vitali ha raccolto i consensi formali della grande critica da Bárberi Squarotti a Roberto Roversi (due le raccolte di Vitali uscite per i tipi della “Libreria Palmaverde”) da Maria Luisa Spaziani a Gino Ruozi a Nevio Spadoni.”

 

Adesso si pubblicano, qui sotto, alcune poesie, alternate frammenti della prefazione di

DAVIDE RONDONI.

 

Buona lettura!

Buon arrivo in ARCOLAIO, caro EUGENIO!

 

***

 

Abito al pianterreno,

non ho scale per salire.

 

Divento leggero

più del sonno che incanta.

Oltre al mio nulla

purifico il cinismo,

balbetto un alfabeto,

mi sorpasso come un clandestino.

L’alba si isola

nel greto,

lasciando integre

disordinate macerie.

 

**

 

San Francesco

 

Le campane di San Francesco

lampeggiano secoli,

stanno a guardia di lontananze

che non potemmo scavalcare.

Nel giorno che si nasce,

nel giorno che si diventa,

quelle campane raccontano

di genti dalle ostinate

strette di mano,

testamenti

con memorie di un sogno.

 

E la nebbia su Ravenna si attarda

rateizzando la vita.

 

**

 

 a Roberto Roversi

 

Vestivi

di un solo colore le bandiere,

per te la Storia montava lenti spesse.

Nebbie fuori dal portone,

la pietra levata

all’edificio.

Il sorriso

di Elena.

Se anche una sola persona perde,

– mi dicevi –

tutti restiamo sconfitti.

 

 

 

14 settembre 2012

 

**

 

Vitali arriva all’incrocio.

 

di Davide Rondoni

 

“Eugenio Vitali come ogni poeta trae in inganno. O meglio trae a un altro livello delle cose, del discorso.

I toni di malinconia, i frammenti di ricordi, la notte, Raven- na coi suoi ori marini, perduti nei secoli … Questo libro potrebbe sembrare un gesto sospeso tra memoria e nostalgia. E lo è, certamente, come si vede in alcuni dei testi più belli e vividi:

III

A sera conclusa, /la casa/ diventava suono /nell’aia. /Ci appoggiavamo / su panche di vento, / mia madre un libro di favole, /sul suo volto un’ombra /lasciata intatta dal sole.

 IV

Il maestro Marcello / era un re, / scriveva il tempo, / portava da casa la vita,/ Nel suo pensare fioriva /la terra. / La scuola / cancellava la matita, / avevamo ancora luce per stagnarci.

È poeta che cerca in tale aria memoriale l’esatta dizione delle cose, come un traccia di luce nella penombra. Quelle “panche di vento” …

E altrove, in molti punti del libro, Vitali fa rivivere, con un gesto quasi da pittore bizantino, momenti che baluginano come stelle nella notte del tempo. Un tempo che, appunto, toccato dalla poesia, non spegne quei momenti. Come la intensa poesia per il fratello. O quella per il padre.”

 

**

Scrutami la fronte

e incorona le notti.

Lascia alle righe

assetate

i ricami dell’ombra.

 

Adesso mi credi:

sono il tuo nemico.

 

**

Per Franco, mio fratello

 

Un campo aperto,

il biglietto d’ingresso che i giorni

acquistavano per giocarsi.

Vivo da vivo

come le stagioni che raccontano i frutti.

Mille persone in una

per lasciare all’altro la scelta.

Guidavi scalate,

portavi zaini di polvere.

Mai una pausa,

nuove voci alla casa dei giorni,

un calcio a un pallone,

ti specchiavi in un volto malato,

correggevi compiti e menti,

rincorrevi le stelle e le donavi.

 

**

 

“…Ma i poeti, dicevo, sono ingannatori. E forse i poeti romagnoli ancor di più. Non perché giochino o, come certi altri poeti un poco da salotto, perché cerchino consenso delle menti più che dei cuori con un uso frequente dell’ironia. No, Vitali non gioca mai. Se vi è “ludus” nel gesto di poetare si ha nel gesto quasi bambinesco, nello stupore della ragione di poter adoperare parole che superano se stesse, quasi come elastici che al gioco si rivelino più intrepidi delle intenzioni di lancio. Un gioco dunque come superamento stupito del linguaggio, o come afferma in modo bruciante un antico libro di inni: “in hac verbi copula stupet omnis regula” – in questo gesto amoroso della parola stupisce ogni regola.

