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FABIO MICHIELI RECENSISCE “LA MATITA E IL MARE” DI LUCIANO BENINI SFORZA

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FABIO MICHIELI SCRIVE UNA RECENSIONE SU LA MATITA E IL MARE

DI LUCIANO BENINI SFORZA

ARTICOLO PUBBLICATO SU POETARUM SILVA

 

L’endiadi del titolo racchiude tutta la poesia di Luciano Benini Sforza: la racchiude nel gesto delicato di chi disegna a matita, e la comprende nella vastità del mare dove da sempre si rivolgono gli occhi del poeta; semplificando al massimo, potrei dire che il titolo andrebbe letto “la poesia del mio paesaggio”, dove “la matita” indica la poesia e “il mare” tutto il pae­saggio abbracciato nello sguardo di una vita dal poeta. Come un ritrattista lungo il litorale, Benini Sforza coglie i segni e li sfuma, in giochi d’ombre e chiaroscuri dovuti alla costante presenza della luce, nella vasta tela della vita che è compresa nel mare, nell’acqua, che è il corpo di ogni cosa perché ogni corpo si fa mare, o onda, o flutto, o goccia. È forse anche la dimensione liquida della società, della modernità, secondo la felice definizione di Bauman. È soprattutto un ritorno agli elementi primor­diali, originali, ancestrali, essenziali; è un ritorno alle proprie origini attraverso la poesia, una poesia delle origini (ma siamo sicuri che la poesia di Benini Sforza se ne fosse allonta­nato?):

Questa poesia, sai, torna all’origine,
ai primi messaggi, alle confidenze,
alla stanza con i respiri sovrapposti.
Torna ai codici diversi di sentire dentro i giorni
il viaggio del corpo e delle mani.
La nostra poesia ha sbagliato la partenza.
L’essenziale, mi dico ora.
Il biglietto
stretto dell’appartenerci. (p. 35)

La matita e il mare, pubblicato nel settembre 2016 da L’arcolaio, come già nel 2012 Dopo questo inverno, mette se possibile ancor più a nudo non solo il poeta ma pure l’uomo, con i suoi affetti, i sentimenti, l’amore, gli amici, la famiglia. Riconoscibili o no che siano, i per­sonaggi coinvolti, i molti tu raccolti in questo libro, ridefiniscono i contorni stessi della poesia del poeta romagnolo. Il metro stesso è meno vincolato alla misura; è dilatato sì, ma mai narrativo: il lirismo è cifra palpabile quando l’io si espone con una tale sorprendente forza e, allo stesso tempo, con fragilità, da correre il rischio di rimanere schiacciato dalla mole di ricordi, che fluiscono in un andirivieni continuo di onde, evocate o ritratte. Eppure l’io si sminuisce: nemmeno si dichiara poeta, come vorrebbe certa tradizione; pre­ferisce dichiararsi uomo, insegnante: «Non sono Prometeo o un cacciatore antico in una grotta, sono un insegnante con gli occhiali e ricordi o idee sulla fronte, come tanti. […] I morsi tagliano gli istanti, sono gesti umani. Fossero strettoie solo o improvvisi scogli…» (p. 17). L’io si definisce nella sua fun­zione quotidiana. E proprio qui sta la grandezza: nella rivendicazione di un ruolo nella vita che rivendica una funziona stessa della poesia: essere monito, e quindi poter anche inse­gnare qualcosa.
Il monito è quello di non abbandonare mai l’appiglio alla memoria, al ricordo, senza per questo doversi o volersi rifugiare solo in essa. L’esercizio della memoria è perciò un eser­cizio che trasporta il passato (la nonna Giulia) nel presente che si infutura (la nipote Ni­cole). I gesti contano quanto le parole; i gesti si rianimano nelle parole:

