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LA COLLANA “IL LABORATORIO” ESCE QUEST’OGGI RINNOVATA NELLA LIVREA E NELLE DIMENSIONI. ESORDISCE IN QUESTO NUMERO “BREVE COMPENDIO DI SCENOGRAFIA E PRESTIDIGITAZIONE” DEL GENOVESE MASSIMO PALAZZI.

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L’arcolaio accoglie festosamente il poeta Massimo Palazzi con il suo “Breve compendio di scenografia e prestidigitazione“. Egli esordisce nella collana “riverniciata” del Il laboratorio, lo spazio editoriale curato da Luciano Neri. Il progetto grafico è opera di Michele Zaffarano.

Sentiamo dalle parole del direttore di collana la tematica e lo stile di questa scrittura. Una prosa poesia che tenta nuove formule sulla ricerca letterario.

La parola, adesso, a Luciano Neri:

Con Breve compendio di scenografia e prestidigitazione di Massimo Palazzi, autore genovese, la collana Il Laboratorio diretta da Luciano Neri inaugura una nuova serie di pubblicazioni che guarda alle scritture di ricerca contemporanee e riprende il proprio progetto editoriale rinnovandondosi nella veste grafica (a cura di Michele Zaffarano).

Il testo di Massimo Palazzi, in linea con le aspettative testuali e creative della collana sfugge fin da subito a una definizione di genere, risultando un testo stratificato, pur nella limpidezza della prosa che lo caratterizza. Non si tratta né di un romanzo né di una raccolta di racconti, pur non essendo un saggio a tratti riesce ad assumere un registro saggistico; non si tratta neppure di un resoconto di viaggio né di un libro d’arte monografico, di certo strizza l’occhio alla letteratura ecfrastica. La descrizione è, a un primo colpo d’occhio, la sua caratteristica peculiare, o almeno sembrerebbe. Di certo il Breve compendio sfugge a un certo enciclopedismo, che qui viene contraddetto rispetto alla sua brevità, attingendo invece a un’enciclopedia delle culture orientali, a ipotesti “sapienziali” da cui scaturiscono quelle linee che l’autore intende percorrere mescolandole alle tante immagini che appaiono ad ogni pagina. Di certo il libro è uno spazio di luoghi, di una specie non definibile, dove fotografia e memoria si compenetrano, dove impressioni e figure si avvicendano. Oppure, il testo, sembra dirci Palazzi, altro non è che un modo per divulgare un mondo illusorio contemporaneamente alla sua parte in ombra, per uno sguardo che, aggiungendo pezzo dopo pezzo, si voglia prestare, come in un gioco di prestigio, alla costruzione scenografica che lo va sorreggendo, per il tramite di una scrittura raffinata e mai leziosa.

testi:

