Home

IL 2017 SI CHIUDE CON IL NUOVO LIBRO DI DAMIANO SINFONICO: “LINGUA LUCE”. TEMPO DI RITORNI.”

2 commenti

 

 

Torna in Arcolaio anche il nostro Damiano Sinfonico. Dopo il felice esordio con  “Storie“, è la volta adesso di “Lingualuce“, pubblicato nella collana “I codici del ‘900”. Il nuovo progetto è una breve ma elegante silloge risultata finalista al premio Rimini di quest’anno. Nello specifico, Damiano, con il suo nuovo libro, è stato preferito dalla giuria dei giovani studenti riminesi. Un ottimo piazzamento che illumina il percorso verso l’affermazione definitiva. Pubblichiamo qui sotto alcuni testi tratti da “Lingualuce“.

Buona lettura!

Dalla sezioneOrbite

È accaduto un pomeriggio al museo.

Poi abbiamo tardato prima di rincasare

faceva freddo, il cielo coperto.

Nei dintorni c’era un ristorante malconcio

ci siamo seduti a un tavolo, come a bordo vasca

le nostre ombre friggevano sul piatto.

***

Dalla sezioneCome si dice

“Come si dice”, mi chiedono i miei studenti.

Si è in cerca dell’espressione adeguata

perché una lingua ha molti rami

su uno solo è preferibile poggiare.

È la domanda che si fanno i poeti

fra le parole, trovare la parola giusta

che faccia vedere mentre la pronunci.

E penso a chi ha perso la facoltà del linguaggio

o non l’ha mai curata

muto come un pesce o balbettante

perse anche le cose da dire.

“Come si dice”, mi chiedono i miei studenti.

Le connessioni schioccano nella mente

la traduzione mi manca

come vedere oltre un vetro

e non poter portare quella cosa di qua.

“Come si dice” vorremmo sapere

nonostante i silenzi

tutto questo che ci parla.

***

La tua foto ritrovata:

calorosa nel tuo cappotto verde,

paffuta come un’oca di Walt Disney.

Credevo che non ci saremmo più rivisti

ora che ti esprimi nella tua lingua

con il tuo accento inconfondibile

impresso nel mio orecchio.

***

Dalla sezioneCase

Nebbia sulla strada del ritorno
una, due macchine, un muro bianco
la vallata ricoperta
siamo scesi piano.
I tornanti ripetevano lo stesso moto

poi le indicazioni imprecise:

svoltate dopo la casa con le persiane rosse
attraversate il ponticello e proseguite.
Ci siamo persi a un certo punto.
Nessuno sapeva l’indirizzo.
Inutile il navigatore

abbiamo chiesto a un passante

ci ha detto di tornare indietro

di percorrere altre strade.

Abbiamo seguito i suoi consigli

una canzone gracchiava alla radio

ci ammoniva il suo ritornello

andate piano, rallentate, ricominciate.

 

 

 

 

IL PENULTIMO LIBRO DELL’ANNO 2017: “LE ORE DEL TERRORE” DI SIMONE CONSORTI.

Lascia un commento

 

Torna in Casa Arcolaio il romano Simone Consorti. Un piacevole ritorno, benissimo spiegato da Anna Maria Curci nella sua impeccabile e articolatissima prefazione. Postiamo, qui di seguito, la prima parte di questa analisi critica che nulla lascia insoluto nelle motivazioni d’essere della scrittura di Consorti, così divisa – come accenna la Curci stessa – tra estasi e ironia.

 

Buona lettura!

Una prima poesia di Simone Consorti tratta dalla sezione

Le ore del terrore

Alla frontiera

La guardia di frontiera

ha detto che non sono io

e che neppure mi assomiglio

tantomeno mi potrei spacciare

per mio padre o per mio figlio

Mi intima di restare fermo

e per convincermi

mi mostra uno schermo

che qui chiamano specchio

Gli altri passano e mi guardano

facendo di no con la testa

Devo essere una brutta persona

se sono l’unico che resta

Mi studio di nuovo sul mio documento

ma la guardia mi spiega che è vecchio

e lo straccia

fissandomi con la mia faccia

***

 La prima parte dell’intervento di Anna Maria Curci:

La poesia di Simone Consorti è poesia dotata di grammatica e di struttura rigorose nel gioco serissimo di rime e di sberleffi, di citazioni e di osservazioni lasciate e lanciate, sassi nello stagno e sassi a memoria, con apparente noncuranza. È un tratto che unisce sapienza (e se non certo la sapienza dei libri sapienziali, senz’altro quella delle scritture smascherate e spogliate di intenti manipolatori e di controllo) e creatività. Sapienza e creatività duettano anche in questa raccolta, spogliate, non francescanamente, ma con un understatement intenzionale e irridente, di qualsiasi retorica, e per questo ancora più incisive.

