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UN NUOVO LIBRO IN USCITA DOMANI; E’ L’ULTIMO PROGETTO DI VITTORIANO MASCIULLO, INTITOLATO “DICEMBRE DALL’ALTO”.

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UN NUOVO AUTORE ENTRA IN ARCOLAIO, E’ IL ROMANO VITTORIANO MASCIULLO, NATURALIZZATO BOLOGNESE, BENE INTRODOTTO NELL’AMBIENTE POETICO DELLA CITTA’ EMILIANA. IL SUO LIBRO S’INTITOLA “DICEMBRE DALL’ALTO“. NE FA UN’ATTENTISSIMA E ANALITICA ANALISI CRITICA CECILIA BELLO MINCIACCHI DELLA QUALE RIPRODUCIAMO QUI SOTTO DUE PICCOLE PORZIONI.

 

 

Se ogni libro è fatto di altri libri, e se – giusto l’assunto sanguinetiano – non possiamo far altro che citare, tanto nella scrittura quanto nella vita, Dicembre dall’alto di Vittoriano Masciullo sembra per eccellenza un testo di testi altrui, un’opera in cui gran parte delle parole che l’autore pronuncia erano d’altri. Erano perché il processo compositivo è, alla sua origine, chimico: l’appropriazione (debita, indebita, comunque non taciuta, confessa) è di fatto assimilazione. Ossia nutrimento intellettuale, emotivo e psichico, energia verbale. A volte è proiezione di figure, presenza ossessiva di cellule ricorrenti. Parlare di citazione, in questo caso, non spiega abbastanza, e non abbastanza spiega il montaggio che pure è efficacissima tecnica non solo delle avanguardie storiche ma di tutte le arti novecentesche (con qualche ottimo esito odierno). A caratterizzare Dicembre dall’alto sono la sua forte tensione costruttiva e l’elaborazione metabolica dei singoli prelievi che hanno valore esemplare e si offrono, in potenza, anche come materiali o dati d’analisi, di selezione e comprensione. Vi si percepiscono coloriture, accenti o sintagmi noti, familiari, ma al tempo stesso se ne avverte la conversione chimica, e la separazione e la dissipazione dei costituenti, l’acquisizione muta, intima, quella che all’esterno non ha più bisogno di risuonare, tanto è stata assorbita, e quella che produce eco continua, di difesa e d’inquietudine. Della parola altrui, nel tessuto nuovo, si avverte l’autonomia manomessa, e l’inclinazione alla fuga, la smussatura, la piega inattesa. Le molte possibili modificazioni dei prelievi che trasformano l’impressione di familiarità in una sfocatura, talvolta in una frustrazione.

(…)

Dicembre dall’alto è una ricognizione di eventi e di letture (che sono, poi, eventi alla stessa stregua, né più né meno, e potentissimi). È un angolo visuale, un modo di guardare lo spazio qui applicato all’ultimo mese dell’anno, quasi fosse un bilancio, e per sineddoche applicato qui al tempo e a ciò che in esso «succede»; è una presa di distanza verticale necessaria al riconoscimento di alcune circostanze rivelatrici, capitali, dolenti, e all’evaporazione di altre. La gerarchia, la struttura stessa di una possibile gerarchia, è però messa in questione, come avviene negli sviluppi del pensiero: ad essere sintomatici sono non solo i fatti che diremmo salienti, i nodi facilmente riconoscibili come tragici, ma sono spesso gli scivolamenti, gli inciampi, le numerose ellissi, qualche intromissione banale o assurda del quotidiano. Il tutto, ed è cifra del libro, in mescolanza, o meglio in amalgama, nella fusione minuta tra flusso di parole (letterarie e non), «parole tradotte da quali altri», e occorrenze del vivere comune. L’occhio e il pensiero si muovono tra i gesti, ma soprattutto tra le parole pensate e pronunciate: i ricorrenti «dice», «risponde», «chiede», gli imperativi «non girarti», «fidati», «chiama», «ridi», gli esortativi «dica», «ringrazi», «si fidi», «stia attento»…

(…)

Se dovessimo anche in ultimo ricorrere alle classiche armi della retorica – via sempre lecita e rivelatrice – arriveremmo a mettere in luce, credo, l’interrogativo (o è affermazione?) più ricorrente in queste poesie, «altrimenti a che serve», il più assillante e più prossimo al pathos, preceduto, come spesso è, da imperativi in geminatio: «salva salva o a che serve», «perdona perdona o a che serve», «proteggi proteggi / o a che serve», «stordisci stordisci / altrimenti a che è servito farsi vetro», «e ridi / ridi altrimenti a che serve / a che è servito venire qui»…

Se c’è la storia – personale e non solo –, se, in Dicembre dall’alto, ci sono assimilatissime voci molto varie e tra loro compenetrate, frante, invischiate e riutilizzate per una nuova costruzione, se c’è l’apertura, la dissipazione ultima nel bianco della pagina, c’è anche, ed è forse la presenza più importante, più ampiamente produttiva di senso e di interrogazione, l’indagine congiunta su esistenza e scrittura, su azione e parola. Su quanto e a che cosa entrambe, esattamente, possano servire. Sul fatto che siano tra loro allacciate, invece, e coincidenti, qui non ci sono dubbi.