Vitali non cerca l’annullamento della regola (nella poesia co-me nella vita, direi) ma il suo “stupore”.

L’inganno di un poeta autentico è sempre inganno d’amo- re. E anche in questo caso, Vitali, mentre ci dona da pagine su cui sembra invitarci a un primo completo – non per mole ma per capitoli toccati –, in realtà ci fa vedere che il punto vivo, la forza vera di tale autoritratto sta in una “sfuggenza”. O meglio, in una sempre irriducibile alterità.”

“Sarai altro / prima di voltarti”

 

**

 Dalla sezione  La traccia

(dicembre 2012 – marzo 2013)

 

Un treno

lasciava dighe di fumo,

le rotaie smerigliavano specchi.

I vecchi avevano viaggiato

per annullare una corsa finita.

Fagioli come bistecche

sollevavano la loro fame.

Un barbone passava,

il treno fischiava e lui se ne infischiava,

salutava il convoglio

dove finivano le voci.

 **

 Ripresi a sfidarmi fra lampi di lepri.

Arrivarono

Lorenzo, Cico, Erba e Vetro di Legno.

Per non sciuparlo,

tenevamo il sole nell’ombra,

per merenda c’era la fame.

Il giorno della Cresima

ci misero in fila,

ci dissero che l’Eterno non si sarebbe più

allontanato.

 **

A Maria Luisa Spaziani

Restauro il bacio

che non sapemmo vivere.

Per capirci, la luce si tramutava in vento.

Restavo al cospetto delle onde,

i tuoi occhi distendevano lampi.

Insieme,

in una zona franca,

dentro a un cerchio di giorni,

la nostra prova

incastrò la vita.

“Eugenio… ora

non posso risponderti”.

**

“Sarai altro / prima di voltarti”

 

“…O altrove, con accenti quasi da invenzione quasi alla Majakovskij:

XIV

Nel mio corpo / vita e tempo. / Una donna / mi raccontò “ho accarezzato la notte, / in due faremo vivere anche il nulla”. / Ma io correvo/ avanti, / spegnevo ancora / i colori delle biglie.

XV

Sempre una traccia / dentro me. / Il tempo è solo un intarsio, / pensavo, / e con i miei abiti vestivo il tramonto, / lo portavo a ballare.

Intendo che c’è in Vitali, accanto e inestricabile alla sua forza di presenza qui e ora, di hinc et nunc della storia e del presente, accanto a quella forza che – secondo la lezione di un Roversi a lui caro, amico e maestro – lo fa legare la speranza di tutti al destino o alla sconfitta di uno, così come gli fece inventare e propalare le poesie-manifesto, un’altra forza. C’è una energia non alternativa e non di segno opposto, di certo non egocentrica, ma attenta a considerare il grande mistero dell’io”. Dell’uomo che pronuncia “io” nell’universo e si rende cosciente di una differenza vertiginosa e misteriosa. Una identità e alterità sperimentate secondo quello che ha scritto il genio di Charleville, Arthur Rimbaud, che gridò al centro della poesia moderna, sconfiggendone ogni sicumera espressionista, egoista e avanguardista di bassa lega: “j’est un autre” – io è un altro. O che mormorò: non sarebbe esatto dire “io penso, ma io sono pensato”.

Intendo che sulle estreme propaggini del suo lavoro, Vitali, in quanto autentico poeta, coglie che nel suo stesso dire e essere-al-mondo si adempie un prodigio di “feritoia” di presenza che al tempo stesso parla d’altro:

“L’invisibile non lascia impronte, solo presenze”

dice in un fulminante aforisma della seconda parte del libro.

In questa sorta di doppia uscita del suo sguardo, verso il tessuto personale e collettivo di una storia (a volte cronaca minima) personale e comunitaria, e d’altra parte, verso un mistero del destino personale e della sua necessità di una parola aperta all’infinitamente altro, ecco, qui, in questo incrocio, o anche croce, sta e canta anche a denti stretti, e mormora ora la poesia di Vitali.

E con questa “x” segna il posto che gli spetta come poeta e segna il nostro ascolto con un marchio, un sigillo. Un ardente pro-memoria.”