Sono testi nei quali Consorti fa conversare la “grammatica della fantasia” di Rodari con lo spiazzamento elevato a metodo di conoscenza, lo spiazzamento perseguito e realizzato magistralmente da autori svizzeri di lingua tedesca, Friedrich Dürrenmatt in primis, con il suo rovesciamento di miti, eroi e credenze – La morte della Pizia, Il Minotauro –, e, accanto a Dürrenmatt, Peter Bichsel e Hugo Loetscher, narratori sublimi di aneliti e piccoli tragicomici fraintendimenti quotidiani l’uno, esploratori dell’ignobile e ineludibile sostrato dell’esistenza –  si pensi a L’ispettore delle fogne – l’altro). Di Dürrenmatt e Loetscher, poi, va menzionata in questa cornice di familiarità anche la produzione in versi: penso, in particolare, a passaggi di Salmo svizzero dell’uno e alla poesia Abbraccio dell’altro, testi che possono essere letti in traduzione italiana nell’antologia pubblicata da Crocetti nel 2013 e curata da Annarosa Zweifel Azzone Cento anni di poesia nella Svizzera tedesca.

Simone Consorti opta per un dettato comprensibile, smussa le punte, o meglio cela asperità e rudezze di storie e luoghi dietro un fluire piano, senza tumulti, con la grazia immediata di un nursery rhyme. Solo che il suo rovesciamento in “Nursery Cryme”, per dirla con il titolo di un celebre album dei Genesis, attende al varco, dopo essersi appostato tra le pieghe dei singoli versi, per manifestarsi apertamente nella chiusa. Questa, a sua volta, invita a ripercorrere l’intero testo di ogni componimento, perché fa luce su ulteriori possibili sentieri interpretativi. È il caso, per fornire un esempio concreto, proprio della prima poesia della raccolta, Alla frontiera, che accoglie termini ricorrenti, lo specchio, il volto, lo schermo, la curiosità tanto morbosa quanto volatile e volubile degli altri, l’estraneità: « La guardia di frontiera / ha detto che non sono io / e che nemmeno mi assomiglio / tanto meno mi potrei spacciare / per mio padre o per mio figlio / Mi intima di restare fermo / e per convincermi / mi mostra uno schermo / che qui chiamano specchio / Gli altri passano e mi guardano / facendo di no con la testa / Devo essere una brutta persona / se sono l’unico che resta / Mi studio di nuovo sul mio documento / ma la guardia mi spiega che è vecchio / e lo straccia /  fissandomi con la mia faccia».

[…]

***

Altre poesie di Simone Consorti:

 

Dalla sezione: Preghiere e bestemmie sincere

Un cero per Hitler

Se i miei non si fossero incontrati

in quel campo di sterminio

non sarei nato io

il merito è tutto di Hitler e di Dio

Per questo tengo accanto al letto

i loro quadri

Uno con la barba bianca e l’altro i baffi

Tutt’e due decisi

dal buio del loro covo

a dar vita a un mondo nuovo

Mio padre non l’ho mai conosciuto

ma me lo immagino un po’ come entrambi

ambizioso e vendicativo

sicuro di sé e terribile

Tutt’intorno era un eccidio

nessun uomo era più vivo

mentre lui si dedicava con fiducia

allo stupro collettivo

 

***

Dalla sezioneSpoon River Italia

                                                              Dormiunt vigilant                                                                  

 I.

 

Fortuna che i morti non piangono più

perché c’è da sbellicarsi dalle lacrime

per quello che hanno fatto i miei compagni

Si son messi a raccogliere firme

per far tagliare il platano

su cui mi sono sfracellato

Quello e tutti gli altri del filare

sulla petizione li chiamano

platani assassini

e parlano di asfalto stradale

deformato dalle loro radici

Il punto è che non sono stati gli alberi

a venirmi addosso

a centocinquanta all’ora

Ero già fuori di me

quando sono andato fuori strada

Laura non si era presentata

al nostro appuntamento

e mia madre non voleva continuare

con la chemio di mantenimento

così in quel bar ho preso a bere

tutto quello che finiva nel bicchiere

Ero solo come non sarò mai più

tornando a casa

In più ascoltavo i Nirvana

In ogni caso ora che sapete

il perché e il come

nessuno si azzardi ad abbattere

anche un solo platano in mio nome

 

 

 

VALERIA SEROFILLI RECENSISCE IL NUOVO LIBRO DI DOMENICO CIPRIANO, “L’ORIGINE”.