Senza passaporto

Nel mio tempo vi trattengo,
spesso si apre la terra sotto i piedi.
Era Giulia bianca di polvere
a tornare a casa, luce morbida
come una calla, Pietro arrabbiato
ma sempre con lo sguardo avanti,
Virginia alta e sottile
come erba medica prima del taglio.
Prima della più silenziosa sera.
E noi nei campi a fare i grandi,
giocando, correndo,
rondini, spighe ancora verdi,
esploratori dei giorni e della vita
senza confine. Senza passaporto. (p. 59)

È un tratto di una certa poesia romagnola, mi verrebbe da dire, il mito della memoria, perché è presente in poeti distanti per esiti stilistici e contenutistici; eppure alla memoria ricorre Gianfranco Fabbri (senese di nascita, ma romagnolo d’adozione ed elezione) nel suo recente libro di prose poetiche Il tempo del consistere; si apre nel segno della memoria In tagli ripidi di Alessandro Brusa; si radicano nella memoria tutta la poesia di Narda Fattori e di Nevio Spadoni; e sono solo alcuni esempi. E quando la poesia lancia il suo sguardo verso il passato, non è mai per pura nostalgia: è per poter riportare al presente qualcosa sospeso nel tempo infinito della poesia, e traghettarla al futuro. In Benini Sforza la memo­ria non è malinco­nica, depressa; anzi è viva e volitiva. È lo scatto necessario a proiettarsi in avanti, anche nell’incertezza di ciò che ci attende. C’è sempre in mare di fronte, ed è un mare tutto da esplorare, o da osservare nell’attesa che qualcosa o qualcuno da esso arrivi. È la vita tutta esposta che chiede di essere esplorata, come un corpo.

© Fabio Michieli

 

GIUSEPPE VUOLO PARLA DI “SANTUARIO DEL TRANSITORIO” DI ALESSANDRO SALVI

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Santuario del transitorioAlessandro Salvi – (2014)

di  Giuseppe Vuolo

È la prima volta che mi azzardo a scrivere qualcosa riguardante la poesia. E credo sia necessaria una brevissima premessa per chiarire subito che, oltre a leggerne davvero poca, sono ignorante in materia. Mi preme sottolineare questo aspetto, perché il mio intento è semplicemente quello di esprimere sensazioni suscitate dalla lettura e nient’altro.

 

Santuario del transitorio colpisce forte, sin dal titolo, perché ci pone di fronte a un’interessante simbiosi tra l’intima natura della forma d’arte utilizzata (il santuario) e la caducità dell’esistenza umana (il transitorio). La copertina, poi, oltre a ratificare il concetto, con l’immagine di un volatile meccanico[1], formato da “ingranaggi” in bella mostra, addirittura lo complica: qual è la natura di questo essere? È creato con materiale di scarto? È un automa? – (per quanto possa risultare banale affermarlo, non è forse vero che oggi l’esistenza umana è sempre più simile a un’esistenza artificiale?)

Le poesie che compongono Santuario sono suddivise in tre sezioni che possono rappresentare altrettanti luoghi di passaggio, all’interno dei quali l’autore offre le proprie dimensioni di esistenza. E si tratta di dimensioni transitorie che diventano impronte con le quali potersi confrontare. Ma, addentrarsi nel percorso costruito per attraversare questi luoghi, ci immette su un sentiero dall’esito incerto: «Le inarrivabili parole tramano / chissà che cosa a mia grande insaputa.»

Leggendo queste poesie appare evidente che la necessità di doverle scrivere è vitale («sei tu il pane che bene o male sfama» e «io dentro queste parole ci vivo»). I versi di Alessandro Salvi, quindi, sono impregnati di “vissuto” e sono ciò che – allo stesso tempo – “costringe” a vivere. E da tale contrasto emerge la principale forza del loro affrontare il lettore.