Buio


C’era una volta un tempo
in cui il prodigio dell’immagine non poteva avverarsi
se non in condizioni di completa oscurità,
quasi che la visione necessitasse di essere negata,
dando luogo a un rapporto di paradossale coesistenza
che la separazione tra il giorno e la notte,
nella chiarezza della sua distinzione, proprio non
può spiegare.
L’ambiente preposto a quegli
accadimenti era il luogo dove il buio assoluto si
manifestava nella sua entità apparentemente gigantesca,
dotata di una concretezza possente come la
muscolatura di un toro. Al suo interno, l’oscurità
veniva percepita con una sensazione quasi claustrofobica,
ma al tempo stesso sembrava capace di
espandere i confini dello spazio fino a un’enormità
insondabile. Non appena spenta la luce, il buio,
materia proteiforme e gioia dei timidi, allagava
l’ambiente e, irrispettoso di qualsiasi muro, pavimento
o soffitto che ne limitasse la dimensione,
arrivava subito dappertutto, spingendosi ben oltre i
confini della stanza che ne era piena.
Impossibile da quantificare
in termini di coordinate cartesiane, l’oscurità ha
il peso dello spazio vuoto, un peso imponderabile
nonostante il carico di tentazioni suggerite dall’azione
nascosta e dall’occasione del facile sotterfugio
che tanto spontaneamente si legano a esso. Per
quanto possa sembrare incredibile, nella maggioranza
dei casi tanta enormità finiva per esser contenuta
in stanzini angusti, sottoscala obliqui, ripostigli
e seminterrati, costretta in bagnetti e lavatoi
e in ogni altro locale di servizio appositamente
parato per far sì che l’assenza di luce si materializzasse
in tutta la sua grandezza, non solo la notte,
ma anche nel pieno splendore del giorno. Nonostante
l’ampia casistica delle possibilità, quegli
ambienti erano tutti angoli in cui era bello rifugiarsi
o nascondersi, come quando, per giocare,
i bambini si rintanano sotto i tavoli o sotto il
peso delle coperte del letto e inventano capanne
e castelli per il gusto di entrare e uscire da quelle
loro proprietà, forse rievocando inconsciamente
una sensazione di sicurezza prenatale.
Curioso era anche il modo
in cui l’esigenza di ottenere la totale oscurità determinava
l’aspetto di quelle stanze che oggi, agli
occhi di chi non fosse al corrente della loro funzione
rispetto allo sviluppo delle pellicole e alla
stampa di fotografie, potrebbero apparire costruzioni
bizzarre e perfino un po’ inquietanti. Erano
soprattutto la porta e le eventuali finestre, sigillate
perfettamente, a evidenziare l’ingegnosa casistica
della fabbricazione artigianale del buio. Frequente
era l’uso di pannelli di cartoncino, polistirolo o
compensato leggero, che venivano usati per coprire
le fonti di luce senza indugiare nell’estetica del
risultato. Chiodi e strisce di nastro adesivo erano
lasciati in piena evidenza e resi ancora più visibili
sulle pareti chiare della stanza dall’uso prevalentemente
del nero, il colore caro all’oscurità che sembra
volerla invocare omaggiandola.
Guardare oggi i densi strati
di pittura opaca, i fogli di plastica nera e i pesanti
tendaggi di una vecchia camera oscura suscita
fantasie che contemplano la relazione tra simili
paramenti e l’apparizione delle immagini. Viene
da pensare ai drappeggi che accompagnavano la
mostra dei quadri nelle esposizioni Ottocentesche,
ai baldacchini sotto ai quali negli stessi anni
sedeva, tra velluti e broccati, la carismatica figura
di chi si faceva tramite degli spiriti dei defunti e,
ancora, all’arredamento delle sale teatrali e cinematografiche.
Attraverso la fenomenologia degli
apparati scenografici che sono stati costruiti come
premessa e corollario all’apparizione di immagini
statiche e in movimento si potrebbe scrivere una
storia del buio come condizione necessaria al manifestarsi
della visione. Lasciandosi trasportare dalla
suggestione di tutto questo nero, affiorerebbero alla
mente altre camere molto più oscure, sotterranee,
senza finestre. Camere in cui si viene introdotti
aprendo una robusta portiera, borchiata come la
pelle di una sella e pesante sui cardini, camere che
hanno pareti di controllata morbidezza, completamente
foderate di gomma nera imbottita. Alcune
sono state costruite per il diletto di chi le frequenta
altre, purtroppo, no. Ecco una cella di contenzione
per i prigionieri della Stasi a Berlino, luogo dove
l’esercizio del potere si espleta nel provocare rivelazioni
improvvise e confessioni inaspettate di colpe
neanche vagamente immaginabili altrove.
Teatro, niente altro che
teatro. A proposito di costruzione dell’oscurità e
apparizioni, viene da pensare che l’affermarsi dello
spazio nero che tanta fortuna avrebbe avuto sul
palcoscenico contemporaneo, luogo delle apparizioni
per eccellenza, possa risalire all’epoca nella
quale un trucco noto come “Black Art” si affacciò
sulle scene degli Stati Uniti. La preparazione dello
spettacolo prevedeva che l’intera cavità del palco
fosse foderata di velluto nero e che l’assito fosse
coperto di feltro in modo che alla totale assenza
di elementi visibili corrispondesse una altrettanto
totale assenza di rumore. La regolare illuminazione
del palco veniva sostituita da una serie di lampade
a gas, disposte lungo il limite del pavimento e i due
stipiti del boccascena per abbagliare leggermente
il pubblico e rendere il retrostante spazio ancora
più nero. Il prestigiatore, in abiti chiari, stupiva gli
spettatori facendo apparire e scomparire dal nulla
tavolini e grandi vasi, all’interno dei quali, come
alcuni ritengono che le anime dei defunti si reincarnino
in animali e corpi diversi, trasmigravano
arance e altri oggetti prestati dal pubblico. Solitamente
il numero terminava con l’apparizione di
uno scheletro danzante le cui membra si scomponevano
muovendosi liberamente sul palco, infondendo
stimolanti brividi di terrore nella platea per
poi ricomporsi e scomparire definitivamente con la
stessa velocità con cui era comparso. Il trucco c’era
e come ogni buon trucco era facilmente spiegato:
invisibili al pubblico, ma sotto gli occhi di tutti fin
dall’inizio dello spettacolo, gli assistenti del prestigiatore
erano responsabili delle apparizioni e delle
sparizioni. Completamente vestiti di nero, provvisti
di guanti e un cappuccio di velluto che consentiva
la loro totale scomparsa, coprivano e scoprivano
gli oggetti con panni neri e li trasportavano
da un punto all’altro del palcoscenico, muovendosi
agili e silenziosi come gatti nudi nella notte.
Negli stessi anni in cui si
diffusero simili spettacoli notturni, le prime indagini
cronofotografiche avevano affrontato la difficoltà
di ottenere in pieno giorno uno sfondo
perfettamente buio su cui scomporre in singole
posizioni il movimento di un determinato soggetto
scelto per lo studio. Per evitare che imprevisti
riflessi di luce generassero involontarie esposizioni
della lastra sensibile e fastidiosi offuscamenti
sulla figura ripresa, lo sfondo doveva essere privo
di superfici riflettenti, impresa non facile dato che
perfino una parete dipinta di nero o coperta di velluto
sarebbe risultata inadatta se usata in piena luce
diurna come era necessario che fosse. Anche in
questo caso, come sul palco, la soluzione fu lo spazio
di una cavità, la costruzione di un contenitore
dove imprigionare il buio e tenerlo al riparo da
ogni fonte luminosa. Fu così che il bisogno di ottenere
la totale assenza di luce determinò la trasformazione
della superficie del fondale in uno spazio
tridimensionale che aveva l’ingombro di un fabbricato
di circa dieci metri per dieci, completamente
oscurato con velluto nero e catrame sul pavimento
e aperto in corrispondenza della parete che doveva
fare da sfondo. Tale era la misura del buio, il trucco
di un’illusione simile a quella della “Black Art”,
non più rivolta a stupire agli occhi del pubblico
spalancati nel silenzio della sala, ma architettata
per ottenere una corretta impressione della luce
sulla lastra fotografica attraverso l’occhio di vetro
dell’obiettivo.
Il prodigio che si verificava
nella camera oscura, madre di tutte le immagini,
apparentemente non contemplava trucchi o
inganni. Tutte quelle che oggi potrebbero sembrare
costruzioni scenotecniche erano in realtà interventi
mirati a vincere un’unica grande sfida che rientrava
nell’oggettività delle leggi fisiche di propagazione
della luce. La sfida era quella di evitare ogni
minima infiltrazione luminosa proveniente dall’esterno
pur garantendo un’adeguata ventilazione
dell’ambiente e una limitata circolazione di polvere
nell’aria. All’interno della camera oscura, non
appena trascorsi i pochi minuti necessari all’occhio
per adattarsi all’oscurità, un buio falso si sarebbe
rivelato con l’evidenza della presunta aurea psichica
visualizzata dalla fotografia Kirlian: a poco a poco
il tracciato luminoso di un mondo insospettato di
fessure e spiragli avrebbe disegnato i contorni della
stanza e di fatto compromesso il paziente lavoro
svolto dall’operatore nell’intimità di quel suo rifugio
segreto. Tuttavia, chiunque si sia trovato ad
allestire una camera oscura, anche solo per provare
a sviluppare e stampare le proprie foto delle
vacanze al mare trasformando i gioiosi colori delle
giornate estive in un malinconico bianco e nero, sa
che in realtà anche in questo luogo, proprio come
sul palcoscenico, un piccolo gioco di prestigio era
concesso. La costruzione delle cosiddette trappole
di luce che, in una grande varietà di soluzioni,
coniugavano l’esigenza di lasciar passare l’aria con
quella di bloccare la luce proveniente dall’esterno
della stanza, necessitava infatti tutto l’ingegno di
un trucco sofisticato. Il segreto era spezzare la propagazione
rettilinea dei raggi luminosi convogliandoli
nei meandri di un labirinto, piccolo o grande
che fosse, le cui superfici interne venivano dipinte
di nero opaco per prevenire gli effetti della riflessione
della luce sulle superfici. Talvolta, c’era anche
un filtro, posizionato all’ingresso della trappola,
per limitare la quantità di pulviscolo presente nella
stanza. Nelle camere oscure più esoteriche e professionali,
l’ingresso era del tutto privo di porta,
sostituita da una di queste trappole in versione
gigante.
Oggi conosciamo il mondo
principalmente attraverso le immagini fotografiche.
Dai tempi dell’invenzione della camera oscura
queste prove dell’esistenza delle cose si sono moltiplicate
a dismisura diventando tanto pervasive
da inseguirci ovunque noi siamo e restituirci l’esperienza
del mondo con tanta apparente fedeltà
da sostituirsi a essa e rendere sempre meno rilevante
la distinzione tra realtà e illusione. La questione
della differenza della verità dal simulacro si
è evoluta al punto da ridursi a una sterile e cap-
ziosa speculazione, invero inutile e obsoleta. Come
la caverna di Platone per l’ontologia e la gnoseologia
del pensiero occidentale, la camera oscura, di
cui probabilmente molto presto non resterà memoria,
è l’inconscio arcaico dell’immagine fotografica.
Rispetto alla luce, questa gioca lo stesso ruolo che,
nella seduta spiritica, la rappresentazione teatrale
assume rispetto all’invisibile.