Lascia un commento

 

Nota di lettura al volume L’Origine ( Arcolaio, Forlì 2017)

di Domenico Cipriano

Pubblicato nel blog “Alla volta di Leucade

 

“L’origine”, la nuova raccolta matura e solida dello scrittore irpino Domenico Cipriano, edita da Arcolaio di Forlimpopoli, inaugura la Collana  Φ diretta da Gianluca D’Andrea e Diego Conticello.

Ben lungi dall’essere un consuntivo letterario ed esistenziale (anche considerando la giovane età dell’autore), “L’Origine” ė tuttavia un momento di riflessione, una sorta di pausa lungo il cammino in cui l’occhio, pur essendo rivolto in avanti, in realtà guarda all’indietro, o meglio ad un bivio ideale in cui passato e presente si incontrano e si confrontano.

La scrittura di Cipriano è precisa e chiara. Non ama le metafore astratte e impalpabili, preferisce i dati, perfino i numeri, le date, gli anni. Un modo per confrontare passato e presente, i vivi e i morti, l’origine e la fine. Anche le citazioni e le epigrafi sono orientate a questo scopo: si parla del mistero della vita, della lotta di chi sopravvive, della pace riservata solamente a chi è morto.

Cipriano conduce il lettore a seguirlo in questa sua escursione attraverso il tempo e attraverso il modo di sentire.

Recita la lirica posta ad esergo della raccolta, a cui il corsivo conferisce particolare rilievo quale fosse una sorta di voce interiore:

 

Io sono 

tutte le terre che ho visitato 

anche se da una sola 

ho preso vita. 

 Lì 

è rimasta ferma una ferita 

per ogni passo 

trascinato stanco 

per ogni sguardo 

che non mi riconosce. 

E sono tanti i segni sul mio corpo 

che ha tracciato la poesia 

di chi 

non ha più un luogo 

e chiede asilo.

 

Anche il ritmo dell’ascolto è suggerito, anzi indicato, con riferimenti a brani musicali puntualmente annotati ad ogni capitolo.

Si parte da considerazioni ab ovo, sulla origine del mondo, e si arriva a temi attuali, cari all’autore e alle tematiche che gli sono proprie.

La sofferenza dell’uomo schiacciato dalla sorte, dal destino, quello che umilia gli ultimi, i più fragili.

Non è indicata una soluzione né uno sbocco, una via di uscita. Si parla della tenacia, della vita quotidiana, quella di eroi senza nome, sconosciuti, quelli che combattono per la dignità e per la sopravvivenza.

Un libro intenso, che costuitisce un ulteriore passo dell’autore sulla strada coerente dei temi a lui cari di impegno e di riflessione sulla società e sull’individualità dell’uomo.

 

Valeria Serofilli

 

 

LA NUOVA TRADUZIONE DI LORENZO MARI: DA “IL SOGNO D’INVERNO DELL’ARCHITETTO” DELL’IRLANDESE BILLY RAMSELL

1 commento

 

E’ uscito da qualche giorno il libro di Billy Ramsell, irlandese già affermato nel mondo anglo-sassone. Il titolo italiano del suo ultimo progetto è: “Il sogno d’inverno dell’architetto“. Pubblichiamo, in questa sede, parte della ineccepibile prefazione di Alberto Masala. Come già affermato, la traduzione è stata curata dal nostro Lorenzo Mari.

Buona lettura!

Il sogno d’inverno dell’architetto” di Billy Ramsell

Sono certo di non pronunciare blasfemie se qui scrivo che, almeno nel mondo occidentale, il peggiore e più rovinoso motore d’indifferenza nei confronti della poesia è alimentato in maniera non trascurabile dalla pesante inerzia del rapporto con una tradizione talmente stracolma di sé da lasciar colare nella realtà solo pochi rivoli, incostanti e sottili, che si disseccano nel proprio corso senza nemmeno ottenere di var-care la diga delle Accademie.

Parallelamente, ma sul fronte completamente opposto, diventerebbe impresa ardua e patetica, oltre che inutile e ridicola, cercare di ‘proteggere’ la letteratura e le sue lingue dell’abbattersi nella direzione verso il non-luogo grigio dei clichés, l’appiattimento dei media, la violenza dei social media, l’umiliazione predatoria dei processi commerciali.