 

(continua)

 

++++

 

Alcuni testi:

Succede che spazio si elimini

e sia tanto eppure

succede senza

avvisi alla gioia e

a qualunque cosa sia succede

alla tempesta e al bicchiere d’acqua

negli altri in quello che rimane

se rimane a tratti incerti succede

su pianerottoli anni dopo anni

così tanti anni che sembra

e succede agli sfinimenti

dove nessuno torna succede

al racconto alla ripetizione

del racconto e alla sua ripetizione

al sale rovesciato

succede che è andata e ne

rimane un diario di guerra

e a ciò che è dopo

il confine si portano fiori

se vuoi succede

se non vuoi succede pure

la parola non succede al pensiero

e al pensiero non succede

il pensiero suo e viceversa

e comunque

succede

***

tutte le mosche lasciarono

il tavolo all’improvviso

minuscoli uccelli neri volarono

colti dal pericolo e medea

disse aspetta di essere vecchio

prima di piangere davvero

aspetta che a forza di metterti davanti

a quella luce poca

e l’ordine del mondo ti convertirai

non hai mai amato

nessuno se non è l’an è il

quantum oppure il quomodo

o come si arriva a confessarlo

rincasando senza la figlia la madre

la sposa il più bello disponibile

dietro il vetro della porta sul glicine

padre che guarda verso

curvo senza divisa

io curvo senza

e la serie ospedaliera in mano

però almeno stordisci stordisci

altrimenti a che è servito farsi vetro

minacciare la gente di tunisi

vincere la guerra perdere

la ritirata

***

il sole è

vulnerabile intossica

inseguimenti lingue morte

ci sono che non credono

al dissolversi che il tempo

sia un finito incendiano

assenze con ritorni minacciati

è sempre

tempo per e invece

che la cura sia la cura degli altri

non cadere da caduti

sparire al bello sul confine

sulla polvere sull’abbraccio

agli adulti non al brutto

solo indecenze che la cura

sia la cura di chi merita il vuoto

che da sempre sta nel

il sole è vulnerabile piace a tanti ma pensa

muore ogni giorno e tu invece salva salva

credi al dissolversi

 

 

L’USCITA DI UN NUOVO LIBRO: E’ LA VOLTA DI “FAVOLE PER UN MONDO POSSIBILE” DI MICHELE ZIZZARI

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Esce oggi un nuovo progetto narrativo. Si tratta dell’ultima fatica della scrittore Michele Zizzari, napoletano stabilitosi a Cervia da ormai molti anni. Il titolo di questo libro è quanto mai suggestivo: “Favole per un mondo possibile“. Leggiamo la nota editoriale che Enza Valpiani ha scritto per la quarta di copertina di questa opera di racconti fantastici e visionari.

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Moderno cantastorie, Zizzari riveste la “favola” tradizionale di nuovi scenari e di inconsuete tipologie di personaggi. Capovolge la logica della reificazione, dominante nel mondo moderno, e dà anima e voce a protagonisti inanimati, come mezzi di locomozione (imbarcazioni, treni) e persino all’abitante di una capsula spaziale.

Seguendo la massima dell’ “ammaestrare dilettando”, si avvale  di una surreale ironia per stigmatizzare la società d’oggi, disu-manizzata ed insensibile ai valori di solidarietà ed accoglienza del “diverso”.

Il messaggio è rivolto ai giovani, ma non solo, se è vero che ha ispirato ad Anna Maria Garavini illustrazioni originali ed immaginifiche, intessute di significati simbolici tutti da scoprire.

 

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FLAVIO ERMINI RIFLETTE SU “CHIARO DI TERRA” DI ANTONIO PIBIRI

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NOTA A CHIARO DI TERRA DI ANTONIO PIBIRI

 

Con Chiaro di terra Pibiri vuole rompere i diaframmi dell’oscurità. Ma non per tornare a un improbabile “chiaro di luna” e lì affidarsi a ormai apatiche certezze veritative. No. Pibiri ci sta comunicando che siamo davanti a qualcosa come un gioco d’ombre, in cui proprio attraverso il messo-in-ombra, appena illuminato dalla terra, rende accessibile il senso della vita. È il passo nella penombra della verità, nel cammino della sapienza, nel gesto dell’amore, ma – ancor prima – nell’abbacinamento dell’ombra. Perché è qui che Pibiri ci vuole portare: all’illuminazione che viene dall’ombra. La poesia è mossa da un’originaria meraviglia e da sempre la sua domanda è in cosa consista un’ombra. Ebbene, questo libro mostra come il pensiero-che-interroga metta in discussione innanzitutto se stesso. Incessantemente Chiaro di terra si fa paladino della compresenza essenziale di luce e oscurità, compresenza che si costituisce come principio germinativo della parola poetica, tanto da giungere a sovvertire la lingua che essa stessa parla. Ciò accade in modo particolare nella sezione “Visioni dell’ultimo”, dove il poeta ipotizza che la luce sia in fondo quella cosa che nasce dall’ascolto di una voce. Ecco cosa ci rivela Pibiri. Ci indica che se la poesia poco sa della luce è perché pur

avendola sempre pensata non l’ha mai pensata a partire dalla terra, dall’evento della terra, dal suo chiarore.