Massimo Palazzi è nato a Genova nel 1969. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, Herbarium Vietnamensis (979-12-200-3857-7), autoprodotto e stampato in 100 copie tramite una fortunata campagna di crowdfounding.

PRESENTIAMO LA RECENSIONE DI FEDERICO MIGLIORATI AL LIBRO DI CARLOTTA CICCI, “SUL BANCO DEI PESCI”, PRECEDENTEMENTE PUBBLICATO SU “SPAZIO LIBRI”. COLLANA “I CODICI DEL ‘900”, PREFAZIONE DI ALBERTO BERTONI.

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Presentato in precedenza sul blog Spazio libri. Prefazione di Alberto Bertoni.

L’AMORE COME LUNGO RIPOSO: ECCO “SUL BANCO DEI PESCI”,

ESORDIO POETICO DI CARLOTTA CICCI

di Federico Migliorati

La poesia fluida e frastagliata al tempo stesso della romano-bolognese Carlotta Cicci si inserisce in questo nostro tempo come un originale richiamo al verseggiare profondo e costante, che nulla riserva a una facile lettura. Ideatrice insieme al marito Stefano Massari, pure lui poeta, di quella fantasiosa e originale creazione culturale di Zona Disforme che sulla scena italiana si sta facendo apprezzare per il multiforme lavoro artistico a quattro mani, Cicci ha dato alle stampe per la feconda casa editrice forlivese “L’arcolaio” di Gianfranco Fabbri “Sul banco dei pesci” (121 pagine, 14 euro), sua opera prima nel mondo della poesia, suddivisa in quattro stanze e con l’insigne e approfondita recensione di Alberto Bertoni. L’atmosfera che subito assorbe il lettore è quella dei territori dell’interiorità in cui è facile assaporare un’acribia di fondo per la parola, maneggiata con cura, necessaria per un dire sempre fondamentale, per parlare di un assoluto (“sono giovane/sono tutte le età”) che porta a perdersi per poi ritrovarsi. Se i social sono ormai diventati cassa di risonanza, effimera e spesso mefitica, di un verso volubile e vuoto, la poetessa mantiene la barra dritta e manifesta con sincerità come “in questo tempo consueto/nessuna notizia nuova/solo morfina/a buon mercato”, ficcante e incisivo passo che non può che stimolare la riflessione tenendo ben presente che “non abbiamo più tempo/per il perdono”. L’Io che parla è spesso ferito, lacerato da contrasti e contraddizioni, è una presenza-assenza (“sono latitante”) che chiede “risposte umane”, che resta “immobile a guardare” e rifugge dalla semplicità del tutto in un vortice che sembra interrogare ciascuno di noi. La verità e la menzogna, l’onore e l’infamia, la dolcezza e la crudeltà, l’immanente e il trascendente, il superfluo e l’essenziale, il caos e l’ordine, la fedeltà e il tradimento, la debolezza umana e la forza: la parola si fa voce, canto, preghiera, lamento con Cicci, senza mai abbandonare i territori di una poesia contemporanea e antica al tempo stesso e per la quale condividiamo l’opinione di Bertoni che vi accosta, senza instaurare delicati paragoni, l’esordio di Milo De Angelis a metà anni Settanta. Si assiste a una sorta di invito al lettore a prendere parte alla scommessa del viaggio, tra accelerazioni e contaminazioni, magmatico andirivieni e temerario abbandonarsi all’altro, ma anche alla conoscenza di sé e dell’oltre che ci circonda: nei versi brevi e concisi, spesso formati da una sola parola, è sigillato un “pensiero anemico” che spicca in qualità e significato. “Sul banco dei pesci” nasce da un caleidoscopio di visioni, sensazioni, ambientazioni reali e immaginarie, è figlio di una poesia “randagia” che ha cura della parola e del suo obiettivo precipuo. Nulla, in questa silloge, induce all’ozio, all’inerzia bensì richiama condivisione, partecipazione, empatia: c’è una forza centripeta e centrifuga che fa dire all’autrice come l’amore sia “un lungo riposo/nel mezzo di un incendio”, un contrasto, forse un’aporia, alla ricerca di “indizi di luce”.

FEDERICO MIGLIORATI

SALUTIAMO CON PIACERE IL POETA SCRITTORE DANIELE GORRET, CHE ENTRA IN CATALOGO ARCOLAIO CON L’ULTIMA SUA OPERA IN VERSI: “RACCOLTA DEGLI ELOGI”. COLLANA I CODICI DEL ‘900.

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Accogliamo quest’oggi nel nostro catalogo lo scrittore-poeta Daniele Gorret, autore di numerose pubblicazioni (vedi bio-biblio, in fondo all’articolo). La raccolta che ci presenta si intitola “Raccolta degli elogi“, le cui motivazioni sono ottimamente esplicate dall’autore spesso, nella “Premessa prosaica. Lode all’elogio”. L’autore è nato ad Aosta, si è laureato all’università di Torino. E’ autore di diverse raccolte di versi e di alcuni romanzi. E’ anche saggista: notevoli sono i due lavori dedicati a Vittorio Alfieri.

Ma leggiamo con attenzione e con piacere la sua personale introduzione.

Promessa prosaica. Lode dell’elogio.

Pensare l’elogio d’un qualcosa (un altro da sé, uno di fronte) vuol dire volerlo carezzare e, volendolo fare, farsene carezza.

Per questo, fare l’elogio è sconfinare: dal dentro di sé, un poco fuori; dai soliti giudizi calcolati, andare più in là, un po’ più arditi, e – anche – dentro se stessi, un poco innamorati.

A Gilead c’è il balsamo famoso?  Il Libro assicura che c’è ancora ed è ambìto da noi, i disperati. Prenderne un poco e poi portarlo a casa, e stando in casa spargerlo o donarlo: azione più fraterna non si dà. Elogiando, diamo il balsamo e lo siamo: elogiante ed elogiato fanno uno, e profumo si spande, ovunque siamo.

E manna nel deserto cade ancora?  Alcuni, avventurosi, hanno viaggiato, e, a sentirli, giurano di sì.

Manna e balsamo famoso: due forti alimenti per l’elogio! Possiamo partire alla ricerca: per maremorti e per deserti, sostenuti da ciò che da sempre sostiene il viaggiatore: il bisogno di credere più in là.

Pure, formulare un elogio vuole dire: stare in colloquio col silente, udire ciò che il messo a tacere o lo scordato avrebbero, dentro di sé, da far sapere…E insieme vuol dire dare la parola, fargli – da lontano – comprendere “Ti ammiro”. Avere per l’elogiato – se presente – infinito bisogno d’affezione, e – se invece per tempo o per spazi ci è lontano – forti fiammate d’antica nostalgia. Vuol dire rovesciare maggioranze, detti sicuri, larghe convinzioni; non temer di stare con i pochi, gli umili sulla terra, i sempresoli. Anche vuol dire: amare il rifiutato, il pensato immondizia, colui che per i più non vale niente.