“Perché temere la notte? Fa da apprendistato alla luce”

 

Davide Rondoni


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DANIELA PERICONE, PRIMA EX AEQUO AL PREMIO “FRANCESCO GRAZIANO” 2016 – V EDIZIONE

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La giuria presieduta da Annalisa Saccà, docente di letteratura italiana presso la St. John’s University di New York, e composta da: Luigina Guarasci, direttore de ilfilorosso di Cosenza, Vincenzo Ferraro, dirigente scolastico e critico letterario di Cosenza, Salvatore Jemma, poeta e saggista di Bologna, Maria Lenti, poeta e saggista di Urbino, Giuseppe Sassano, docente e promotore culturale di Cosenza, Mariangela Chiarello, segretario del premio di Cosenza ha deciso di premiare:

Sezione A – POESIA EDITA:

Primo premio ex aequo:

–       Daniela Pericone (Reggio Calabria): L’inciampo (L’arcolaio);

–       Bonifacio Vincenzi   (Cosenza): Bataclan (LietoColle).

La cerimonia di premiazione si terrà sabato 18 giugno alle 17,30 presso

il Museo di Arte sacra di Rogliano (CS).

SERGIO ROTINO, SU CARTEGGI LETTERARI, RECENSISCE “LA BUONA STELLA DELLE COSE NASCOSTE” DI AFRIC MC GLINCHEY

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Afric Mc Glinchey: Lo sguardo mai deformato della realtà. Nota su “La buona stella delle cose nascoste” (L’Arcolaio, 2015) di Afric McGlinchey a cura di Sergio Rotino

A colpire, più che l’idea della migrazione, dello spostamento da luogo a luogo (soprattutto per sottolineare necessità oppure obbligo, ma non unicamente), in sostanza del muoversi, elemento radicato nel profondo di molti dei testi inseriti da Afric McGlinchey nel suo libro di esordio La buona stella delle cose nascoste, è il modo, il come l’autrice racconti questi momenti, così come altri, diciamo, più intimi, più personali e riservati.
È uno sguardo e un linguaggio, quelli utilizzati da Afric McGlinchey, che trovo parente stretto di quelli propri ai reporter, agli inviati speciali come li si chiamava un tempo. Se vogliamo specificare, lo trovo parente stretto di quello usato non tanto dai fotografi, ma da alcuni autori, da alcuni inviati per quotidiani e riviste dagli anni Quaranta ai Novanta, pronti a raccontare i luoghi, le persone, gli avvenimenti con sguardo limpido, partecipe, curioso, attento e, in fin dei conti, sempre in presa diretta o comunque senza “montaggi” arditi quanto ambigui attuati forzosamente in postproduzione. Qui potrei parlare di Giuliana Sgrena, di Ilaria Alpi, di Enzo Baldoni, esempi a noi vicini, parziali (volendo, anche depistanti) di quanto intendo. Uno sguardo, comunque, che in Afric si presenta senza altre remore se non quelle riguardanti il limite dato dalla parola, dall’estensione del pensiero sulla carta e dalla sintesi che al pensiero fattosi versificazione lei e solo lei (come gli autori cui mi riferisco, e solo loro) ha saputo dare.
Trovo poco, nelle poesie raccolte in questo La buona stella delle cose nascoste, dell’idea confessionale che aleggia sul, o è intima parte del, lavoro di molte altre poetesse di lingua anglofona, passate e presenti. In maniera ancora più forte che in Carol Ann Duffy, in Afric Mc Glinchey si ritrova la capacità – quasi fosse una arguzia istintiva – di immettersi nel tema scelto, nell’evento, attraverso attacchi esplicitamente narrativi, e di svilupparlo poi stereoscopicamente, fornendolo di un forte impatto visivo e olfattivo. Insomma Afric sembra lavorare in modo costante nella direzione di portare al proscenio quanto i cinque sensi hanno esperito direttamente, cioè nel momento in cui hanno vissuto in diretta l’evento.
Questa attenzione a un piano nitido della realtà non cancella l’altro, di piano, ovvero quello metaforico, presente in moltissimi se non in tutti i testi raccolti nelle pagine del libro. Diciamo anzi che lo acuisce, riuscendo a mantenere sia il tema che il senso della narrazione e del soggetto narrato fuori dal cerchio dell’ambiguità. Afric si mostra generosa nel riportare, senza mai farlo capitolare sotto i colpi di una soggettività dilagante, il dato di realtà da cui muove per scrivere i propri testi poetici. Vuole partecipare a esso e riportarlo come esperienza, che da singolare si fa universale, che da personale diventa di tutti. L’emotività resta perciò ben visibile e, giustamente, si fa portatrice di una empatia capace di legare strettamente lettore a tema delle poesie, che si tratti di Ultima conquista o di Scintille, de I portatori d’acqua o de L’impronta di uno zoccolo, sotto il cuore o, ancora, di Sulle suole dei loro piedi. Però tutto questo si forma, non so quanto per miracolo o per tecnica, molto al largo dal circuito della retorica più a buon mercato.

