

Premessa
Con questa raccolta Nevio Spadoni si inscrive in una tradizione lunga e illustre, formata da un fascio di fili preziosi tra i quali riconosciamo quello dei padri del nostro dialetto e quello più antico degli scrittori di ekphraseis, le vivide descrizioni che dall’età classica al millennio bizantino hanno cercato, come ha fatto Nevio, di descrivere luoghi e opere d’arte trasformando il lettore in spettatore. Ci pare infatti di essere con il poeta, di vederlo ed ascoltarlo mentre ci mostra la sua Darsena, gli ori di Sant’Apollinare e i Mulnér col «garöfan ros int e’ su côr». Seguiamo l’itinerario urbano e suburbano che ha tracciato e siamo presi per mano dal suo dialetto, lingua materna che mentre ci immerge in un’identità profondamente locale, e dunque particolare, ci proietta verso qualcosa di universale: «Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio», ha scritto Tolstoj. E il paradosso è forse solo apparente: ci si inabissa nella complessità di uno specifico dialetto ma il linguaggio è sempre uno, ed è quello poetico.
La delicatezza con la quale Nevio narra la sua Ravenna è tale perché la lingua usata è quella parlata dai suoi concittadini, ed è bello immaginare il dialetto come una sorta di lingua “eterna”, legata al luogo in cui fiorisce e destinata ad evolversi insieme alla comunità di persone e alla civiltà di cui è espressione vivace.
Oggi Nevio Spadoni canta la sua, la nostra Ravenna che «Sot’a un mantël ṣmalvì / d’sól trapesa la nebia», torna ad essere ancora una capitale: della poesia, questa volta.
Massimo Cameliani
Assessore del Comune di Ravenna
Alcune poesie:
San Vitale, il sacrificio di Isacco
Te, fiôl d’un sacrifizi
d’amór e d’ingôs,
in Sa’ Vidêl
manê tot d’ôr,
t’culur ad nôt un zil
ch’e’ fóra e’ temp.
Tu, figlio di un sacrificio / d’amore e d’angoscia, / in San Vitale /ornato tutto d’ oro, / colori di note un cielo / che oltrepassa il tempo.
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La pineta di Dante e di Byron
Tra i pen ch’i creca
una staṣon ch’la suda,
se pröpi te t’bot l’öc
t’avdré ’do ch’j à simnê al parôl sti du,
parchè una pêrta d’paradiṣ l’è a cve.
Tra i pini che scricchiolano / una stagione che suda, / se proprio butti l’occhio / vedrai dove quei due (Dante e Byron) hanno seminato le parole, / perché una parte di paradiso è qui.
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Mausoleo di Galla Placidia
A l’so che a cve te t’an i sì Placidia,
mo me a fagh cont t’i sia,
e ögni tânt dri a e’ plàtan
ch’l’à piò ad duṣènt èn
a ṣgvec tot cvi ch’i t’ven a truvê pr avdé
manê d’ôr un pastór cun al su pìgur
e sa’ Lurenz ch’e’ va a murì bruṣê.
Lo so che qui non ci sei Placidia, / ma faccio conto che Tu ci sia, / e ogni tanto vicino al platano / che ha più di duecento anni / spio tutti quelli che vengono a trovarti per ammirare / un pastore vestito d’oro con le sue pecore / e san Lorenzo che va a morire bruciato.
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Uno scampolo della prefazione di Alberto Giorgio Cassani
Sbottonare Ravenna
in sta zitê che cme ’na margarita
la s’ sëra d’séra dentr un pton tot d’ôr
Un campagnolo a Ravenna
Solo un poeta pronipote di Eschilo poteva ricordarci che Ravenna, come Tebe, ha sette porte …
Ravenna, si sa, benché sia stata l’ultima capitale dell’Impero, è una tranquilla cittadina che piace molto ai turisti di passaggio.
Di passaggio, appunto. Come “ascoltare il cuore” di una città, se ti fermi soltanto qualche fuggevole ora? Non tutti sono come il Signor Dido (alias Alberto Savinio, alias Andrea De Chirico – quante maschere greche lui che greco, di nascita, lo era veramente) che in una mezza giornata, deviando dalla via maestra con la sua «vetturetta», ha colto, d’un fiato, l’anima segreta della nostra città: «Ravèna intunêda / sèna a e’ gargöz / int e’ su ’sti ad pré», come traduce, con maestria, Spadoni. Quel Savinio che, giustamente, in questi rapidi, ma profondi «quadretti», come li ha chiamati l’Autore – di settanta luoghi, più o meno famosi nel mondo, e di diciannove celebri personaggi che sono qui passati (e uno, tra i più grandi, «e’ ba d’tot cvènt nuiétar», ci è morto e vi è sepolto) – ha l’onore di apparire.