La tensione che si crea tra la realtà dall’interno della quale ci si esprime («Io vi parlo da questa / inospitale zona del sentire») e quella esterna che si subisce («Non posso tollerare più le vostre / parole polveriere […]») è “ideale” condizione dell’agitarsi di ognuno di noi; la lotta in cui ci si dimena per restare a galla, in mezzo a ondate di affanni spesso inutili («dove un’arcana arca vaga in cerca / di chissà quale segreto presagio»).

La lettura di Santuario del transitorio ci proietta in una zona “sospesa”, dove spazio e tempo hanno quasi sempre una sapore onirico (e un po’ alticcio), e dispiega versi che cercano, tra distacco e sapiente ironia, un modo quasi disperato per (r)esistere («Sono un ladruncolo di tamerici. / A volte faccio il gradasso, poi cedo / al tuo cospetto. […]»)

 

[1] Una scultura di Andrija Milovan.

Giuseppe Vuolo

MARIA LENTI RECENSISCE “NUOVE NOMENCLATURE E ALTRE POESIE” DI ANNA MARIA CURCI

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Anna Maria Curci, Nuove nomenclature e altre poesie, Interventi di Plinio Perilli e Gianfranco Fabbri, Forlì, L’arcolaio, 2015

 

Le nomenclature di Anna Maria Curci, nel loro proporsi, restituiscono la tensione da epigrafia e giungono apodittiche. Enigmi tanto oscuri quanto lapalissiani nel finire in aforismi, in audacie sottratte ad ogni eloquenza. Nomenclatura come lista di un presente negato ad ogni infinito, in cui nessun filo perduto può essere portato a sostegno delle intermittenze del cuore. O meglio, del sentimento, il quale appare sfuggente ad ogni rincorsa, in metamorfosi continua rispetto alla sua definizione. Eppure la parola sembra sostare. Per un attimo. Poi tutto riprende ad essere sentito in un sovrappiù sbancato alla sostanza: «Compres(s)a l’estensione, / scorre placido il fiume / di dati sbrodolati. / Compattato, il soverchio / assume le sembianze / di tassello essenziale.» (Zip, p. 42).

Siamo qui, sembra dire la poesia, e ci stiamo con tutti i disagi del “troppo pieno” e gli oscuramenti di ciò che sarebbe (e-o dovrebbe, potrebbe essere) vitale.

Ipnotici tempo e spazio, ma riconoscibili nella e per la fissità dell’oggi: «Non ho voglia di pescare, oggi, / refusi propri e altrui / sul pelo dello stomaco. («’Namo donne che oggi so’ matta») (p. 60). Un oggi immedicato, assunto e restituito, dall’inizio alla fine della raccolta, sintomaticamente e per buoni motivi, nell’indicativo presente. Le due coordinate spazio-temporali escono dalle alterazioni del loro tessuto, dalle rarefazioni della trama, della cronaca arbitrariamente rovesciatasi in storia per quel suo perdere consistenza nella durata ed essersi fatta sovrana subito scomparendo soppiantata da altra cronaca.


 

Transitorio mutato in perentorio: la poesia di Anna Maria Curci, docente di tedesco e studiosa-traduttrice di letteratura tedesca, lo conosce, ci cammina dentro, ne sente il respiro breve, la corda corta, l’apparente connotato di positività. Ne rileva le contraddizioni, le conflittualità, ma giocandoci attorno con una carta filigranata caratteristica: l’ironia. Chiave della finzione (di ciò che non è), della dissimulazione (di ciò che si vorrebbe) – nell’alternarsi di affermazioni e loro contrario – questo riso (che non passa dentro) spinge, et pour cause, il pensiero oltre il suo detto fermandosi in nodo da sciogliere.

La poesia esce così a produrre senso, a darsi – come si suole dire –  nella sua sostanza etimologica tra uno sguardo indietro e uno, improbabile, in avanti (Massacro in Sol Maggiore 2011, p. 48); tra un prima risibile e un dopo ridotto, e se ne sente tutta l’esilità bruciante, alla sola pelle: «È concia di sorrisi / a grinze plissettate. // Senza sale né cromo, /senza allume di rocca.  // Soluzione segreta / dopo la scarnatura. // Sono i giorni feriali / i veri funamboli.» (Dopo la scarnatura, p. 49).