 

On the soles of their feet

I watch it, this Harare life
that I have left: new hair extensions,
heels and shiny faces, bodies like models;
the guards, with their batons, guiding white
Mercedes between parallel lines; potholes,
filled up hourly by street kids
who rob red bricks from garden walls;
dark windows that roll down, float
dollar notes for school fees.

The Book Café is closed, for fear
of revolutionary activity,
and Mannenburg’s is shut down too –
all that jazz is quite suspicious.
The black streets rock
with drunken combis; restaurants
have sprung up in the tranquil gardens
of private homes, and look,
there’s furniture, clothing, trinkets.

On New Year’s Eve, the town feels empty;
friends have headed to Vic Falls,
taken off for Mozambique. But in this bar,
-to an African beat, hips and buttocks sway boisterously.
A Roman candle spurts for half an hour,
like sporadic, bent-over laughter. Rain brings frogs
and lulls the crickets, and scents swirl in and then
there’s no electricity. You’d think there was a war,
or sudden peace, for all the expectation.

The drive across an unlit town,
son riding shotgun for protection.
A pre-dawn skinny dip among the frogs.
No lights; no water from the taps.
A solitary plane at the airport. But there are diamonds
and cutters and polishers and smugglers
and dealers right next to Econet and Buddy.
There are diamonds.
There are diamonds and bodies.

 *

Sulle suole dei loro piedi

L’osservo, questa vita di Harare
che ho lasciato: nuove extension per i capelli,
tacchi e visi luminosi, corpi da modelle;
le guardie private, con i loro manganelli, che guidano
Mercedes bianche a cavallo delle corsie; crepe nell’asfalto,
riempite ogni ora da ragazzi di strada
che rubano i mattoni rossi dai muretti dei giardini;
finestre scure che si chiudono, fluttuano
dollari in banconota per le rette della scuola.

Il Book Café è chiuso, per timore
di attività rivoluzionarie,
e neanche Mannenburg è aperto –
tutto quel jazz è piuttosto sospetto.
Le strade scure ondeggiano
di combi umbriachi; dei ristoranti
sono spuntati nei tranquilli giardini
di case private, e adesso guarda,
ci sono mobili, vestiti, chincaglieria.

L’ultimo giorno dell’anno, la città si sa deserta;
gli amici si sono diretti verso Vic Falls,
sono volati in Mozambico. In questo bar, però,
fianchi e natiche si dimenano con impeto secondo un ritmo africano.
Un bengala zampilla per mezz’ora,
come una risata sporadica, a stento repressa. La pioggia porta le rane
e culla i grilli, e i profumi entrano in un vortice e poi
viene a mancare l’elettricità. Penseresti che ci sia una guerra,
o una pace improvvisa, per tutte queste aspettative.

Il tragitto in auto attraverso una città non illuminata,
il figlio che porta un fucile a protezione.
Prima dell’alba un bagno a corpo libero tra le rane.
Nessuna luce; non c’è acqua nei rubinetti.
Un aereo solitario all’aereoporto. Ma ci sono diamanti
e intagliatori e lucidatori e contrabbandieri
e spacciatori proprio accanto a Econet e a Buddy.
Ci sono diamanti.
Ci sono diamanti e corpi.

 

Note alla traduzione

Il riferimento del titolo originale è alla canzone Diamonds on the Soles of Her Shoes di Paul Simon, contenuta nell’album “Graceland” (1986).
L’espressione “all that jazz” (v. 13) è un gioco di parole intraducibile in italiano, perché significa “tutto quel jazz” e, allo stesso tempo, “tutto quel caos”.