Per questo, a chi voglia farsi elogiatore si chiede coraggio e libertà totale. Prima di farlo, prima d’iniziare, consigliamo a chiunque d’essere informato: come nelle confezioni dei medicamenti, leggere le precauzioni è necessario: “Sconsigliato ai convinti che i più numerosi hanno ragione, che legge d’uomo è legge di creato, che progresso sia vero universale… A tutti costoro i nostri elogi potrebbero causare irritazioni, perdita di controllo, svenimenti. Che pertanto si tengano lontani dalla raccolta che qui noi proponiamo”.

L’elogio di qualcosa prevede che si diventi un po’ la cosa. Quindi, c’è anche la carezza a se stesso in quel qualcosa. Come alla fine dell’opera Bohème, io sono un po’ Mimì che canta del suo amore e del suo amore in quel suo letto muore, io spettatore avverto un male acuto al petto, per Rodolfo sento immenso inappagato amore, spalanco gli occhi stesa sul mio letto, li richiudo per sempre, ammutolisco e muoio…

ALCUNI TESTI

La fatica del fiore

Osservo penso esalto la fatica

fatta dal seme di fiore per spuntare.

Seme è nel vaso; io gli sono in piedi

qui sul terrazzo in cieca primavera.

Pur avendone forte desiderio

(desiderio di viscere e cervello),

so che non posso dargli aiuto alcuno:

umano non può costringere la vita

a farsi vita, fuori dalla terra.

Quello che posso è porgergli dell’acqua

e gliela porgo: dal mio bicchiere al vaso.

Prego soprattutto si trasmetta

a lui, se sarà fiore, questa mia

riconoscenza per la sua fatica:

ecco, l’ammiro, di lui sono saziato.

Pieno di riconoscenza per lo sforzo.

Busta in cui era conservato riproduce

immagine che sarà quella del fiore:

fior di tagete rosso, fioritura

da maggio a ottobre, sempre che la terra

sia della buona, fresca e sufficiente.

Prima pianissimo poi forte poi più forte

arriva un vento che pare contraddire

l’aprile caldo in cui seme ed io siamo:

augurio al seme, carezza greve all’uomo.

***

La veranda dello zio

Veranda veneranda con tenda un po’ strappata,

stando seduti in te si vede bene il borgo

ma dal borgo in su non possono vederci:

tenuti al riparo, difesi come siamo…

Passano i pomeriggi lentissimi in veranda:

pensieri, andando adagio, sembrano migliori

(più calmi, in ogni caso, più tondi, più beati):

pensieri in rassegna, pensieri rassegnati.

Pensieri – noi pensiamo – che ha avuto la veranda

nel tempo della storia che è stata la sua vita:

due secoli e mezzo?  tre secoli compiuti?

Neppure chiedendo allo zio padrone di veranda

sapremmo di più attorno alla sua vita:

tutto è remoto attorno alla veranda!

A differenza nostra, però, lo zio sostiene

che stando in silenzio seduti su veranda

(non visti da nessuno se non da noi nipoti)

vengono voci (pianissime, sussurri)

e ad ascoltarle bene dicono qualcosa…

Lui dice che ier l’altro ha inteso chiaramente

“Rimetti a noi i debiti, perdona…”

ed ha risposto per non parer sgarbato

“Come anche noi, vedrai, li rimettiamo…”

Lo zio non chiede mai, ma noi alla veranda

vogliamo un bene difficile da dire.

***

La resina del ciliegio

È piantato in questa piazza un ciliegio   

(ormai, invero, piazza-parcheggio 

da che supermarket funziona):

qui, tra un’auto e l’altra si sente

il vento che arriva, la pioggia se è fresca…

Al ciliegio in verità non bada nessuno:

non le auto in arrivo o partenza

non comari con borse e carrelli

non bambini intenti agli acquisti

neppure, snervati sui camion, gli autisti.

Il ciliegio, se pure attorniato

ogni ora da moti e persone

da rumori da strilli da voci,

sta solitario. Molti anzi non sanno

a dire il vero nemmeno il suo nome;

per loro è una pianta, fastidio

tra un’automobile e l’altra:

alberello-fastidio: attenzione!

Se mai, più accosto al ciliegio,

vedrebbero che il tronco gli cola:

sentirebbero forse che vive

e questo suo sudore che dice “io vivo!”:

si forma in certi punti del fusto,

è colla che profuma in canali,

s’unisce in groppi che si fanno più duri…

È segreto di vita pur parendo tumore.

Contro l’affanno di tutta la gente,

ciliegio lento produce alchimia;

contro la corsa che è supermercato

(corsa ad indurre, corsa a guadagnare),

scorza con antica pazienza di ciliegio

manifesta all’aperto il lavorio;

contro devastazione che vuole novità,

resina, piano, parla in umiltà.

***

Il gatto e la bibbia

Mentre leggo esposto alla finestra

– son libri da leggere all’aperto –  

la bibbia in volume poderoso,

il gatto Puff mi salta sulla sedia,

s’insedia tra la bibbia e le ginocchia.

L’accarezzo e distraggo al tempo stesso:

postura è comoda per lui, per me un po’ meno.

Da qualche settimana navighiamo

– a seconda dei giorni e delle ore – 

da Sansone e Dalila a Tobia

e all’angelo che Tobia rifece sano.

Poi – se vento alla finestra è quello giusto –  

siamo capaci di risalire a Adamo,

di passare ai due fratelli opposti,

di chiederci il perché del contadino

e la ragione contraria del pastore.

Una volta – è accaduto il mese scorso – 

ci fermammo due ore nel deserto:

dopo l’esodo, il mar rosso e la salita

sul Sinai scendevamo trafelati…

Puff lascia spesso qualche pelo:

sulla pagina restano segnali:

son passato di qua, ho traversato

le guerre coi Filistei, la prigionia

in Babilonia, ho letto Salomone…

Se mai ritornerò su questo libro,

ritroverò i segni di lettura:

come un domestico o come un segretario

pensa a lasciare un’orma per la storia…

Mi chiedo talvolta se qualcosa

di ciò che leggo sempre ad alta voce

entri nel gatto, gli resti in qualche modo:

si faccia corpo, se penetri nei sogni,

e, se fosse così, con quale forza

quale séguito avrà nella sua vita…

Bellissimo, è certo, è già che ascolti e volti

il capo ora al libro, a volte verso il vento.

***

Daniele Gorret (Aosta, 1951) ha esordito come narratore nel 1984 con Sopra campagne e acque (Guanda) cui ha fatto seguito una quindicina di testi in prosa tra i quali Avventure di vita e avventure di morte di Silvano Ligéri (Manni,1998), Eventi in un giorno di Emilio Tissot (Mobydick,2000) e la trilogia dedicata al personaggio di Anselmo Secòs: Malattie infantili (Pendragon,2010), Errori giovanili e Disinganni senili (Pequod, 2015 e 2018).