Simile il percorso, pur in concrezioni diverse, delle altre poesie della raccolta (suddivisa in sette sezioni: Nuove nomenclature, Staffetta, Sonetti sparsi, Dodici distici del disincanto, Distici del doposcuola, Canti del silenzio).  Tuttavia e soprattutto in Canti del silenzio – dove un “Preludio” non tanto anticipa quanto esplicita, io direi, tutta la poesia di queste Nomenclature, libro tenuto fino a questo momento-proemio nella sordina di una intelligenza cercata nella scoperta – il titolo si apre al dialogo: di un sé con un sé che è anche altro da sé. Per i richiami, inoltre, a tratti culturali di un Novecento amato. Come nell’exergo di Preludio, appunto, in cui l’Angelus di Benjamin e quello di Paul Klee potrebbero esordire insieme, ma,

senza indugio, elidono l’attesa in una medietà corporale. Per negarla: «La diceria dell’angelo che guarda / prova da tempo a farsi mio custode. / Se è un canto dal silenzio o di sirene, / sta tra l’ugola e il tubo digerente.» (I, p. 93).

Poesia singolare questa di Anna Maria Curci tra quelle uscite in questo ultimo decennio. Narrazione evitata, quella narrazione perfino sovraesposta e diffusa fino all’eccesso nei testi di poeti coevi, i versi di Anna Maria Curci e di Nomenclature privilegiano la densità del dato che si fa concetto (mai, però, concettualismo  o concettosità come in altri autori), del pensiero che, cercando limpidità figurale, diventa alter ego-metafora dell’esistente, chiuso in un alveo impossibile eppure possibile alla, desiderata pur in controluce o sotto  l’amarezza dell’ironia, modificazione.

                                                     

                                                                  Maria Lenti

 

 

 

 

CRISTIANO POLETTI RECENSISCE “IL TEMPO DEL CONSISTERE” DI GIANFRANCO FABBRI

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Gianfranco Fabbri, Il tempo del consistere, L’arcolaio, 2016, € 12,00

Recensione di Cristiano Poletti, pubblicata dalla rivista blog Poetarum Silva

 

I testi che compongono Il tempo del consistere risalgono agli ultimi quattro anni del Novecento, secolo amatissimo da Fabbri. L’autore ci regala una scrittura capace di attraversarlo per intero, questo secolo. Una vena, capace di dirci quanto questo periodo abbia fatto soffrire, certo, e sperare; un tempo che si è fatto sentire, con un suo spessore, nel sangue e sottopelle; un’età dove tutto ha avuto un peso straordinario.
È un libro pieno di neve, soprattutto all’inizio; un libro di quadri, d’intimità, di confidenzialità.
Ovunque tra queste pagine troviamo eleganza e raffinatezza: intendo la leggerezza di un soffio, qualcosa di aereo e forte allo stesso tempo. E poi c’è pudore, raccoglimento, c’è la tenerezza della scoperta, una tenerezza costante, e una sensualità evidente ma delicatissima.
Cambiano le stagioni, passano in rassegna, disegnano tutto l’arco della vita. Consideriamo che secolo, nella sua radice etimologica, significa proprio questo, l’arco della vita, la generazione, l’età di un uomo.
Ci troviamo allora di fronte a cartoline, istantanee del Novecento: oltre a pagine di guerra e di strage (Bologna, agosto 1980), si rievocano nella voce di Fabbri nomi e titoli della musica e della letteratura, brani che hanno accompagnato l’anima dell’autore, hanno costruito il suo animo gentile.
Via via, leggendo, si comprende bene il puzzle in composizione. Bastano già i titoli delle sezioni a rendere evidente il disegno: Echi del passato, L’occulto sguardo del presente, La suggestione della cultura, Il rovello della scrittura, Frammenti e aforismi.
Il tema, poi, è tutto nel titolo. Cos’è la consistenza? Oltre l’aver peso e la robustezza viene in mente qualcosa d’altro: non so, l’essere insieme, come se la vena fosse il privato e il corpo il collettivo. È di questa consistenza che mi sembra si parli, di una solidità necessaria – e probabilmente perduta – per ricondurci insieme al mondo, non evaporare, non perderci.
Questo avviene nel libro soprattutto quando scatta il meccanismo dell’immedesimazione. Come in questa pagina, dove c’è forse l’eco di Proust, e dove c’è senz’altro – come sempre in Fabbri – una speciale perizia nella punteggiatura:

Anno di grazia 1958:

La solitudine di questi giorni cresce fino a un livello insopportabile.
Ma è inutile crucciarsi, non conta nulla inveire al cielo le ingiustizie patite.
È vero: sono ormai una donna vecchia, non posso guardarmi allo specchio.
Ma c’è il tavolo, davanti a me, grande come un lago. Sopra ci faccio navigare la tazza del caffelatte e i savoiardi. Isole felici, mi dico, quelle molliche più in là. Atolli di un oceano piatto.
Fosti molto urbano, il giorno in cui mi lasciasti. Eri sposato: che te ne saresti fatto di una come me? Una non affascinante, già verso i quaranta e con la vocazione, fortissima, ad essere zitella.
Le ultime volte mi prendevi all’impiedi, di fianco al divano. Dovevi fare in fretta, non avevi più tempo da dedicarmi. Del resto, dovevo capirlo: tua moglie ti dava un figlio dopo l’altro. Tra noi non rimaneva molto da dire.

Consistere, dunque, a partire da un nucleo di memorie – non può che essere così – da un cantuccio, lì dove l’autore “si ripesca”. E non manca il velo dell’ironia. Spunta qua e là, levigata, appena accennata, leggera, figlia forse (anche) della lezione dell’amatissima Szymborska: «All’improvviso mi sono ricordato di me»; e più avanti, a pagina 49: «Sono ancora io, nonostante me stesso. / Vorrei che mi chiamassi, questa notte». O ancora: «Poi sempre mi dimentico della ragione per cui volevo scrivere» (pagina 83).
Scrive dunque dalla nicchia del sé, Fabbri. E la dedica in questo senso dice molto: Ai miei genitori, che in quel tempo furono la mia ombra. Quell’ombra amata e restituita in prosa, un’ombra in cui noi, ringraziando l’autore, possiamo riconoscerci.

Cristiano Poletti

 

 

MAURO GERMANI RECENSISCE “IL TEMPO DEL CONSISTERE” DI GIANFRANCO FABBRI

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MAURO GERMANI RECENSISCE “IL TEMPO DEL CONSISTERE”

ARTICOLO PRECEDENTEMENTE PUBBLICATO SUL BLOG

MARGO

 