 

Flavio Ermini

 

GIAN RUGGERO MANZONI RIFLETTE SULL’ULTIMO LIBRO DI MAURIZIO BACCHILEGA, “TORNARE A PENSARE”

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GIAN RUGGERO MANZONI RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI

MAURIZIO BACCHILEGA, “TORNARE A PENSARE”

 

 

TORNARE A PENSARE di Maurizio Bacchilega, Edizioni L’arcolaio. Innegabilmente il tasso di distrazione dell’individuo ha raggiunto soglie davvero preoccupanti. L’alienazione della società, a mezzo comunicazione martellante, aumenta imperterrita, mentre la gente sembra non accorgersene. Poiché le informazioni viaggiano velocemente, tutta la nostra vita deve accelerare ed ecco dunque i giornali con articoli semplici e brevi, gli annunci pubblicitari imperanti, il crollo delle vendite dei libri e la concentrazione di mille funzionalità all’interno di uno smartphone. La poesia, assieme alla musica, è la forma d’arte probabilmente più elevata che l’uomo abbia mai creato. È quell’espressione artistica per cui forma e contenuto viaggiano all’unisono, dando vita a una sinfonia esaltante tra il mezzo – le parole e i versi – e il messaggio. Ma la poesia richiede tempo, lavoro, riflessione, meditazione, disposizione nei confronti anche di un trascendente, mentre la comunicazione di massa, ovvero la rivoluzione tecnologica in atto, velocizza oltre che le relazioni anche il modo di affrontare la pagina, surclassando la scrittura e la lettura, che, a suo tempo, segnarono, non poco, il nostro essere uomini. Se con la parola scritta si è passati da un obbligo di relazione orale ristretta nel tempo a una comunicazione longeva, e per questo a una dilatazione spazio-temporale, oggi siamo giunti a una contrazione impressionante della dimensione spazio-tempo, per cui non importa dove ci troviamo, ci basta un click per avere le stesse identiche notizie e informazioni qualora fossimo all’estremità opposta del pianeta. Da ciò non deriva, solamente, un desolante imbarbarimento della società, che più non sa cogliere la musicalità e la profondità del suono, quindi della parola, perciò del verso, e, di seguito, della poesia, ma si crea anche un ulteriore blocco emotivo nei pochi lettori rimasti. Ed ecco che la comunicazione di massa globalizzante e globalizzatrice lascia sul campo un altro “avversario” illustre, in una sorta di progetto che mira alla trasfor-mazione totale dell’umanità attraverso l’eliminazione di quei punti cardine che hanno elevato la nostra cultura fino a oggi, e a ciò Bacchilega si ribella, e risponde, ridandoci fiato, ossigeno, occasione, apertura, tramite le sue composizioni editate dall’amico Gianfranco Fabbri.

GIAN RUGGERO MANZONI

NEVIO SPADONI RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI MAURIZIO BACCHILEGA, “TORNARE A PENSARE”.

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Riflessioni su Tornare a pensare di Maurizio Bacchilega

Recensione di Nevio Spadoni

Pubblicata oggi sulla Costruzione del verso

Già il titolo Tornare a pensare, del libretto dell’imolese Maurizio Bacchilega, edito nella bella veste grafica de L’arcolaio, con prefazione di Sofia Nannini, è fortemente indicativo e foriero di una poetica dell’impegno. Contiene infatti una dichiarazione esplicita: la vita è un cammino serio e non va sprecata. L’idea dell’”Homo viator” è attestata anche dall’immagine di copertina nella indicazione Linea tesa all’orizzonte dell’artista Tonino Gottarelli, anche se nell’immagine non vi è traccia umana. Ma dov’è l’uomo, pare chiedersi il poeta, e soprattutto, dov’è la comunicazione autentica in questa società liquida, omologata e multimediale? La poesia di Bacchilega si apre e procede, sciolta da vincoli rigorosi di metrica, con un passo lirico- narrativo all’insegna della denuncia dell’incomunicabilità, in una società disumanizzata e disumanizzante, dove fra violenza e sfruttamento “ moriremo di profitto”. Società con “ l’uomo a una dimensione”  direbbe Herbert Marcuse, per cui davvero la ragione dovrebbe imporsi quale strumento critico della società.  Intanto, nel marasma odierno si cerca di riempire il vuoto esistenziale, vuoto di senso, con mille surrogati, vuoto generatore di nevrosi, come ebbe a dire Wiktor Frankl padre della logoterapia. In questa perdita di identità, anche il linguaggio si è impoverito: “Chissà chi eri / in quante birre hai affondato / la tua vita / a quali vestiti, a quante moto / senza saperlo hai affidato quel tentativo / così uguale a molti altri /di colmare almeno un po’ / nell’incoscienza / il grande vuoto./ E anche i grattacieli “ … creatura dell’uomo a devastare l’uomo / non si avvicinano al cielo”. Questo bisogno di vita autentica (Heidegger), porta con sé la necessità di scalzare tutte le ipocrisie, i raggiri dei disonesti, e di evitare la chiacchera di un “esserci” immerso nella banalità dei giorni, e  di vivere rapporti veri, non alienanti. “… Perché tante volte  / non ci siamo visti / pur essendoci accanto”. Ma per vedersi, o meglio, per  capirsi, è necessario prima uno scavo interiore che porti, come sostenevano gli antichi greci, a conoscere se stessi, ed accettarsi, per poi accettare gli altri. La poesia di Bacchilega è uno spaccato netto sulla società odierna, dove potere e pretesa di controllo sono all’ordine del giorno, e dove la logica perversa del consumismo “rovina delle rovine” (P. Paolo Pasolini), porta addirittura a ignorare una giornata come il 25 aprile, e quindi a cancellare o comunque ignorare una realtà che ben dovrebbe essere scolpita in ogni mente. Vero è che l’uomo non sa più chi è, e quindi viene spontaneo ricordare quanto ha scritto Sören Kierkegaard : “State attenti: la nave è ormai in mano al cuoco di bordo. E ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani.” Occorre, ci dice in più versi il poeta, rientrare in sé . E mi sovviene Agostino d’Ippona “ Noli foras ire, in te redi…”, e se per  Agostino la verità che l’uomo dovrebbe scoprire dentro di sé coincide con Dio, non si può parlare di Dio ignorando l’uomo. Per Bacchilega, “ Questo nulla le nostre giornate / costituisce ed insieme devasta.// Impossibile la fuga./ / Produrrai i tuoi fogli di lavoro: /”no,”, cos’hai capito, “ non questi”.// “ Questi sono le lacrime / sangue caldo, la mia verità “//Produrrai i tuoi fogli di lavoro, domattina. / Dovrai continuare. / O forse, in fondo, vorrai continuare. // Ma adesso, per fortuna, è ancora notte./ Altri sono i fogli, belle le lacrime / che espandono gioia.” Ancora una volta la poesia pare avere una funzione consolatoria, quel “lusso di scrivere la notte, / e leggere anche, / perché nulla del giorno / questo brivido vale”. E il nostro, pare aver compreso e interiorizzato quanto ha scritto Olivier Clément : “la poesia, più in generale l’arte ci risveglia. Essa ci cala più in profondità nell’esistenza. Fa di noi degli uomini e non delle macchine. Rende solari le nostre gioie e laceranti le nostre ferite. Ci apre all’angoscia e alla meraviglia.”