Negli ultimi anni sono apparsi anche i suoi libri in versi fra cui Ballata dei tredici mesi (Garzanti, 2003), Che volto hanno (LietoColle,2011, Premio Il Meleto-Guido Gozzano), Quaranta citazioni per Anselmo Secòs (LietoColle,2015, Premi Carducci e Rubiana-Dino Campana) e Carni (Pequod,2021).

Suoi racconti sono compresi nelle antologie Narratori delle riserve (Feltrinelli,1992) e Racconti italiani del Novecento (Meridiani Mondadori,2001).

È autore di testi teatrali e del radiodramma Due.

Studioso dell’Alfieri cui ha dedicato due saggi.

Intensa la sua attività di traduttore di classici francesi del Sette e del Novecento da Sade a Céline, Gide, Caillois, Malraux, Blanchot.

ANNA K. VALERIO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI GABRIEL DEL SARTO, “SONETTI BIANCHI”, COLLANA PHI.

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ANTONIO FIORI RECENSISCE “SUL BANCO DEI PESCI” DI CARLOTTA CICCI. COLLANA I CODICI DEL ‘900. PREFAZIONE DI ALBERTO BERTONI.

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Antonio Fiori recensisce su ATELIER

Carlotta Cicci

Sul banco dei pesci

Prefazione di Alberto Bertoni

L’arcolaio, 2022

 L’esordiente Carlotta Cicci ha posto tre versi visionari del gallese Kavanagh in apertura di questa raccolta – E Cristo viene/ come un fiore/ di gennaio – fondando così questa poesia sulla sua imprevedibilità, come quell’apparire inatteso di un fiore a gennaio. La scrittura è fortemente metapoetica, continuamente attraversata dalla necessità di dar conto di sé, della sua germinazione, del suo esserci nel dolore, nell’amore, nell’abbandono e nell’oblio. L’autrice è disorientata ma sensibilissima, sente la vita ma sa che la poesia la precede – inseguo vertigini/ come un uccello cieco/ che mangia il vuoto// sono preistoria. Avvertiamo nei testi quasi un travaglio, la fatica che si ripete del vero parto della figlia, a cui Carlotta Cicci dedica la sua silloge – il sangue mi è sfuggito/ tutto è già accaduto/…/ mi lecco le ferite/ chiedo asilo.

L’io è inafferrabile, metamorfico, teso alla pietas ma anche in polemos, tra accettazioni totali e rifiuti radicali. C’è un poeta spettatore (e io che rimango/ immobile a guardare) e un poeta speculatore (esistere a tratti/ prima del mondo/ prima del caos) ; ed ancora, un poeta del corpo – Voglio ballare/ finalmente sudare – e un poeta dell’anima – In attesa del sangue/ reclamo il fondo del lago/…/ la mia anima è svanita/ tra i seni/ nelle città mutilate/ nelle acque mescolate/ in frammenti di stoffe/ e vortici di silenzio.

Alberto Bertoni, nella prefazione, parla di “un libro generoso e multiforme” e spende il nome di Milo De Angelis per porre l’accento “sulla spinta comune all’inclusività e alla multanimità delle prospettive di rappresentazione”, nonostante la differenza di peso e di personalità tra i due poeti; parla di “scrittura istintivamente fenomenologica”, di “metrica flessuosa e flessibile, come un giunco”, di poeta che preferisce alla metafora “una liberissima associatività d’eco surrealista” – spunti molto interessanti, davvero rari per una poesia d’esordio.

Antonio Fiori

.

Testi

Torna un qualunque mattino

batte il fegato del mondo

insopportabile

nessun presagio

sul palmo delle mani

in un passaggio

di vortici e soglie

con l’anima capovolta

in un improvviso odore

di fieno e sale

nel delirio

lei nasce

il suo respiro

come una carezza

assoluta

un suono

piccolo

*

Nei silenzi vicinissimi

ho la bocca macchiata di reato

rigo muri col pollice

scortico tavoli e sedie

mi sposto di continuo

tocco fondi

riemergo.

sola sono tutta mia.

*

Le voci registrate

il suono delle campane

la domenica nei labirinti in fiore

in quei giardini spalancati

tiravo su le pieghe dei vestiti

correvo sulle punte

allontanandomi dal tuo grido

Carlotta Cicci videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato numerosi progetti video e documentari (http://www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.

MARCO FURIA RECENSISCE “L’ARRESTO”, L’ULTIMO LIBRO DI GABRIELE GABBIA. COLLANA L’ARCOLAIO ROSSA DIRETTA DA GIANFRANCO FABBRI.

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Marco Furia recensisce sul blog “Perìgeion” l’ultima silloge di liriche di Gabriele GabbiaL’arresto (L’arcolaio, 2020).

Un non definitivo arresto?

L’arresto, seconda raccolta data alle stampe da Gabriele Gabbia, si presenta quale sequenza di accurate cadenze in cui riflessive immagini si susseguono secondo eleganti ritmi.

Leggo a pagina 20:

“(…)

Poi v’è quel modo

di star dentro alle cose

– di starvi poggiato

fra valichi e case –;”.

Emerge qui, introdotta da tre punti chiusi tra parentesi, una quasi noncurante, sospesa, consapevolezza: stare davvero “dentro le cose” è impresa non sempre facile e, forse, oltre certi limiti, nemmeno possibile.

Non resta, allora, che descrivere

“l’immane

                 movimento della vita”.

Attento a evitare il rischio di chiudersi nella propria esclusiva intimità (i cui esiti espressivi potrebbero risultare alquanto incerti), Gabriele si apre al mondo del consueto, del quotidiano, attento a illuminanti tratti soltanto a prima vista banali:

“Lo stesso sole del cardigan di quel giorno

la stessa tenue, disparata apertura

la stessa distanza di ieri da te”.

Un’“apertura”, pur “tenue”, assume non secondaria valenza: attraverso un piccolo squarcio si può già osservare il mondo.

C’è, poi, la “distanza”, ossia la presa d’atto di un dualismo soggetto-oggetto che, vissuto quale limite, il Nostro forse vorrebbe superare anche correndo il pericolo dell’insuccesso: tuttavia il tono della sequenza sembra tendere a una non del tutto rassegnata accettazione.

Cito, a questo punto, dal singolo componimento il cui titolo è identico a quello dell’intera silloge, i seguenti versi:

“e nessuna parola piú

da pronunziare; solo

un rintocco languido

lento, fino all’arresto […]”.

Ebbene quella “parola”, che, ridotta a “rintocco languido”, non è più capace di proseguire, mi pare potrebbe esprimere una (pur drammatica) difficoltà ma non una definitiva sconfitta: altri linguaggi emergeranno, altri modi di vedere il mondo l’umanità sarà in grado di porre in essere?