In quest’ultimo libro di Gianfranco Fabbri riscopriamo il gusto novecentesco del frammento, della prosa breve di memoria, dell’annotazione lirica, del lampo improvviso del pensiero, mai scissi dall’esistenza, ma inevitabilmente segnati dai dubbi, dalle perplessità, dagli smarrimenti del nostro essere nel mondo. Il volume è infatti una miscellanea di ricordi, riflessioni, suggestioni e intuizioni che risalgono agli ultimi quattro anni del Novecento, contrassegnati da una scrittura di rara grazia, cesellata nella sua sobrietà ed eleganza, e tuttavia mai artificiosa, anzi autentica nella sua concreta testimonianza poetica. Sì, perché questo è in fondo un libro di poesia, in cui riconosciamo la voce del Fabbri autore di sillogi come Davanzale di travertino (Campanotto, 1993), Album italiano (Campanotto, 2002) e Stato di vigilanza (Manni, 2006); una voce – come ebbi modo di scrivere – che “accompagna e scandisce il viaggio enigmatico dell’esistenza”, in cui “è possibile rinvenire una sorta di topologia dell’anima, di evocazione di paesaggi, oggetti, simboli, […] come fotogrammi da custodire prima della loro inevitabile scomparsa” (AA.VV., D’un sangue più vivo. Poeti romagnoli del Novecento, a cura di Gianfranco Lauretano e Nevio Spadoni, Il Vicolo Editore, 2013, p. 162). In un tempo come quello presente, in cui prevalgono opere che sono soltanto esercizi sterili, prive cioè di una profonda relazione con la nostra condizione esistenziale e scritte senza una vera necessità, il libro di Gianfranco Fabbri si pone in senso opposto, ed è come una ventata fresca nell’asfittico luogo della scrittura contemporanea. C’è in queste pagine la volontà di comprendere la realtà con uno sguardo attento al dettaglio, alla folgorazione improvvisa che poi viene meditata, quasi a cogliere di soppiatto non solo il mondo, ma anche il proprio io, certe inclinazioni, certi atteggiamenti, certi soprassalti, che vengono scoperti con una forma di intelligente ed interrogante pudore, di stupita sensibilità. Mirabili, in questo senso, alcune prose come quella che ricorda la febbre “come un’intima festa” vissuta dall’autore da piccolo, o come il sogno raccontato in Sotto l’impressione di una musica celtica, brano di grande suggestione, in cui la dimensione onirica trova la cenere dei morti, “minuscoli esserini”, ormai irriconoscibili, a bordo di barchette, con addosso “un mantello di velluto che copriva le loro spalle: come una specie di divisa”. Interessanti, poi, le riflessioni sull’atto misterioso dello scrivere, che sono rivelazioni di poetica da parte dell’autore. Si veda il brano relativo all’“alba della scrittura”, che coincide con il momento estatico dell’attesa, e più avanti la necessità della vigilanza e soprattutto del’autenticità: “Il lettore deve sentire che l’altro (l’Autore) investe ogni cosa nel testo”. E giustamente la polemica verso la vanità di certa scrittura giovane, quando “si scrive per gag, per trovate” e lo stile “è ruffiano / orale / molto svelto”. Da

citare, poi, l’appunto sulla sintassi della neve: poche righe nelle quali mistero della natura e

della scrittura s’incontrano davanti agli occhi del poeta. Degna di nota anche la sezione dal titolo La suggestione della cultura. Qui Fabbri presenta alcune annotazioni di lettura, che colpiscono per certe intuizioni originali enunciate senza enfasi, come piccole rivelazioni private offerte al lettore, o confessioni dell’intelligenza sussurrate nel respiro della pagina: ecco, tra gli altri, i pensieri sulla reclusione emblematica vissuta da Anna Frank e dai membri dell’alloggio segreto, l’accostamento tra Dostoevskij e Kafka a proposito della ferocia dell’uomo e dell’idea di lager, le considerazioni sul silenzio in relazione ad una possibile armonia. Il Novecento privato e collettivo (si veda il testo sulla strage di Bologna) vibra in queste pagine in frammenti d’esistenza, senza clamore, colto da uno sguardo occulto – come recita il titolo di una sezione del volume – , che è quello del tempo

vissuto e nascosto, in bilico tra verità e domanda, a cui risponde la scrittura poetica di Gianfranco Fabbri.

 

Mauro Germani

MARCELLO TOSI, SUL CORRIERE DI ROMAGNA, PARLA DELL’ULTIMO LIBRO DI LUCIANO BENINI SFORZA, “LA MATITA E IL MARE”.

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LA MATITA E IL MARE, PICCOLO E GRANDE SONO FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

L’ultima raccolta del ravennate con cui continua l’opera di scandaglio psicologico.