                                                                                                                                               Nevio Spadoni

 

GABRIELE ZANI RECENSISCE IL LIBRO DI STEFANO ZANOLI, “UNA STAGIONE IN NIGERIA”.

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LA RECENSIONE DI GABRIELE ZANI A “UNA STAGIONE IN NIGERIA

DI STEFANO ZANOLI

SUL BLOG FILOBUS 66

 

 

Stefano Zanoli, di Cesena, a Cesena insegna Matematica e Scienze in una Scuola Media e, sempre per l’ambito scolastico, ha redatto libri di scienze pubblicati da Le Monnier e A. Mondadori: tutto ciò in ragione degli studi compiuti presso l’Università di Bologna, che gli valsero, nel 1990, una laurea in Geologia.

D’altra natura, non precisamente “per le scuole”, anche se a mio avviso parimenti “utile” e “formativo”, è appena uscito Una stagione in Nigeria, per conto della benemerita casa editrice forlivese L’arcolaio di Gian Franco Fabbri, senza comunque dimenticare che il libro fu prima stampato da una tipografia cesenate nel 2012, dunque in poche copie fuori commercio, evidentemente destinato in primo luogo agli amici. Ed è stata senza dubbio l’insistenza degli amici che ha convinto Stefano a uscire finalmente allo scoperto, ossia con un editore vero, vincendo le ritrosie e il connaturato riserbo che lo contraddistinguono. Ne è del resto una prova tangibile la lettera-prefazione dell’amico scrittore Luigi Riceputi, che compare in entrambe le edizioni, estratta dallo scambio epistolare che a suo tempo accompagnò la stesura dell’opera di Zanoli.

L’edizione “clandestina”, va detto, recava in ultima pagina la dicitura “Cesena, 2000-2005”, appunto il luogo e gli anni della stesura, che però ora nell’edizione “ufficiale” l’autore non ripropone, forse per uno scrupolo che a mio parere risulterebbe ingiustificato, dal momento che tra l’una e l’altra edizione non si scorgono che minimi e minimali ritocchi. Dico ingiustificato perché in questo libro le date hanno indubbiamente un loro peso, trattandosi della testimonianza di un’esperienza (lavorativa, come geologo, ma soprattutto extra lavorativa) realmente vissuta, in Nigeria, a Lagos, in un preciso arco di tempo, quattro mesi del 1996, tra aprile e luglio, quindi vent’anni fa, quando l’autore aveva giusto trent’anni. Inoltre, dalle suddette datazioni, veniamo a sapere che il libro non è stato scritto “in diretta”, bensì a una decina di anni di distanza dagli episodi narrati. E infatti chi avrà il piacere di leggerlo si accorgerà ben presto che non si tratta del tipico libro-sfogo di un esordiente, ma il libro di uno scrittore avvertito e dai molteplici registri espressivi, nonché di un fine lettore, come viene fuori dalle tante citazioni che vi circolano, più o meno esplicite, dagli amatissimi Melville e Conrad, Celine e Sereni. Per non parlare del titolo stesso, che non a caso rimanda all’Inferno del giovane Rimbaud, perché anche la Nigeria, per come la visse il ragazzo Zanoli fu davvero, in ogni senso, un inferno.