Esistono possibili aperture verso territori fisici e idiomatici in cui, senza perdere noi stessi, potremo continuare a vivere?

È questo l’interrogativo che Gabriele con i suoi intensi versi pone: evita di rispondere in maniera esplicita, ma il suo insistere scrivendo suggerisce un senso di non diffidente tensione partecipativa.

L’“arresto” è singolo evento che non esaurisce l’umano divenire?

Impegnarsi al meglio nello stare “dentro le cose” può essere una possibile via d’uscita?

                                                                                                         Marco Furia

PRESENTIAMO QUEST’OGGI LA PRIMA DELLE OFFERTE DEDICATE AGLI AFFEZIONATI LETTORI DE L’ARCOLAIO. A CADENZA TRIMESTRALE PROPORREMO UN CERTO NUMERO DI LIBRI IN VENDITA A PREZZI SPECIALI.

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L’arcolaio, nel gratificare i propri lettori, ha pensato di promuovere, con cadenza trimestrale, alcune campagne di sconti, con lo scopo di facilitare la fruizione dei nostri prodotti editoriali. Di trimestre in trimestre, la casa editrice avrà modo di fare un giro di proposte a 360 gradi su tutto il catalogo.

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LEGENDA A COLORI:

Nome poeta rosso

titolo verde

prezzo cop. giallo

quantità disponibile blu

prezzo scontato arancione

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Andrea Leone Hohenstaufen 8,00 euro 20 4,00 euro

Fabio Michieli Dire 12,00 euro 17 6,00 euro

Simone Consorti Le ore del terrore 12,00 euro 15 6,00 euro

Rossella Renzi Il seme del giorno 11,00 euro 9 5,00 euro

Damiano Sinfonico Storie 10,000 euro 5 5,00 euro

Damiano Sinfonico Lingualuce 10,00 euro 3 5,00 euro

Massimiliano Aravecchia La valigia e il nome 11,00 euro 5 6,00 euro

Tonino Vaan Cosmesi 11,00 euro 23 5,00 euro

Antonio Pibiri Chiaro di terra 11,00 euro 12 6,00 euro

Giampaolo De Pietro Abbonati al programma delle nuvole 12,00 euro 6 6,00 euro

Maurizio Landini Hoplon 12,00 euro 19 6 ,00 euro

Andrea Italiano La coca 8,00 euro 19 4,00 euro

Yari Bernasconi Cinque cartoline dal fronte 6,00 euro 10 4,00 euro

Luciano Neri Discorso a due 10,00 euro 14 5,00 euro

Fabio Pusterla Truganini 7,00 euro 29 4,00 euro

Marilena Renda Fate Morgane 7,00 euro 5 4,00 euro

Francesco Scarabicchi Via crucis 6,00 euro 7 4,00 euro

MARCO ERCOLANI RECENSISCE “L’ARRESTO”, L’ULTIMO LIBRO DI GABRIELE GABBIA. COLLANA L’ARCOLAIO ROSSA.

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Marco Ercolani recensisce sul Suo blog “Scritture” l’ultima silloge di liriche di

Gabriele GabbiaL’arresto (L’arcolaio, 2020).

La lezione di Ernst Meister («…Si serra / a me e a te la fine…») innerva la poesia di Gabriele Gabbia, in questo libro petroso ed ellittico incorniciato dalla prefazione di Giancarlo Pontiggia e dalla postfazione di Flavio Ermini. Il lettore può usare, come guida alla lettura, il verso di Mario Benedetti, una delle tre epigrafi al libro: «…che tutto sia per la fine». Ma questa realtà “per la fine” è articolata da Gabriele Gabbia attraverso poesie filosofiche fissate in soprassalti psichici che evocano i sursauts beckettiani. Il poeta si ausculta al limite di un tacere assoluto, di un naufragio senza ritorno. «Dal suo tentativo, l’equilibrio / non perde l’abisso / cui è attratto; rattratto / eccede — aggetta, si muove / alla luce dell’ombra, ove / precipuamente si centra: librato». Come l’equilibrio non perde l’abisso, è vero anche il contrario: che l’abisso esige la sua misura, la vertigine del maelström — il suo naturale punto di quiete. «La parola che scardina / e rimuove redime» è un “segreto” manifesto di poetica.

Scrive Pontiggia: «Un canto segnato fin dalla poesia liminare come scoperta della “tragicità del vero”». Gli fa eco Ermini: «La legge della grande esistenza – propria degli antichi viventi – è tragica, arreca l’arresto, ma un arresto in cui finalmente si compie il senso della vita». Gabbia si esprime trattenendo la voce, togliendo enfasi a ogni logica poetica, realizzando un libro laconico e prismatico che irradia un’angoscia spoglia di echi biografici ma vibrante di vacillamenti cioraniani. Tutto si è già compiuto e ai superstiti non resta che fare arpeggi fra le rovine. Questi “arpeggi” sono “l’arresto” dal quale, nel buio, con voce fioca, il poeta riprincipia a parlare.

Marco Ercolani

SU UNIVERSO POESIE-STRISCIA ROSSA, MATTEO FANTUZZI RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI GABRIEL DEL SARTO, “SONETTI BIANCHI”. COLLANA PHI.

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Una considerazione di Matteo Fantuzzi su Sonetti Bianchi, il libro di Gabriel Del Sarto inserito anche in una temperie politica. Blog UNIVERSOPOESIA-STRISCIAROSSA

La campagna elettorale, si sa, è qualcosa di meraviglioso: mentre dovremmo usare il modo di portare le nostre menti più illuminate all’interno del Parlamento per discutere (ad esempio) della crisi economica, dei conflitti bellici a pochi passi da casa nostre, delle bollette di luce e gas sempre più alte che portano i nostri esercizi di prossimità a chiudere, del conseguente aumento delle materie prime che sta portando in ginocchio buona parte delle famiglie italiane… in tutto questo qualcuno trova il tempo per concentrarsi, bontà sua, su un cartone animato.

Peppa Pig, Lincoln Loud e Fratelli d’Italia

Peppa Pig è il responsabile cultura di Fratelli d’Italia che si accorge solo adesso della presenza del personaggio di Penny Polar Bear all’interno del celeberrimo Peppa Pig. Penny Polar Bear è a scuola con la maialina e un giorno in classe disegna la propria famiglia seduta nella propria cucina intenta a mangiare spaghetti. Penny Polar Bear, dice, vive con la sua mamma e l’altra sua mamma (così si presenta alla classe): una è un dottore e l’altra cucina spaghetti. Apriti cielo. Viene intimato alla Rai di non trasmettere l’episodio, ad oggi non ancora andato in onda sul canale tematico Rai Yoyo, destinato a un pubblico all’incirca tra i 4 e i 7 anni.