Sergio Rotino

 

DANIELA PERICONE E DAMIANO SINFONICO, FINALISTI AL PREMIO CAMAIORE 2016

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Per il Premio Camaiore:
Cristina Annino – “Anatomie in fuga”- Donzelli editore
Lorena Carboni – “La mia sola casa” – AM&D editore
Milo De Angelis – “Incontri e agguati”- Mondadori editore
Chiara De Luca – “Alfabeto dell’invisibile” – Samuele editore
Enrico Fraccacreta -“Tempo ordinario” – Passigli editore
Adelio Fusé – “La veglia del sonnambulo” – Book editore
Donatella Giancaspero – “ Ma da un presagio d’ali” – La Vita Felice editore
Paolo Guzzi – “La commessura dell’occhio” – Robin editore
Dante Mariannacci – “Scenari della mente” – Di Felice editore
Adriana Gloria Marigo – “Senza il mio NOME” – Campanotto editore
Cinzia Marulli – “Percorsi” – La Vita Felice editore
Angelo Maugeri – “Prove d’impaginazione” – NEM Magenta editore
Luciana Mei – “Storie d’amore” – Giovane Holden editore
Vito Moretti – “Principia” – Tabula Fati editore
Roberto Mussapi – “La piuma di Simorgh” – Mondadori editore
Daniela Pericone – “ L’inciampo” – L’arcolaio editore
Silvio Raffo – “La vita irreale” – Robin & sons editore
Nicola Vacca- “Luce nera” – Marco Saya editore

Per Camaiore Proposta Opera Prima “ Vittorio Grotti”:
Martina Abbondanza – “Il giorno tutto” – Ladolfi editore
Alessia Bresciani – “A piedi nudi” – Giovane Holden editore
Maddalena Lotter – “Verticale” – LietoColle editore
Davide Maria Quarracino – “Frangiflutti” – LietoColle editore
Luigi Sebastiani – “Gli atti della speranza” – Giulio Perrone editore
Damiano Sinfonico – “Storie” – L’arcolaio editore

LUCA CENACCHI RECENSISCE “LA SAGGEZZA DEI CORPI” DI MARTINA CAMPI.

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COPERTINA CAMPI

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Questo mese ospitiamo una poetessa e performer originaria di Verona e attualmente residente a Bologna: Martina Campi con La Saggezza dei Corpi , raccolta edita da l’Arcolaio nel 2015, Forlì. 
La Campi ci dona un libro che indaga sul periodo trascorso  dentro una struttura ospedaliera suddivisa in sette  giorni, producendo una esperienza poetica, che rivela una profonda tensione, a tratti drammaticamente ironica, iconizzata da una stilizzazione personale e matura di sapore surreale.  Nonostante la suddivisione in giornate, i componimenti sembrano mescersi, finendo per superare spesso i  limiti della originale suddivisione,  dando al lettore la sensazione di unitarietà a fine della lettura.
Il ritmo, anche grazie a un uso serrato e non arbitrario di enjambement, contribuisce a creare quel flusso (quel fiume per dirlo con le parole della Campi), che percorrerà tutto il libro. Questo non da a La Saggezza dei Corpi un ritmo forsennato. Il variare della versificazione si apre alla necessità narrativa, che può essere, da una parte, contratta, quasi dialogica; dall’altra si sa anche  distendere per far fronte a un bisogno descrittivo. La sintassi si piega alla necessità delle pause, in cui si deve spiegare il respiro del lettore, donando al flusso della Campi una consistenza e un “tempo” modulare, ma preciso, aiutato talvolta da segni come le parentesi che lo rimarcano, finendo, però, per ampliare e dunque complicare il campo semantico di certi passaggi fino a situazioni di ambiguità. Ambiguità anche favorite da un interazione allitterante, anaforica,  perfino rimata, delle parole che compongono questi passaggi. Oltretutto, talvolta, si cerca di suturare le parole con underscore per sottolineare ogni inclinazione possibile del discorso: “ portano fogli, scambiano nomi/ scambiano lamenti/ tagliano vestiti,/ a pezzettini e_le_menti”. Un altro esempio nelle prime due strofe di

Giorno #1

Il primo respiro dopo la corsa
si sgonfia di aria e di luce

Giorno #1

E’ un fiume oggi la ferrovia
dal quale straripano i binari e oltre
gli argini folli i fogli, i sedili
galleggiano e si allontanano, lasciati (andare,

via) c’è una mano tra i palazzi e un muso
tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora
da dove vieni? Dov’è trascorsa la notte?
E percorre i contorni, li stringe, li logora, li rovescia