Lì dove il consenso si crea, il banale, la vendibilità e il consumo hanno giurisdizione incontrastata.

 

Perché parlando della poesia di Billy Ramsell parto da queste ovvie (lo so, ma è bene ricordarlo) e scontate considerazioni?

Proprio perché estrae dal flusso del contemporaneo la molteplice lingua dell’anomalia, la ricrea con sempre nuove lacerazioni, la sospinge in forme fuori da ogni serialità, sia passata sia attuale. Billy Ramsell dimostra che l’unica lingua capace di dialogare col presente viene dalla percezione attiva dell’esperienza esistenziale, ma lasciando anche intuire di non voler rinunciare allo sguardo sulla memoria. Niente del presente è vietato, impedito, omesso. Ogni linguaggio, ogni significato, perfino il più basico e ‘semplice’, può essere am- messo alla scena della poesia. Solo così, infatti, sarà dimen- sionato alla propria funzionalità profonda, smontato e sottratto alla claustrofobica abitudine ‘di servizio’, crudamente ricondotto a quello che davvero è: essere lingua, evocare, dire ciò che nella realtà dice.

(…)

È poesia antagonista. È sfida individuale contro la distorsione e lo svilimento dell’umano. È ‘guerriglia verde’ contro i congegni che stanno inghiottendo i nostri segreti più intimi. È metafora di un mondo sovraccarico, stipato di cose e sempre su almeno due piani. Dichiara il rapporto tra mercato e natura in un insieme non più definibile. Descrive le gradazioni di un’antropologia della comunicazione dove ogni sog- getto conduce il gioco a pari dignità e con scambio di ruolo con l’oggetto. E quanta ironia, acuta e sfrontata, sull’insignificanza della forma! La Poesia Non Vista ne resta modello eccellente.

Chi ama la poesia aprirà questo libro, ne sarà avvolto, trasportato, finalmente trascinato e, anche se, forse infettato da qualche bug, cercasse di attivare le proprie psicoresistenze, non vorrà più retrocedere. Un Server protetto lo muterà in architetto per accompagnarlo fino all’inverno, dove si troverà davanti a Una fame di grandi sistemi in arrivo.

ALBERTO MASALA

Una poesia nella versione testo a fronte:

 

Sunday The Ivory Tower

 

Gubbeen, incarnadined port, and a few tables away the chef.

Midnight finds his waiter and his porter gone an age ago.

We rubberneck at how for supper he’s just fixed himself

some breadsticks, boiled potatoes, a greyish gruel or goo,

 

he who’d dazed us, who’d brought our palettes to the very edge,

sorbet by seaweed, of a spasming happy spentness.

After gigs T. Monk would sit in silence for hours on the stage.

Trapped colours throbbing in his strings. Feel the pent keys’ tension.

 

Monday Triskel Arts Centre

 

This piano speaks the language of your skin.

Space. Vibration. Space. Triplets’ slow ascent.

Then space and then glissando all insist on

its coolness in the morning and its scent.

 

To the chin-fingering, studiedly attentive pews

the piano says: There are channels in the city of Autumn

where the river’s epidermis shows such poise

the fireflies will clone themselves in soundless ebony water.

 

***

Domenica The Ivory Tower

 

Gubbeen[1], un porto sul vermiglio, e lo chef a qualche tavolo da noi.

Mezzanotte trova il cameriere e l’usciere andati già da un secolo.

Ci dilunghiamo sul fatto che per cena lui abbia appena rimediato

qualche grissino, patate bollite, un porridge o un intruglio grigiastro,

 

lui che ci ha stordito, che ha spinto le nostre palette verso l’apice,

sorbetto d’alga, di una spasmodica gigiona sazietà.

Dopo i concerti T. Monk sedeva per ore in silenzio sul palco.

Colori intrappolati a vibrare nelle sue corde. Senti le chiavi represse,

[la loro tensione.

 

Lunedì Triskel Arts Centre

 

Questo pianoforte parla il linguaggio della tua pelle.

Spazio. Vibrazione. Spazio. Lenta ascesa terzinata.

Poi spazio e poi glissando a insistere tutti

sulla sua freschezza al mattino e sul suo profumo.

 

Alle bancate che si toccano il mento, in una studiata attenzione

il piano dice: Ci sono canali nella città d’Autunno

dove l’epidermide del fiume mostra un tale portamento

che le lucciole arriveranno a clonazione in una silente acqua d’ebano.