Richiesta folle, nessun elemento disturbante, nessun punto di vista deviato: una famiglia mangia spaghetti. Ma se questa e le altre persone trascorressero un poco di tempo con i loro piccoli cari probabilmente non si sarebbero sorpresi così tanto, perché da molti anni un cartone racconta una famiglia simile. Sono Howard e Harold McBride che compaiono nella serie di Nickelodeon The Loud House, in Italia tradotta come “A casa dei Loud”. Sono i genitori (gentili, sorridenti, amorevoli) di Clyde, il migliore amico di Lincoln Loud, protagonista del cartone: sono due papà e uno dei due è “addirittura” di colore. Apriti cielo.

Sonetti bianchi”: tra inclusione ed esclusione

In questa memorabile campagna elettorale dovremmo forse lanciare un segnale e decidere se vogliamo sostenere chi vuole includere o chi vuole escludere. Perché se decidiamo che solo un tipo di identità e una sorta di perfezione ideale è valida, allora chiunque si distacca da questa narrazione e da questa identità deve essere perseguito. E non è semplice andare contro una società ipocrita e perbenista fatta di virtù pubblica (e magari altro nel privato), ma è possibile se si decide di includere ancora una volta lo “straniero” inteso come estraneo, cioè lateralmente qualcosa di differente da quello che si è, per identità, colore della pelle, orientamento, religione, fino alle condizioni fisiche e di salute.

E in questo senso credo che sia splendido concludere con questa prosa poetica contenuta nell’ultimo libro di Gabriel Del Sarto, Sonetti bianchi. In questo libro l’autore accoglie (nel senso lato del termine) un figlio, Giona, che aveva due possibili destini, non nascere o essere considerato speciale. Essere considerato. Da una società orientata verso la “normalità” e che non considera tutta una serie di persone che per mille motivi vivono in maniera differente e che non per questo hanno meno bisogno di quella serenità di fondo che dovrebbe essere alla base di ogni nostra convivenza.

[[[Una prospettiva di vita con te. Ci ho pensato la prima volta quando avevi due mesi. Un tramonto di settembre, la vista dalla porta-finestra del terrazzo sulla vallata arrossata. Ti fissavo tenendoti stretto a me, una specie di fascia-marsupio. C’era una musica e roteavo nella stanza. Anche tu, ne sono ancora convinto, mentre mi fissavi ti sei commosso, forse a causa di quei neuroni che si attivano per imitazione. Pensai: ho sempre molte cose da fare, due o tre lavori per riuscire a tirar su gli altri e adesso anche te, le mie vicissitudini e qualche altro progetto effimero. Ci stavo girando attorno. Sapevo e so che tutto nasce quando provi a immaginare il futuro, il mondo fra pochi anni, un decennio o poco più. Il 2030 appare lontano e buio. Tu, Giona, ci sarai? Sarebbe importante saperlo mentre immagino allevamenti di cellule bioniche, l’industria delle nanotecnologie, gli innesti che potenzieranno i più ricchi di noi senza dolore. Sì, sarebbe importante mentre osservo con sgomento il presente di una guerra carsica, che ogni tanto appare in superficie nella forma di guerriglie regionali improvvise, causate da un dio o da giacimenti di litio, dai mercati o da rivendicazioni piccolo-nazionalistiche. Episodi di un conflitto su vasta scala.

Ti lancio qualcosa, sembra un grido senza voce, sembra un’onda senza ragione.

Ti lancio qualcosa, non è di metallo e ha un sapore sconosciuto, una natura cosmica.]]]

Ecco oggi come sempre il problema non è la definizione di normalità, ma quello che anche politicamente si decide di portare avanti, inclusione o esclusione. Anche su questo saremo portati a decidere in questi giorni.

Gabriel Del Sarto, Sonetti bianchi, L’arcolaio 2022.

UNA NUOVA ENTRATA IN CASA ARCOLAIO. E’ ODDO MANTOVANI CON IL SUO NUOVO LIBRO, INTITOLATO “55 POESIE PIU’ UNA”. COLLANA L’ARCOLAIO GIALLA.

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ODDO MANTOVANI – “55 POESIE PIU’ UNA” – COLLANA L’ARCOLAIO GIALLA.

Un nuovo autore viene a far parte della “scuderia” de L’arcolaio. Si tratta di Oddo Mantovani, un autore marchigiano, dal passato molto ricco di esperienze culturali. Ricco innanzitutto di vasta e ineccepibile cultura umanistica: studente a Roma, dove ha conosciuto importanti letterati e poeti dell’epoca. Primo fra tutti, Pier Paolo Pasolini, che volle pubblicare alcune delle sue prime poesie nella prestigiosa rivista “Nuovi Argomenti”. Docente di greco e latino, successivamente, nella sua amata regione. E’ apprezzato da diversi poeti delle ultime generazioni, tra i quali Michele Bordoni ed Emanuele Franceschetti. Il dettato di Oddo è classico novecentesco, pulito e teso come una corda di violino. Un dettato elegante che sarà di esempio a chi vorrà mantenere il verso italiano nel suo giusto valore.

Ma dirà meglio di noi Mirella Vercelli, l’autrice della bella prefazione al libro.

Seguiranno poi alcuni testi.

Buona lettura.

****

Oddo Mantovani: certo uno sconosciuto ai più, nella magmatica attualità letteraria del nostro paese, ma non per chi ha avuto la ventura di leggere qualcuno dei suoi precedenti lavori: 

Lettera di classe, La morte di Amleto, Dopo cena, I Sette, Personae, e per i pochi amici che hanno condiviso negli anni la frequentazione dei suoi versi. Indifferente alle dinamiche editoriali, scevro da ammiccamenti o esplicite adesioni alle varie mode letterarie, raccolto anzi in una difesa attenta della propria unicità, intimo di pochi. Figlio della provincia sa però maturare frutti di universale dolcezza e consistenza.

Questa è la prima raccolta poetica che l’autore si e ci con-cede, dopo che assaggi di giovanili composizioni erano stati ospitati in riviste prestigiose, come La Fiera Letteraria, nel 1965 e, per interessamento di Pier Paolo Pasolini in Nuovi Argomenti, nel 1968. Si tratta quindi di un amore coltivato in tutte le stagioni della vita. Ne sarebbe potuto derivare un volume ben più corposo, ecco invece una raccolta sobria, forse eccessivamente esigua, pulita nel dettato, sincera nel dire.  In questi versi la vita si è venuta dipanando all’interno di una esperienza personale e umana acquisita con estrema consapevolezza, narrata senza enfasi o compiacimenti. L’ordine dei componimenti non è strettamente cronologico, pur compresi in un arco dai primissimi anni Sessanta sino al 1986, ma asseconda il volgere del processo esistenziale. I temi affrontati sono quelli su cui si interroga l’uomo, e con maggiore puntiglio il poeta, dall’alba della Storia: la solitudine: “Ogni nuovo mattino/mi risveglio so-lo”;  l’amore, in versi di luce abbaglianti : “Presto affonderò nel mare del tuo corpo”, “Abito giorni di luce e sono cieco”, “Sempre mi sei sospiro nelle sere”;  il trascorrere inesorabile del tempo, che consuma stagioni;  “il disperso andare” del ragazzo che non sa “nulla del cielo” e pure lungo il “sentiero celeste” che forse è la terra riesce a vivere istanti di pienezza di “grazia”, “di tranquillo vigore”. Ma quando si arriva al punto che “anche la primavera sa di autunno”, ecco affacciarsi il pensiero della morte, nascosta dietro ad “ogni incantamento”; la parola, forse rivolta male, al Dio cui si chiede perché “non scese, non scende/senza darsi la croce, né darla”. Il compito del poeta è tutto nel porre le domande essenziali, non nel fornire risposte: l’autore si arrende al dubbio che la parola non sappia procedere oltre “il guscio delle cose”, la vita rimane in definitiva “inesplorata” e benché ne insegua una definizione nei libri “tutto resta ignoto”.