Già da questo incipit è difficile non notare il procedere surreale della narrazione, dove l’io si nasconde dietro le descrizioni, finendo per rimanere così latente. Prevalentemente di media estrazione il linguaggio – anche se si osano accostamenti più preziosi( vertigini cerulee) fino a inserire contaminazioni extra-letterarie- sostanzia immagini dagli accostamenti concreti, grazie a suggestive ipallage e allusioni. La Campi, tuttavia,  non si preclude la possibilità di arricchire l’atmosfera mediante slanci più ariosi e vaghi (il primo respiro dopo la corsa/ si sgonfia di aria e di luce[…]).
L’impianto surreale, l’ampio respiro del linguaggio e la tendenza alla sperimentazione, assieme al sapiente uso della retorica e del ritmo, favorisce la manifestazione di un discrimine fra esterno/interno (dove esterno, come è stato notato dalle note critiche nel  volume).
Questa suddivisione si condensa , secondo me, non solo in un affiancamento delle due realtà, ma si prefigura, anche e soprattutto, come tendenza verticale, ravvisata nell’approccio stilistico, il quale illumina la verticalità dell’architettura esistenziale che, dalla base abitudinaria e irrilevante, si sublima in quella “sopra-realtà”, impregnata di significati e dramma.
Sono proprio gli accostamenti arditi a causare spesso spostamenti di senso e ambiguità, a favorire la manifestazione di quella sopra-realtà che caratterizza il flusso della raccolta. Il tutto è confezionato in una suddivisione “diaristica”, ma è un “diarismo inconscio”, in cui la narrazione si dilata per far entrare, attraverso quelli che potremo chiamare incisi poetici: ovvero una personale modalità di riflessione in cui, da una parte, si dilatano le immagini, dall’altra si prefigura un dialogo.
Questa scelta, insieme a quelle già citate precedentemente, contribuisce a sfaldare, intaccare progressivamente, il referente reale che, seppur non sparisca mai del tutto, risulta alquanto confuso.
Una delle prime dimensioni “mondane” a essere totalmente devastata è il tempo, soffocato dal fiume narrativo concretizzato dallo scrosciare degli enjambement e  del ritmo continuo in cui si erge una struttura allusiva degli eventi. Ciò contribuisce a restituire e delineare al lettore il senso di spaesamento e sradicamento dalla realtà, che l’autrice deve avere provata sin dal primo momento in cui è entrata in quel mondo.
Assieme al tempo, se ne vanno poi le abitudini, la struttura rassicurante della routine in cui spesso ci si identifica e radica: “un giorno qui e ci siamo/ già stranieri/ alle ore nostre appese (ai corrimano)/ sfaldate calde perse/ che non si fanno più,/ le care abitudini […]”.
Ogni tentativo di ricreare una routine interna all’ospedale  viene puntualmente ironizzato: “ andiamo a farci una nuotata, a turno/ nel nostro bagno in comune e in accordo/ e andiamo a nutrirci insieme ch’è il mezzodì/ al tavolino, ai piedi del muro (arid’osso):/ quando restiamo tra noi ci scambiamo gli avanzi/ e ci diciamo buon appetito, (ti sia gradito)”. Si può dire dunque che vi è una sorta di aggressione, spesso velata, non solo alle strutture narrative e alle caratteristiche del “diarismo” tradizionale, dunque alla realtà attraverso il progressivo sfaldarsi del referente, ma anche una aggressione interna alla suddivisione in giorni il cui limite, superato e trasceso dal flusso inarrestabile, il quale cerca sempre di suturare e connettersi con ciò che avverrà dopo.