Articolo di Marcello Tosi

 

Dopo “L’inverno della poesia”, con la “Matita e il mare”, recentemente edito da L’arcolaio, l’opera di scandaglio psicologico dei versi di Luciano Benini Sforza torna ad aprirsi su di un paesaggio appartato, sulla marea montante dei ricordi; il molo, il canale che si butta sul mare, accanto alla trama dei vecchi, alla campagna dei nomi. Relazioni, scrive Gualtiero De Santi nel suo intervento iniziale, che formano nel poeta ravennate preciso corrispettivo tra il mare e la scrittura, connotandosi come specchio di natura e identità.

Benini Sforza, perché “La matita e il mare”?

“La matita indica una poesia che vuole usare un linguaggio quotidiano e antiretorico, come il famoso “lapis” di Marino Moretti. Il “mare” è anche il nostro mare, il paesaggio e l’ambiente della nostra riviera; il libro, infatti, nasce dall’idea e dal sentimento che piccolo e grande, locale e globale, temi individuali e temi globali siano facce della stessa medaglia. E allora Marina di Ravenna, dove vivo, la nostra provincia diventano “provincia-mondo”, come la chiamo io. La Romagna infatti è vista con la sua caratteristica, precisa identità, ma anche come parte integrante della globalizzazione, di cui volenti o nolenti, nel bene e nel male, facciamo parte”.

La sua poesia vive spesso uno smarrimento che nasce come dalla fine della storia (“Ritorni, ritratti e migrazioni”), come volendosi sollevare di un senso di irrimediabile sconfitta…

“Credo però che alla parte più critica e negativa debba subentrare una parte propositiva, positiva, con la speranza e la fiducia di poter costruire insieme un mondo migliore, più umano, più equo, più equilibrato e ricco di valori morali, di pace, amore, dialogo, di rispetto verso la nostra Terra e tutte le forme di vita, verso le creature e le culture o identità che la popolano. Senza distruggere o escludere, senza appiattire o uccidere e sfruttare selvaggiamente niente e nessuno. Per questo il libro unisce con una sezione dedicata alle creature (animali, uccelli, cani), ai bambini; motivazioni enormi per noi adulti, al di là e forse più delle ideologie, per una cittadinanza e un’umanità attive, costruttiva”.

 

Nella postfazione alla raccolta Emanuele Palli pone una domanda che appare come una provocazione: “cosa c’è di più inutile oggi della poesia?”

“Troppo spesso la poesia, a causa del suo linguaggio per pochi eletti, si è auto-ghettizzata o è stata ghettizzata, ma noi poeti di oggi dobbiamo al contrario uscire fuori dal ghetto. Dobbiamo avere la forza e l’umiltà di utilizzare, di “disegnare” col “lapis” la poesia, utilizzando un linguaggio più vicino alle persone, che non può essere banale, ma che deve recuperare e modernizzare la lingua dei nostri classici, antichi e moderni, fino ai nostri ottimi poeti neo-dialettali romagnoli. Per questa ragione penso da diverso tempo a una fusione tra alto e basso, di lingua quotidiana e lingua colta, in reciproco dialogo, in reciproca unione e sinergia”.

Quale insegnamento e nutrimento poetico ha racchiuso per lei il pensiero di Zigmunt Bauman?

“Per me Bauman è stato ed è un Maestro, perché ci ha fatto crescere, perché il pensiero e i suoi progetti migliorativi sulla globalizzazione sono davvero formativi e profondi: riscoprire la dimensione del bene comune, la politica e la cittadinanza attiva in senso alto, democratico, costruttivo. Senza dimenticare che Bauman con la sua famosa definizione di società “liquida”, una società quindi sempre mutabile e adattabile, dai mille instabili volti, sta dentro l’immagine del “mare” presente nel titolo, in molti miei versi. Il nostro comune e umanissimo mare dell’esistenza e della società”.

 

MARCELLO TOSI