Ecco che, allora, le guide sono necessarie. Una volta erano viatici per forestieri da instruire nelle cose notabili di Ravenna, come quella di Francesco Beltrami (1783), o per persone acculturate che volevano sapere la verità storica sui monumenti della città (e non memorabilia frutto di retorica amplificatio), come quella altrettanto nota di Corrado Ricci (1884 e sgg.), altro nume tutelare ravennate presente in questo volumetto, colui «che nench par sta zitê u s’è dê da fê».
Ma nessuno aveva provato a scriverne una nel nobile dialetto ravegnano. O meglio, un illustre predecessore di Spadoni, che anche lui, in quest’aureo libretto, non pote-va mancare di essere ricordato, Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti, – «e’ ba de’ nöst dialet» – ci aveva lasciato un fulminante “saggio”: Il cicerone ravegnano, dove si prendevano in giro, alla sua maniera, varie glorie cittadine: «Ahn! che città monsiù! C’è poca gente / Mo si sta allegri ch’ l’è una cosa in grande. / Dante ch’ l’era un poeta intelligente / Appena capitò da queste bande / Patatrac! si morì d’un accidente».
Ancora con le poesie:
La Darsena
E’ sól l’è ẓa andê ẓo a là int la Dêrsna
in ponta d’pi,
sól un alöch e’ strid sóra a e’ muret;
l’è ’rmast a lè a cuntês agli ùtum nôv,
e a dìs ch’al mugiarà d’arnôv al nêv,
a cvè a Ravèna,
che int e’ su sâñgv la j à la libartè.
Il sole già è sceso là nella Darsena / in punta di piedi, / solo un gabbiano stride sopra il muretto; / è rimasto lì a raccontarci le ultime nuove, / e a dirci che muggiranno ancora le navi, / qui a Ravenna, che nel suo sangue / ha la libertà.
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Sant’Apollinare in Classe
A t’gvêrd cun j oc d’ste temp ch’u n’è piò e’ tu,
o Pulinêra, sânt tra i sent d’Ravèna,
ṣgvêrd ad pastór ch’e’ mâñda a l’érba al pìgur
sota una cróṣ ch’l’è cvela de’ martiri.
Avreb cuntné int ’na ẓemna
un pô dla tu pasion,
’na gozla d’che muṣaich ad paradiṣ.
Ti guardo con gli occhi di questo tempo che non è più tuo, / o Apollinare, santo tra i santi di Ravenna, / sguardo di pastore che conduce al pascolo le pecore / sotto una croce che è quella del martirio. / Vorrei trattenere in una giumella / un po’ della tua passione, / una goccia di quel mosaico di paradiso.
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Basilica di San Giovanni Evangelista
Dri la stazion di tréno
u j è un purtêl sparvérs
dnenz a una ciṣa.
S’e’ un fos stê par cla timpësta in mêr,
la n’i sareb,
mo la Placìdia la la vus, a e’ pat
ch’la s’fos salvêda.
Sa’ Ẓvân Evangelesta l’è e’ su nom.
Te gvêrda al cloñ
e chi salghé d’muṣaich int al murai!
Vicino alla stazione dei treni / c’è un portale maestoso / davanti ad una chiesa. / Se non fosse stato per quella tempesta in mare, / non ci sarebbe, / ma Placidia la volle purché / si fosse salvata. / San Giovanni Evangelista è il suo nome. / Tu guarda le colonne / e i pavimenti in mosaico sulle pareti!
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Sant’Apollinare Nuovo
Sta cisa ch’l’éra sôrta par j arien,
e dedichêda pu a Sa’ Marten
la s’trôva int la vi d’Roma.
E’ begna dìl ch’la j è un giuiël d’muṣaich
cun di culur ch’starloca,
dal prucision ad sent pusé e d’sânti,
cun la curona.
U j è pu un Crest ṣbarbê ch’divid j agnel
da i cavret.
E me a là pr êria a m’so vest tra cvi,
tra i cavret, u s’sa!
Questa chiesa che è sorta per gli ariani, / dedicata poi a San Martino / si trova sulla via di Roma. / E bisogna dirlo, è un gran gioiello di mosaico / con dei colori che scintillano, / e processioni di santi mansueti e di sante / con la corona. / C’è poi un Cristo imberbe che separa gli agnelli dai capri. / Ed io mi sono visto là per aria tra quelli, / tra i capretti, si sa!