[1] Il gubbeen è un tipo di formaggio semi-morbido originario della contea irlandese di Cork [n.d.T.].

L’EVENTO: L’ARCOLAIO OSPITA LA COLLANA Φ DIRETTA DA GIANLUCA D’ANDREA E DIEGO CONTICELLO. L’ESORDIO E’ ALL’INSEGNA DE “L’ORIGINE” DELL’ECCELLENTE DOMENICO CIPRIANO.

Lascia un commento

 

 

LA COLLANA Φ E’ UN PROGETTO IDEATO DAI POETI GIANLUCA D’ANDREA E DIEGO CONTICELLO E ACCOLTO CON ENTUSIASMO DA L’ARCOLAIO, LA CASA EDITRICE CHE NE CURA LA DIFFUSIONE ATTRAVERSO IL PROPRIO DISTRIBUTORE LIBRO CO. ITALIA SRL.

I DUE CURATORI SI PREFIGGONO UN PRECISO PROGRAMMA, QUELLO DI VALORIZZARE ANCOR PIU’ GLI AUTORI GIA’ NOTI NEL PANORAMA DELLA POESIA ITALIANA (E NON). IL NUMERO ZERO E’ DEDICATO ALL’ECCELLENTE POETA DOMENICO CIPRIANO, DI CUI, QUI SOTTO, VI FAREMO LEGGERE ALCUNE COMPOSIZIONI DI QUESTA DELIZIOSA PLAQUETTE, INTITOLATA “L’ORIGINE

UNA BUONA LETTURA, QUINDI.


TUTTI I LIBRI DELLA COLLANA Φ SONO IMPREZIOSITI DALLE OPERE PITTORICHE E GRAFICHE DI FRANCESCO BALSAMO E MARTA PEGORARO.

 

ALCUNE COMPOSIZIONI:

 

Rifluisce in me ogni istante

e un’onda col suo flusso mi rinnova

spingendo la corrente di risacca

a un nuovo inizio. È il guizzo della mente. Fissa cardini

innanzi a precipizi, con lo sguardo sulla valle spoglia

che copre i sedimenti del passato.

 

Un composto che miscela ossa, oggetti, brandelli di vissuto

amebe, silicio, calcio e storie di animali, simboli di caccia

rivoluzioni sconosciute, sangue rifiorito in vita.

 

Contorni e sostanza di rituali volontari (o incessanti istinti mai sopiti)

riecheggiano frementi, cercando altre soste

oltre la memoria conosciuta

dove un’origine smarrita ci appartiene

tra steppe e ghiacci siderali, gusci di conchiglie consumate

e l’innegabile perizia di resistere.

 

È da questo intimo inizio che una scintilla ci accompagna

con docili pensieri, con destini disperati.

E assumiamo il profilo della terra incolta

se non ricominciamo.

 

***

Soffro la distanza dalla scrittura

l’indecifrabile cantabilità immaginata di un paese

le tue labbra friabili e distese

la logica imperfetta che ci unisce

e lenta svilisce, riappacifica ogni sogno.

Il disegno pieno

della valle coercitiva. Le linee frammentarie

oltre la collina, le persone

che si salutano virando, il canto affannoso,

il fiato, la speranza di una stanza vuota. Il mutare

dei suoni in lontananza

preclude

la voglia di scrivere che immutabilmente assale.

 

Irriverente il sole ci guarisce e le tracce

appaiono in superficie. Ci sono amici sfioriti ovunque

tra le dune sottostanti, distanti pochi giorni

o disseminati da un brivido che attende il freddo

nel piacere nascosto tra le mura, sottoscritto in questo spazio.

***

Un esauriente frammento del curatore Gianluca D’Andrea, tratto dalla quarta di copertina:

Un nuovo mondo e un nuovo inizio. È presente il desiderio in questa raccolta di Domenico Cipriano, un sentire che si fa volontà di nominazione, per cui gli slanci verbali si mescolano a elenchi che manifestano una rinnovata aderenza tra materia verbale e mondo, in nome di una concretezza che si fa appartenenza, fiducia rinnovata…

… Il tutto sembra muoversi in direzione di un superamento del lirismo novecentesco, del disastro che si ravviva solo considerando l’«origine smarrita» che «ci appartiene / tra steppe e ghiacci siderali, gusci di conchiglie consumate / e l’innegabile perizia di resistere».