I libri: i libri sono stati il sostegno intorno a cui si è avviluppato il giovane stelo del poeta, studente nella capitale, e l’elemento da cui hanno tratto linfa in seguito il professore di ginnasio e liceo, e l’uomo: “Per definirmi fuggo coi libri”. Spesso si tratta di classici: Marco Aurelio, o l’amata Iliade, più e più volte visitati, negli snodi cruciali dello smarrimento del vivere, e ripresi nel tempo in cui ci si scopre orfani di parole, di fronte alla “vita che scorre e tutto passa: “ho sempre saputo, ma altrove volgevo…”. Un atto di dolore al cospetto del tempo, che come naturale chiede i suoi conti, così duri da spingere il poeta ad esclamare: “Ci sarebbe da morire prima ancora/di scoprire che si nasce per morire”. E forse è naturale che in questo frangente dell’esistenza, il lettore appassionato e colto, lo studioso, l’uomo di lettere, si rivolga alla poesia per definire i suoi pensieri, come all’arte che, sfrondata la vicenda umana di ogni inutile orpello, la restituisce nella sua scarna, essenziale ossatura. Il verso è misurato, esatto, “classico” nel solco della tradizione che nella nostra letteratura si usa far risalire al Petrarca; procede “per rivelazioni”, per successive acquisizioni, con una perentorietà, a volte, quasi epigrammatica. Si ravvisano echi montaliani: “Tu non sai che sovente t’immergi”, e leopardiani, in slarghi dove pur nell’amarezza di una rivelazione si apre il cuore: “senza paura guardi la fanciulla/che alla campagna lieve danza accenna/con la chioma che scende che la culla”. E con emozione si affaccia alla mente un altro grande marchigiano, Francesco Scarabicchi: entrambi accomunati dagli endecasillabi perfetti, dalla malinconica vaghezza, da un essere accorati senza disperazione: “come dire che tutto è trasparenze/si va per l’aria e non si ha figura”.

Anche nei versi del Mantovani si esprime lirismo mai ammiccante al sentimentalismo, ricerca estrema di purezza, trasparenza non solo dello stile ma dell’umano esistere; cri-stallina consapevolezza dell’essere, delle sue forme e dei limiti, percorsi con humanitas da una mano che non teme la ruvidezza dei labbri della ferita sotto le dita. In queste note va riconosciuta la “classicità” dello stile, le “buone cose” che nella loro lunga, alta tradizione sembrano nei versi dell’autore vestire abiti nuovi: accantonate come desuete da certe tendenze al modernismo esasperato le parole riacquistano la freschezza di un vocabolario al quale non si era più abituati. Questa è anche la ragione di esistere e proporsi di questi versi, nel mare magnum della produzione attuale, timbro di una voce che non senza titubanze si è finalmente accordata al coro della Poesia universale. Noi, che ne ascoltiamo la vibrazione da sempre, ringraziamo l’Editore per averla accolta, randagia, e la scrivente, in particolare, rin-grazia senza fine l’autore che l’ha voluta, senza che ne avesse alcun titolo, madrina di questo battesimo.

Mirella Vercelli

****

Io so che sotterra il poeta
sarà un bruco che ritrova i suoi sogni,
l’avvertita chimera che divise
il sole dalle croci, ed anche
il privato natale, allora sfuggente
con le stelle filanti di tutti
quei lumi senza eternità.

so pure la scintilla che riporta
al teschio il mirabile occhio
che un tempo posava sui greti
del cuore i sogni di velluto.

e so che le ossa arse e discese
accanto a radici frementi
avranno gemiti amati dal dio.

****

Pietà

Ogni nuovo mattino

mi risveglio solo

ed il giorno eguale

lo scopro con lo stesso

amaro e dolce rito

Leggo una poesia

pensando a mia madre che mi guarda

con la tristezza che si ha per chi

si perde in vane cose

Vado nelle vie

con gli amici o con la donna al fianco

promessa in un domani –

****

Presto affonderò nel mare del tuo corpo

e come Nettuno col tridente

soffierò tempeste e stenderò la calma:

e tu con lieta scia

andrai e verrai placando l’onde sulla mia riva.

Ascolterò il frusciar dell’acqua:

sarà una carezza, un tuo sospiro,

e sotto il sole, nel tuo profondo chiaro,

agile guizzerò come un pesce d’oro.

Tu gorgoglierai, acqua salata,

e il tuo rabbrividir in superficie

farà salire tante bolle azzurre.

****

Se a ciascuno il dio fosse Dio,

perché in codesto confuso

pianeta di anime irrise, irridenti,

non scese, non scende

senza darsi la croce, né darla?

****

Ho ripreso in mano Marco Aurelio.

Quante volte ho letto i suoi pensieri

e ogni volta mi son visto nulla

e poi, più forte, ho creduto in me.

Non so che dire, e sono vecchio,

di questa vita che scorre e tutto passa.

Di me so solo che mi volevo buono,

ma venne vanità e il cuore ebbe

vani sussulti e orizzonti bassi.

Mi dico che anch’io ho dato amore,

ma n’ebbi troppo immeritato in dono:

alla mia anima ho dato un nutrimento

diverso da quello che sognavo;

della giovinezza che ho vissuto

restano fogli tristi d’ambizione,

e non consola dare a quell’errore

il riparo degli anni inconsapevoli.

Da adulto ho continuato a riempire

fogli su fogli d’inchiostro creduto

la voce d’un dio, d’una musa segreta,

e andavano gli anni e i cassetti ricolmi

in me li sognavo forzieri preziosi.

Se a volte una voce diceva: Sii buono

le rispondevo Perché non lo sono?

Ho sempre saputo, ma altrove volgevo…

****

Nota bio-bibliografica.

Oddo Mantovani è nato nel 1942 a Montegranaro, una cittadina delle Marche non lontana dal mare e non lontana dai monti; abita lì da sempre. Ha insegnato italiano, latino e greco nei licei. Ha scritto versi sin dagli anni del collegio, abitudine mai del tutto abbandonata. Ha osato anche la prosa: I sette, Lettera di classe, La morte di Amleto, Dopo cena, Personae. Affronta la vecchiaia con la lettura, sempre nella speranza che serva.

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