DI NON SAPERE INFINE A MEMORIA (1978-1980) di Vito M. Bonito, Editrice L’arcolaio.
Recensione di Gian Ruggero Manzoni estratta dal suo account Facebook.
Vito M. Bonito, classe 1963, vive a Bologna. Ha pubblicato, dagli ultimi ai primi, i libri: “papaveri per niente” (Derbauch, 2020); “fabula rasa” (Oèdipus 2018 – finalista al premio Montano e al premio Bologna in Lettere); “la bambina bianca” (Derbauch 2017); “Soffiati via” (Il Ponte del Sale 2015 – premio Nazionale Elio Pagliarani 2015); “Luce eterna” (Galerie Bordas Venezia 2012); “Fioritura del sangue” (Perrone 2010); “Sidereus Nuncius” (Grafiche Fioroni 2009); “La vita inferiore” (Donzelli 2004); “Campo degli orfani” (Book 2000 – finalista al premio Metauro); “A distanza di neve” (Book 1997). È presente in “Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano”, a cura di Franco Buffoni (Crocetti 1996); in “Parola Plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli” (Sossella 2005); in “Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni” (1971-2000), a cura di Alberto Bertoni (Book 2005). Ha scritto saggi sulla letteratura barocca, su Pascoli, sulla poesia contemporanea, su Beckett, Artaud, sulla Societas Raffaello Sanzio, sul cinema di Aristakisjan, Herzog, Korine, Noè. Ma entriamo nel vivo di quest’opera… scrive della stessa Bonito: “16 marzo 1978, a Roma le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro, uccidendo gli uomini della sua scorta; 9 maggio 1978, Moro viene giustiziato dalle Brigate Rosse; avevo 15 anni; 28 maggio 1980, a Milano Walter Tobagi viene ucciso dalla Brigata XXVIII marzo; avevo 17 anni; prima e dopo altri furono assassinati, ma non so dire perché la mia memoria torna di continuo a questi due eventi, come una brace, un filo a piombo sul sangue. I salti di memoria, le fratture temporali, le inesattezze sono volute – questo libro non vuole ricostruire niente – non sa, né potrebbe farlo, all’oscuro com’è anche di se stesso. […] Nel dissesto della memoria di un adolescente che allora ‘faceva’ politica si sono inserite letture non più casuali, non solo documentarie e testimoniali. Né esclusivamente saggistiche. Nei buchi della memoria si sono ricomposte voci vive e morte di allora e di adesso, voci di poeti che mi venivano incontro perché tenessi a freno la lingua”. Questo libro è organizzato secondo una scansione pseudo-tragica. Pseudo dal momento che ci sono all’interno dei ‘fuoriposto’, degli inserti grotteschi, talvolta comici (se così possiamo dire), indisciplinati verso una possibile forma del testo. Nella partitura del libro le figure si inseguono in coro, si alternano e si sovrappongono, ma quasi assentandosi l’una dall’altra. Chi parla è conficcato nella propria fine. Gli unici spettatori, forse, di questa fuga di voci sono Stalin e Mao che, morti, guardano la televisione e assistono (stupefatti, compiaciuti, luminosamente retrogradi) al delirio storico, politico e ideologico da loro stessi innescato. Dentro il bagno di sangue che furono i cosiddetti “anni di piombo”, galleggiano uomini e donne, vittime e carnefici, figlie e figli che furono toccati, feriti, esplosi. Questo di Bonito è libro della mia generazione… è libro che sento oltremodo mio. Il poeta e scrittore Luciano Neri ha così detto di quest’ultima opera del nostro autore: “L’atto poetico di Vito M. Bonito si dispiega entro una cornice storica in dissoluzione, il Novecento, che a stento riesce a contenere le voci cantilenanti, remote e disamplificate a cui è affidato il racconto. […] La lingua si avvicenda nei risvolti della storia, nella sua fibra umana più irriducibile, senza la pretesa di riordinare gli eventi di un’epoca al fine di dare credito a una verità. Tra l’oblio e i refusi della memoria si intravede dunque una strettoia in grado di circoscrivere il fallimento delle grandi aspirazioni umane, ormai conchiuso in ciascuno in una privatezza isolata e sorda, in un’auto-segregazione della coscienza”.
GIAN RUGGERO MANZONI