Cosa rimane, dunque, dopo questa aggressione? Cosa popola questa sopra-realtà? Questa dimensione è popolata da chi va e chi viene, da chi cerca di essere di aiuto e da figure che si caratterizzano per il loro essere di passaggio, assieme alla loro impotenza, che non sono nulla di diverso dai muri, dai corridoi dalle sedie. I dottori, i visitatori etc… sono visti come puro arredamento, impotente e ornamentale: sono spettatori del dramma ospedaliero del quale sono troppo spesso anche inconsapevoli testimoni e per questo non hanno rilevanza figurale, se non tramite i loro accessori; infatti molto spesso noi intuiamo che vi sono questi fantasmi proprio dagli oggetti che si portano appresso: “e anche loro che arrivano, con l’amore/ nelle borse, e le migliori intenzioni”. Questa dimensione è popolata inizialmente dalle “voci”, perché : “ quando parliamo/( o le sento sussurrare),/ so che siamo ancora vive/ che non ci siamo mosse di qui”. Le voci gridano, pregano, si disperano, parlano e facendo tutte queste cose, come si è visto, attestano il loro perdurare, il loro esserci, sullo sfondo della minaccia del” bianco” e del “buio.” A una persona, una voce, privata ed estirpata dal suo contesto, cosa rimane se non abbracciare l’ingenuità sana di una follia che, una volta familiarizzato col dramma trova persino il coraggio di ironizzarlo, quasi sbeffeggiarlo. Ironia che si rivela nella sua doppia veste di intima attestazione e partecipazione al dramma della “sopravvivenza guidata”, perché essa in ospedale, alla fine, è sempre in mani altrui . E’ questo ciò che succede alla Campi e alle due amiche, compagne di viaggio (Gina e Maria). In mezzo a tutte le lacrime e le sofferenze ci si può ritagliare, anche solo per un momento un frangente di serenità, nonostante la tensione drammatica non ceda mai il passo. “ La Gina cercava il sole/ e controllava/ come un capitano consumato/ i movimento del vento”, oppure: “ Il computer lo chiamavamo/ bollettino dei morti/ chi è morto oggi? Chiedeva Gina/ io e Maria ridevamo e rideva anche lei/ scampate al sospetto/ della bruta follia/ scampate di brutto alle glaciazioni/ e forse non lo sapere, che Maria ha un dolore/ sommesso, piegato, sotto il cuscino”.
Le voci sono, quasi sempre, quello che rimane di ogni paziente: perché l’ospedale sembra potersi prendere anche i sensi, distruggendo la percezione che le persone hanno, relegandole, inizialmente, a un “silenzio addormentato”; in un perpetuo torpore che dilaga dal corpo: “il torpore travalica il confine dei rumori/ gli aghi nel braccio e le coperte di lana/ il freddo disumano della stanza[…]”; “ oppure ci si trae in salvo con gli specchietti/ ed è un sentirsi di nuovo le dita”.  Ogni apparenza di movimento conscio, o quasi, originato dalla volontà della poetessa, si rivela, in realtà, un illusione della macchina misuratrice e monitorante ospedaliera, che delinea, oltre alle privazioni, sempre nuove prigionie “e invece: i movimenti sono della macchina/ in sussulti, mentre dentro immobili,/ sparsi, frantumanti nella memoria”.
Al culmine della sofferenza sopraggiunge il freddo, la solitudine provocata, forse, da chi è distante. Allora il dilagare del bianco diventa quasi insopportabile e minaccioso, assieme alla tenebra crescente: “ acquazzone d’amore materno al gelo/ che aspetta l’apertura delle porte/ seduta su sedia giocattolo/ seduta, a far parole crociate/ lontana nelle cavità nel freddo più/ lontano delle notti d’inverno[…]” “amici miei, dove siete? (abbracciatemi)/ qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina/ anzi si sbobina al buio che sta in basso e viene, su”.
La coscienza corporea che ognuno di noi normalmente possiede è anch’essa un abitudine e, all’interno dell’ospedale, la Campi ci mostra come, in realtà, essa sia un dono, donato e accertato attraverso le misurazioni con cui si attesta il grado di salute di un corpo. Alla fine è questo quello che importa ai medici, il corretto funzionamento del corpo in senso meccanico. “ su gambe poco stabili/ vanno via le teste/ le linee della febbre/ sotto le vesti nei vestiboli”. Dopo la follia e la febbre, dunque, dopo che si è stati dilaniati dalla medicina,cominciano a ritornare frammenti di una vita precedente, di una tenerezza quasi dimenticata. Il caos si fa insopportabile, perché insopportabile è il moto disgregante contro l’io. Quindi si cerca di ricomporre se stessi negoziando, con esso, le abitudini nuove o passate: “ briciole che passano / nei fiori e l’erbe/ le panchine al sole/ i passi per di la, accompagnati, mai stanchi/ si fanno rotondi, si/ fanno braccia accanto/ che dicono ancora certe/ ancora carezze/[…] una tregua che non basta/ misurare il cuore misurare/ il polmone misurare le valvole/ con una tregua che non pasta” e poi, prima della fine “ arrivano i baci del luglio incerto/ delle macchine, dall’oceano/ e arrivano le voci candela/ il caos non fa più per noi/ in certi momenti si pensa/ solo al ritorno e quello che c’è/ sono vacillamenti/ sono muscoli che si allenano al bene/ ci si slaccia dalla quiete/ del libro in forma di nausea/ per poi negoziare un abitudine/ all’ordinario disorientamento”.
Alla fine sembra che non si possa lasciare mai la claustrofobia disgregatrice dell’ospedale: “riferiti deficit neurologici transitori/ oscillazioni della vigilanza/ trascinamento bilaterale/ diplopia, vertigine soggettiva/ amnesia di fissazione/ e tutto ritorna com’è/ e tutto intorno s’aggira fino/ ai prossimi giorni, ignoti”.
Martina Campi, con il libro La Saggezza dei Corpi, ci consegna un esperienza non solo stilisticamente matura, ma di grande qualità, nel declinarsi delle sue varie particolarità tutte aperte. Questo libro infatti, come ogni esperienza che lascia un segno nella esistenza della persona che l’ha scritto, necessita dunque di essere esplorato profondamente, affinché , di esso, si possa fruire ogni intimo moto e modificazione. Un libro segnato dalla privazione, dalla violenza quasi paradossale che il contesto ospedaliero esercita sull’io. Io fatto latente nel momento in cui perde,sradicato da esso, il referente reale, per pervenire inconsciamente a quella sopra-realtà in cui il caos, creato dall’imminenza della morte, dilaga e a cui si oppone, per un momento, una ironia folle e ingenua di chi non ha alternative, se non lasciare, nelle mani(impotenti) altrui, ciò che si ha di più prezioso: il proprio corpo, la salute e dunque se stessa. Perché alla fine la Saggezza dei Corpi, nella mia personale interpretazione, è proprio quella possibilità che noi, attraverso di essi, abbiamo di radicarci nel mondo.

Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti – Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario i Gladiatori della penna. I suoi testi sono stati  presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dalla  Associazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso latrasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie(La Perla , Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La miasfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità , in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore,  Fara Poesia e ora anche L’Arcolaio. Nel 2016 è giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto “Poeti alla finestra” presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com, facebook, twitter

Martina Campi è nata a Verona nel 1978. Vive a Bologna dove ha studiato e si è laureata in Scienze della  Comunicazione. Vincitrice del Premio Renato Giorgi 2012 con Estrazioni del tempo (Edizioni Le Voci della  Luna Poesia, 2012), è tra gli autori finalisti al Premio Lorenzo Montano 2014, con la raccolta inedita Manuale d’estinzione.

Figura tra i segnalati nel 2012 con la raccolta che compone questo libro: La saggezza dei corpi; al medesimo premio, e risulta menzione d’onore, l’anno successivo, con la raccolta Le metamorfosi della gioia, ora divenuta Cotone (Buonesiepi Libri 2014). Nel 2015 consegue il medesimo risultato con la silloge inedita Quasi radiante.
Autrice e performer, fondatrice insieme al compositore e musicista Mario Sboarina, del progetto di musica e poesia Memorie dal SottoSuono, nel quale si fondono reading poetico, elettronica, jazz/ ambient, contaminazioni afro e accenni di musica popolare; del 2010 è l’uscita del cd Mani e qualcos’altro. Il progetto Memorie dal SottoSuono è oggi un vero e proprio collettivo di artisti di diversa formazione.Per dicembre 2015 è prevista l’uscita dell’omonimo album.Fa parte da tre anni del Comitato Bologna in Lettere (B.I.L.) E’ giurata per la sezione B del premio Giorgi 2015 e della sezione giovani 2013..Collabora con diverse realtà poetiche, tra cui Letteratura Necessaria e il festival multimediale di Letteratura Bologna in Lettere 2013,14,15. Nel 2014 entra a far parte della redazione della rivista Le Voci della Luna e collabora con la rivista online L’Antenna. Con il poeta Giampaolo De Pietro si occupa del progetto Il foglio d’aria. Fa parte del Censimento di Poeti di Pordenonlegge, oltre che del futuro Atlante dei poeti italiani contemporanei a cura dell’Università di Bologna (ancora work in progress). Partecipa a diversi festival e recital di poesia e/o musica in vaie parti d’Italia.

LUCA CENACCHI

evento del 07 giugno, martedì: alla Biblioteca comunale di Forlimpopoli con Cino Pedrelli. Non mancate!

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