Qualche anno fa, allo scoccare della mia terza decade, ebbi l’occasione di dare una svolta importante alla mia vita; lasciare tutto per trasferirmi là dove, seppur vagamente, pensavo di poter trovare tutto e, forse, diventare un uomo adulto a pieno titolo; lasciare l’Europa, mondo immutabile e sicuro, per andare in Africa. Fu così che me ne andai a sbattere il muso in un risvolto ancor più doloroso del normale principio di realtà. Una sberla da rimanerne intontito, paralizzato nell’afasia d’un groviglio informe di parole, dentro una tempesta d’emozioni, impietrito e agitato allo stesso tempo; uno di quei momenti in cui la vita pare abbia preso una piega drammatica “irreversibile”, si sia come cristallizzata in una vibrazione monocorde, nella frequenza di un eterno presente, privo di futuro e orfano di un passato lontano.

[…]

A Lagos, ex-capitale amministrativa della Repubblica federale di Nigeria, la più grande città dell’Africa occidentale, megalopoli-formicaio del nuovo millennio, ci andavo per lavoro, convinto che, del resto, “lavorare” fosse il modo migliore per viaggiare. Viaggiare; e non “visitare”. Sì perché nella mia testa ronzante di quei giorni c’erano soprattutto motivi romantici, non tanto impellenti prosaici bisogni. Ragioni oscure non razionalizzate. Una irrequietezza radicata in anni felici in via di sbiadimento per caso andata a incontrarsi, nella matassa delle cause-effetto della vita, col filo contorto d’una “occasione di lavoro”.

GABRIELE ZANI

 

 

Stefano Zanoli, Una stagione in Nigeria, L’arcolaio, Forlì 2018, Euro 12.

 

SIAMO ORGOGLIOSI DI PRESENTARE L’ULTIMO LIBRO DI ALESSANDRO FO, “ESSERI UMANI”. L’OPERA ESCE NELLA COLLANA PHI DIRETTA DA GIANLUCA D’ANDREA E DIEGO CONTICELLO.

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Esce per i tipi della nostra casa editrice l’ultimo libro di Alessandro Fo, “Esseri umani“. E’ il secondo numero della preziosa collana phi, diretta da Gianluca D’Andrea e Diego Conticello. Scrivono su questa eccellente opera lo stesso D’Andrea e Dario Ceccherini che ha curato l’introduzione.

Vi auguriamo una buona lettura.

La redazione.

 

La nota editoriale:

Dopo Mancanze (2014), la poesia di Alessandro Fo si propone, nella consueta raffinatezza di stile, un ulteriore scandaglio dell’animo umano. La storia minima dell’individuo che, con tutte le sue fragilità, permette di costruire una nuova trama fatta di incroci e inserzioni dialoganti. Come avviene, per esempio, nel trittico per Edda Laghi Corrieri, che trasmette in “presa diretta” le potenzialità relazionali della parola in un coinvolgimento sempre assediato dalla solitudine: «Sto di guardia quasi tutto il giorno. / Ora, da quando ci sono qui io / non è successo più. // Non restano che minime mansioni». Ed è questa dimensione “minima” a illuminare le vicende degli “esseri umani”, la loro capacità di sorprendersi, nonostante il male, nello splendore.

 

Gianluca D’Andrea

 

I testi:

Tre poesie per Edda Laghi Corrieri

 

  1. Casa di riposo «Il Balcone»

 

«È questa solitudine» (piangendo)

«… Non la si vince, professore… Non…

Non la si vince…»

 

(Più tardi invece) «E questa solitudine

si vince anche… Che vuole, si prende

quello che viene…

E anche la si vince…

Ma è

(piangendo)

che non ho notizie…

ormai non so più niente di nessuno…

Cosa sarà di loro?

Ormai i miei genitori sono anziani…

Io ho già compiuto e passato i novanta»…

 

Un’altra novantenne in corridoio

si culla stretto al petto

il bambolotto in cui vede un neonato.

 

 

  1. Nuovamente al «Balcone» (di vedetta)

 

«… Sì, è un po’ noioso… Ma lei qui ha il suo angolo,

questa bella finestra, col giardino»…

«… Che vuole… Osservo

quel che fanno gli uccelli,

dal primo filo con cui formano il nido…

 

Lo scorso anno un giorno dei ragazzi

che si arrampicavano sugli alberi,

hanno finito per romperne i rami…

 

Sto di guardia quasi tutto il giorno.

Ora, da quando ci sono qui io

non è successo più.

 

Non restano che minime mansioni»…

 

 

  1. Di ritorno al «Balcone»

 

«Come, non è domenica?

E che mese sarà?…

Forse qualcosa…

come dicembre?…»

 

(ma oggi è martedì 21 aprile).

 

«Faccia la brava, allora, e non si scordi

di me»… «Ma noo, che cosa va a pensare?

Lei è troppo lungo per dimenticarla».

**

L’introduzione di Dario Ceccherini

 