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Capanno di Garibaldi
Int la Baiona a là da Pôrt Cursen
u s’è gnascöst cl’ardì ad Garibêld
ch’u l’zarchéva j austrìach
ch’i vléva fêi la pël.
Int e’ trambost d’chi dè
de’ Melötzèntcvarântanôv Anita
la j à srê j oc, cla dòna, a Mandriôl,
e lò a strènẓar la su mân cunfuṣ.
J è pez ad stôria ch’a n’puten ṣminghê,
e che capâñ incóra a lè u s’diṣ
che la guiê dla libartê l’è lònga.
Nella Baiona là a Porto Corsini / si è nascosto quell’ardito di Garibaldi / in fuga per sfuggire agli austriaci / che gli volevano fare la pelle. / Nel trambusto di quei giorni / del Milleotto-centoquarantanove Anita, / quella donna, chiuse gli occhi a Mandriole, / e lui confuso a stringere la sua mano. / Sono pezzi di storia che non possiamo dimenticare, / e quel capan-no è ancora lì a ricordarci / che la gugliata della libertà è lunga.
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Piluccar per postfazione (di Giovanni Gardini)
Nel sogno dell’acqua
Sbaglierebbe il lettore che si accostasse con leggerezza ai quadretti di Nevio Spadoni, ingannato dalla loro forma dialettale. Sbaglierebbero allo stesso modo il ravennate, che presume di conoscere la sua città, e il turista che, attratto dalla brevità dei testi, cercasse sintesi facili o innocue per una visita veloce all’antica città di Ravenna.
Fin dalle prime parole di questa singolare raccolta di scritti, affiora la vertigine: «Te, fiôl d’un sacrifizi d’amór e d’ingôs», (San Vitale, il sacrificio di Isacco) ed il rapido sguardo rivolto al giovane Isacco inginocchiato sull’ara del sacrificio, è già visione del tremendo spettacolo di quel lontano venerdì sul Golgota, dove un altro Figlio salirà, anch’esso innocente, sul patibolo.
Pagina dopo pagina, prendono vita storie remote – quella di Abramo e del figlio, a lungo atteso e invocato, segna appena un inizio – che s’intrecciano con ben altri amori e passioni, «Piò in là u s’è ṣmurtê che fugh che a cve u s’è apiê d’amór rubê», (Casa dei Da Polenta), fino a diventare una consapevole, ma non drammatica, riflessione sulla vita: «e te ravgnân, mo nö t’n’avé par mêl /se a t’arcôrd che un dè /a durmaren un sòn,/ ṣminghé int un ẓarden ad érb ch’al dòndla /giost nenca ló, una staṣon int e’ vent», (Il giardino delle erbe dimenticate), parole dure, eppure vere, eco lontana di quanto disse Qoelet, il sapiente (Eccle 1, 4), o Isaia, il profeta, al popolo ribelle (Is 40,8).
A Ravenna fu dato il privilegio di incrociare grandi destini; i monumenti dagli sfolgoranti mosaici, ricchi di fini marmi lavorati da abili mani, lo testimoniano con forza. Già questo, poteva bastare per saziare la curiosità del colto viaggiatore o per compiacere la vanità del ravennate. Già questo, probabilmente, poteva bastare. Eppure Spadoni va oltre all’austero nozionismo e alla didascalia pedante, per offrire al lettore riflessioni pulsanti di vita che affiorano dai secoli lontani e portano linfa vitale al presente, quale tempo propizio nel quale attingere alle antiche fonti per essere dissetati: «A t’gvêrd cun j oc d’ste temp ch’u n’è piò e’ tu,/ o Pulinêra» (…). Avreb cuntné int ’na ẓemna /un pô dla tu pasion, /’na gozla d’che muṣaich ad paradiṣ», (Sant’Apollinare in Classe). Via Cavour e la chiesa di San Domenico diventano l’occasione per uno sguardo ironico e amaro sulla vanità del cuore umano: «e pu u s’véd la fira d’cvi ch’i créd/ che un ’sti e’ sia gnacvël / par ësar cvicadon». Nei Vangeli dell’infanzia del Cristo, scolpiti nel prezioso avorio della Cattedra di Massimiano, dall’annunciazione all’adorazione dei Magi, è raccontata l’origine del mondo: «J è di cvadret ch’i conta / com ch’l’è dê fura e’ mònd» (La cattedra d’avorio di Massimiano). A Galla Placidia, la grande signora, figlia, moglie e madre d’imperatori, l’autore si rivolge con ironico affetto, come a una di casa, da sempre conosciuta: «A l’so che a cve te t’an i sì Placidia,/ mo me a fagh cont t’i sia», (Mausoleo di Galla Placidia).