Viene dall’ultima delle liriche il titolo di questa breve silloge – e orienta il lettore a pensare di trovare in quella le ragioni generative e le tonalità di tutte le nove articolazioni; a imma-ginare che essa ne sia suggello formale e conferma. E tutta-via Esseri umani è poesia altra. Altra nel suo registro antico di sermone civile, altra perché governata da una sintassi vibrata da giusta ira nel dire il male che esseri umani fanno ad esseri umani, altra nei rimbalzi anaforici, perentori e severi del «voi», che richiamano la voce salvata e sommersa di Primo Levi; altra perché nel suo essere un «27 gennaio» e ogni «27 gennaio» non chiude, ma quasi disordina e riapre con l’im-placabilità di un indice che chiama e mostra la plurale trage-dia di ogni nostro giorno; altra infine perché costringe a uno sguardo secondo, a una retrospezione delle cose lette e a un loro ripensamento. Gli estremi di questa rapida silloge in fondo si toccano, se l’apertura, Fuori Monaco, si aggira per la Dachau della crudeltà più grande. Una Dachau di silenzi, tra gli ordinati reperti di un male museificato e forse «sloggiato», a pena avvertito nel «ricordo annacquato/ disciplinato, sot-tomodulato», presto rimosso dalla confortante ansia di non riuscire a salire sul bus, dalla minuta ferocia delle logiche ordinarie di vita. Poi incontriamo vite sparenti, un’ispezione dell’essere umano, nelle sue prove minime e in quelle altis-sime. Ha questo la poesia di Alessandro Fo, entra nel mondo, anche nelle gallerie dell’anima, con gesto penetrante e garbato, discreto nel dire quello che i sensi, alle volte per intenzione altre volte indiscreti senza colpa, sentono e fanno discernere. Di qui le sospensioni, mimetiche talora delle esitazioni, dei rispettosi pudori e degli incespicamenti delle parole, le riprese e le iterazioni che segnano i versi, anche nelle loro metriche puntuali, con la sbilenca grammatica delle nostre relazioni con gli altri; ancora le parentesi, a ospitare drammaturgiche didascalie o commenti, che invitano a meglio vedere e sentire la situazione e il soggetto e l’oggetto che la compongono. Sull’assito di questo palcoscenico metrico le vite, visitate, incontrate per caso, ritrovate e di nuovo perdute, immaginate per induzione altrui. Così nei tre movimenti «per Edda Laghi Corrieri», colta nel declinare ultimo dell’esi-stenza, intesa a mantenere a sé qualche vantaggioso officio di controllo a protezione di alberi straziati da ragazzi («“Non restano che minime mansioni”»), capace, pur nello sbiadire della memoria e di tutto, di motti irresistibili; di motti irresistibili; così scrivendo all’istruttiva Sara, che suggerisce nuovi e agili passi di vita tra i libri ospitali della Shakespeare & Company di Parigi; così nei Minimi incontri, sotto l’emblema della Silvia leopardiana, quelli di «infinite persone / che un caso ha posto di fronte allo splendore, / ferendole per sempre», di fronte a una bellezza sofferente e rifiorita e infine smarrita nella chemio e nella morte – e il bisogno che ne nasce che di quel transito troppo rapido un segno resti. Come ne resti della vecchina, della lieve Felicina, già ombra a sé stessa nella sua vita devota, che neppure il prete memora: «(non ne ha parlato il parroco alla Messa, / come se niente…)». Come di Kay Kent, non «sosia» ma deliberatamente «gemella» di Marilyn Monroe, così si dice, «replicante» nel- l’aspetto, «replicante» nel congedo dalla vita. Come del dono di un organo da trapiantare portato dal Pègaso per disposizione testamentaria: «e anche se tacevi/ sapevo che avvenire avevi in mente, / disposto a testamento». Quale dunque l’ur- genza che avvertiamo in queste poesie? Senz’altro quella di fermare con le unghie gentili dei versi questa sottrazione continua e dolente che è la vita, trattenere di qua dall’ordina- ria dimenticanza anche le più evanescenti e dimesse presenze nella nostra vita. Piegarsi, fin che sono, su di loro, averne cura; poi fare della poesia il Pègaso che le trapianta e le fa vivere ancora. Questo essere ostinatamente accanto (tessere osti- natamente canto), con e per gli altri, ci fa davvero essere u- mani. Ma nel congedo, come la manzoniana Storia della colonna infame, Alessandro Fo ci riporta nella più violenta e feroce disarmonia. Gli esseri umani sono anche – soprattutto? – quelli che ci balzano addosso ora. Rassegnarsi, dunque? Tutt’altro. Piuttosto ripetere sempre, sempre, di quest’ultima poesia i versi ultimi, quelli che, con la voce di Dante e Primo Levi, intrecciano in un unico, necessario movimento intelligenza e sentimento morale: «considerate la vostra semenza, / considerate se questo è un uomo».

 

Dario Ceccherini

 

E’ USCITO IL LIBRO DI NOURI AL JARRAH, “UNA BARCA PER LESBO”, CON LA TRADUZIONE DI GASSID MOHAMMED.

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NOURI AL JARRAH

UNA BARCA PER LESBO

Un altro autore in lingua araba. E’ il siriano Nouri Al Jarrah, tradotto dal nostro Gassid Mohammed. “Una barca per Lesbo” è una raccolta dal tono solenne, con grande forza evocativa, che ci pone davanti la sciagura della povera terra di Damasco, oggi così martoriata, sia nelle cose che nel nobile suo popolo. Questo massacro di povera gente incolpevole è esemplarmente descritta dal poeta e molto bene spiegata, nella suo intervento, da Mohammed.

Riportiamo in calce alcuni passi di Gassid, farciti dalle poesie mirabili di Nouri Al Jarrah.

Buona lettura!

L’inizio dell’introduzione.

“La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere” dice Italo Calvino. Ed è forse quello che ha fatto Nouri Al Jarrah. Egli ha riassunto, sulla carta, quella che è la condizione della sua patria, la Siria; guerre, morti, migrazioni, annegamenti, e la distruzione di un intero paese. Ciononostante, il poeta non ricorre a parole forti e taglienti, parole che possono ferire la sensibilità e affondare come lama nella carne. Al contrario, vi è un lessico ben selezionato, sottile e leggero, capace di rivelare, davanti all’immagine del lettore, le scene più “orrende”, senza dover ricorrere a parole “orrende”. Questa è una delle caratteristiche principali di questo libro.

 

Le poesie.

Ho visto un lampo a est

l’ho scorso con la coda dell’occhio

era a ovest

ho visto il sole nel suo sangue

bagnato

il mare agitarsi

e il passo dai libri rubato.

 

**

TAVOLA GRECA (Il richiamo di Saffo)

Come sei arrivato al mio grembo, figlio mio, come ha

fatto l’onda a respingerti lontano da me, lasciandoti là, sulle

spiagge di Smirne, angelo senza ali.

**

Dalla Laodicea abbiamo portato il miglior vino in borracce di

pelle, il miglior vino, uva nelle barche dei ciprioti, portato sulle

spalle dei marinai di Creta. L’uva della Sham, portato da Darayya, Duma e

dalla valle delle siriane con le mani unte di profumo.

**

Voce

Mi vuoi nelle vesti del martire

nell’acqua del tuo silenzio

sdraiato;

la tua volontà

che io sia

un fiore

nell’occhiello della camicia.

***

Dalla sezione TAVOLA (III)

Il mio sangue non mi vuole vivo,

il mio sangue mi sfugge,

defluisce dalle vene

mi fa vedere i miei tremiti.

 

Dalla mano trabocca il mio sangue,

macchio pietre, finestre e alberi.

 

ADAM VACCARO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI DOMENICO CIPRIANO, “L’ORIGINE”.

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L’origine e l’Appartenenza
In
L’origine di Domenico Cipriano

Adam Vaccaro, dal blog MILANO COSA

Domenico Cipriano, L’origine, l’arcolaio, Forlimpopoli, pp.60, 7€

 

Ci sono poesie che leggiamo con una operazione mentale di sguardo dall’esterno del suo altro o estraneo, che il piacere del testo tras-forma in alimento di crescita della nostra identità, nel suo moto vitale, autopoietico e proteiforme. Ci sono poi testi (e intendo con ciò anche immagini, suoni, emozioni ed esperienze di qualsivoglia condivisione intensa), come L’origine di Domenico Cipriano, che sono materia e specchi subito riconosciuti parte di noi. È un tipo di condivisione che dona senso di appartenenza in quel tutto che possiamo prendere sempre e solo in parte, magari per “la grazia di frammenti/ provenienti da lontano”, o per qualche “dettaglio marginale – sepolto e inaccessibile –/ che compensa l’angoscia/ la distanza sconfinata dalle stelle” (p.23).
Già con questi versi viene divaricata la complessità non riducibile delle nostre esperienze. Di quel Tutto, che pure è utero che fa di noi ciò che siamo, non riusciamo peraltro a vincerne il senso di distanza insopportabile. A cominciare da quello che Claudio Magris chiama primogiardino, luogo della nostra prima visione e (ri)creazione mentale del mondo. In tutti i casi la poesia ci affascina se sa dirci che “la memoria è un cuscino ardente”(p.35), voce dell’anima comune nel mare di ricchezza e molteplicità di una umanità, che chiede virtude e conoscenza.
Una complessità che comincia nell’incrocio strabico che fa vedere anche noi stessi come “dal di fuori”. Ma il “chiarore della mente/ che non lascia arrendere la conoscenza”, può farsi epifania di una sollecitazione etica: “salviamo la distanza” (p.22). Che qui vuol rovesciamento di clessidra, operazione mentale e vitale per la quale ciò che ci appare esterno diventa nostro, il nonluogo diventa luogo, e l’estraneo diventa fratello. Il che vale anche per la nostra immagine riflessa in uno specchio all’inizio del nostro percorso di formazione. O parimenti per lo specchio-scrittura, rispetto al quale c’è l’atteggiamento di chi si compiace del suo tasso di falsificazione o ri-velazione; e chi, invece, come Cipriano, dice “Soffro la distanza della scrittura”(p.33), per cui tutta la sua azione poetica diventa (f)attore prezioso di una tensione tesa alla riduzione di tale distanza.

Le due tipologie di esperienze di piacere del testo, inizialmente qui richiamate, sono dunque solo in parte diverse, perché si collocano entrambe nel processo di costruzione incessante del prisma interminabile della nostra identità, oscillante tra due bisogni inseparabili: la conoscenza dell’Altro (anche in noi) e il bisogno di essere riconosciuti. Un moto con cui andiamo un po’ mendichi cogliendo quegli attimi d’infinito, grazie ai quali riduciamo l’alienazione di atomi perduti nello spazio, e riusciamo a sentirci adiacenti costruttori di senso. E di tale costruzione sono collanti indispensabili i momenti di gioia di conoscere e sentir riconoscere la nostra identità. Questo libro di Domenico Cipriano tocca e dice questo nucleo di senso: “Io sono/ tutte le terre che ho visitato/ anche se da una sola/ ho preso vita./ Lì / è rimasta ferma una ferita/ per ogni passo/ trascinato stanco/ per ogni sguardo/ che non mi riconosce”.(p.15)

È il centro e l’intreccio fabuloso di questo piccolo-grande libro. È la rincorsa del punto di partenza fatto di mille punti di partenza, in un intrico fenomenologico complesso che non può disegnare il bordo di un universo ontologico concluso, semplicemente perché tale bordo non esiste. Ma esiste, conscio, semiconscio, inconscio quel “guizzo della mente”(p.21), “L’istante/ dove spunta l’inizio dei pensieri/ la nascita”(p. 23). Saper vivere e farlo rivivere in noi “mentre tutto si trasforma/ incessantemente”(p.22), è il primo segreto della (nostra) vita. La quale ci chiede di fare di quell’inizio, paradigma e replica di ogni altro “nuovo inizio”(p.21), “oltre la memoria conosciuta/ dove un’origine smarrita ci appartiene,/ tra steppe e ghiacci siderali, gusci di conchiglie consumate” – da cui possiamo-dobbiamo ripartire, solo se non “assumiamo il profilo della terra incolta”, se non ci arrendiamo e “ricominciamo”(ibidem). Superfluo persino sottolineare come il soggetto, da singolo si fa collettivo, superando con ciò implicitamente anche tanti noiosi dibattiti sulla riduzione dell’Io.
Sin dai primi testi, possiamo cogliere già tutto il senso di questo intenso libro, teso a concentrare (al contrario di tanti libri di poesia che moltiplicano pagine e parole senza soddisfare ciò di cui abbiamo disperato bisogno): un senso altro rispetto alle parole-merci e alla mercificazione di ogni cosa, declinata dal pensiero dominante e dal suo sogno di essere ormai pervenuti a un eterno e immutabile presente.
Bisogno, fame e sete di un pensiero che apra visioni altre, rispetto alle chiusure e alla catastrofe antropologica in atto. Questo libro vi (cor)risponde con un intreccio di festa vitale, matericità biologica – “Siamo acqua e neve cupa”(p.36) –, pensiero critico e disegno di speranza, in una complessità fondata non su spiritualismi ideologici o millenarismi salvifici, quanto su una ciclicità che è sì nella cultura contadina, ma priva di nostalgie a testa indietro, perché riconnessa a metodologie moderne, dalla biologia alle nuove scienze, alla fenomenologia – dai primi bagliori nel penta rei eracliteo e in Epicuro, agli squarci grandiosi della fisica quantistica, che irridono ogni resa alla terra incolta, abbandonata ai deliri di onnipotenza di chi domina il presente.

Questo libro di Domenico Cipriano sa dare forma a un moto dinamico che implica la rottura culturale di tale guscio. Ma occorre sottolineare che il pensiero che traspare dalla tessitura testuale è solo lo scheletro. La poesia che quest’ultimo sorregge è fatta di un ventaglio di ritmi e musica profondamente assorbita, vissuta e tras-fusa nei versi. È la musica che resiste lungo le creste di pensieri e tragedie della storia, e che qui sostanzia una linea espressiva già evidente all’avvio del suo percorso di formazione (vedi “Il Continente perso”, del 2000), di cui pure mi occupai: “Anche la luna rossa è andata via” dalla “faccia sonnabulocarsica dei portoni abbandonati”(p.41)
Entro tale quadro, si ripropone in ben altri termini anche l’annosa questione della poesia lirica. Basta ricordare il Leopardi che parlava di parola materiale e lirica, contro ogni spiritualismo deteriore. Certa Neoavanguardia ha trasformato in fondamentalismo ideologico la battaglia contro il lirismo, dimenticando che il canto della materia è ben altra radice di poesia. È stato un limite, che oggi dovrebbe essere storicizzato e superato. Purtroppo non è, altrimenti sarebbe attualissima la necessità di riaffermare una linea dantesca, rimasta minoritaria rispetto a quella petrarchesca. A suo modo, Cipriano si muove lungo tale ardua linea di ricerca, a caccia di ogni seconda ed ennesima nascita: “Si accetta la vita ricevendo il latte/ e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo” per “la grazia di ricondurci al mondo”(p.43)
L’Autore procede in una sorta di allucinata e visionaria cavalcata attraverso i millenni, dall’australophitectus denominato Lucy a voci-corpi innervati nella storia recente, della poesia (Majakovskij, Pasolini e Borges), della narrativa e del cinema, fino a blog del territorio natio (Irpinia Paranoica). Sin dai versi in esergo, viene aperto il sipario sulla ricchezza concentrata offerta e sull’invito a proseguire nella lettura, che faccio mio con questo scritto, aiutato dalle musiche richiamate col paratesto e intrecciate con i ritmi dei versi.
Tutto è ricondotto in un martellante invito di “Guida all’ascolto”, ribadito in testa alle tre sezioni, richiamanti colonne sonore e albums del norvegese Jan Garbarek, di Mark Orton, a Charlie Haden. Anche qui si riafferma il bisogno del molteplice, attraverso timbri e linguaggi diversi, utili ai vari momenti della propria poesia. Ritmi provenienti dall’America e dall’Europa, in generi che percorrono crinali tra il folk e il jazz, tra musica da camera e il pop più geniale quale quello dei Beatles: per “avvinghiarci alla bellezza…al sentimento di sentirci vivi”(p.44), a partire dal silenzio degli ultimi, “il silenzio…nei volti sinceri/ che non chiedono/ altro in cambio, né dicono, eppure sanno.”(p.51).

3 Aprile 2018

Adam Vaccaro