Gianluca D’Andrea

 

TORNA IN ARCOLAIO GIANLUCA D’ANDREA IN VESTE DI OSSERVATORE LETTERARIO. ECCO IL SUO “POSTILE (tempi, luoghi e modi del contatto)

Lascia un commento

 

Gianluca è tornato a farci visita! E’ tornato a soggiornare nella nostra casa editrice in veste di osservatore letterario con il suo “Postille (tempi, luoghi e modi del contatto)”. All’interno di questo suo progetto egli sembra compararsi a un antico farmacista che ami preparare i propri  rimedi farmacologici a base di dosi accorte di principi attivi. Quasi un miracolo omeopatico  che serva a nomenclare e definire, in modo analitico e chiaro, le caratteristiche del “preparato”. Una lettura interessante con numerose sorprese.

Un libro da consultare ogniqualvolta se ne senta il bisogno.

Buona lettura!

 

La prefazione di Fabio Pusterla:

Sulle Postille di Gianluca D’Andrea

La parola-titolo di D’Andrea, in apparenza umile e dimessa, è ingannevole come le petrarchesche nugellae, e nasconde prima di tutto un bisticcio di significati. A quello vero e proprio di annotazione scritta dopo, cioè di riflessione critica che fa seguito alla lettura e alla meditazione (e che vanta già nei suoi annali un bel numero di precedenti giganteschi, da Manzoni a Croce), si associa infatti, in un bisticcio divertito dichiarato dall’autore, il contemporaneo concetto di post, cioè di te-sto postato su di un sito o blog, che suggerisce l’origine di queste pagine e la loro iniziale funzione. Nate per un sito, le postille conservano di quella loro iniziale ideazione la velocità e la stringatezza, che consentivano all’autore la rapidità di esecuzione e ai fruitori l’immediata assimilazione: della postilla in sé, ovviamente, ma anche del testo a cui la postilla i- neriva. Sicché le Postille sono contemporaneamente una proposta di lettura, occasionale per quanto concerne la strutturazione antologica che non segue criteri particolari, ma non meno interessante vista la qualità notevole dei testi scelti, e un tentativo di intervento critico, che di quei testi fornisce un abbozzo di lettura e che soprattutto dice qualcosa di importante a proposito del lettore responsabile, cioè di Gianluca D’Andrea, che non è lettore qualunque né tantomeno neutrale, essendo egli stesso implicato in un processo di scrittura poetica il cui maggiore risultato è al momento la raccolta Transito all’ombra (2016).

Strutturate attorno ai tre concetti di tempoluogo e modo, le Postille offrono al lettore quarantadue autori, ciascuno rappresentato con una, o più raramente due poesie (e nel caso degli stranieri, con la doppia partita di testo originale e testo traduzione); e di ciascuna poesia D’Andrea cerca di suggerire una chiave di lettura che non è esattamente di matrice stilistica o filologica, ma che rientra in un suo non esplicitamente dichiarato ma ben presente in filigrana orientamento filosofico-poetico, che non è questo il momento di esplicitare fino in fondo, ma da cui si potrà almeno estrarre, come un minerale in bella evidenza, la coscienza di porsi dopo il Novecento, e di guardare pertanto alla grande tradizione che le Postille evocano in un modo assai particolare. In un modo, si potrebbe dire, postumo: termine che suggerisce subito un ulteriore sovrasenso del titolo.

Già in questa incentivazione semantica di un singolo termine è possibile riconoscere qualche caratteristica del poeta D’Andrea, del suo uso complesso del linguaggio, della sua propensione verso una certa dose di sperimentalità e del suo costante tentativo di ricondurre la scrittura poetica a una teorizzazione non sempre facile, non sempre trasparente, ma non per questo inutile o priva di necessità. Da questo punto di vista, la misura breve della postilla tiene a bada il rischio dell’eccesso, riduce al minimo l’oscurità del discorso, e limitandosi ad accennare un pista del pensiero critico lascia al lettore la responsabilità di continuare da sé l’esplorazione. D’altra parte, la condizione postuma a cui si accennava spinge l’autore di queste Postille a cimentarsi senza troppi timori con i mostri sacri della tradizione: il punto estremo è forse rappresentato dall’Infinito di Leopardi (cui seguiranno poesie di Montale, della Rosselli, di Caproni e Zanzotto) e dai testi di Baudelaire e Rimbaud per aprirsi verso l’Europa (ma in sostanza tutti gli autori europei fanno parte dei classici della modernità).

Infine, il volumetto delle Postille schiude anche qualche interrogativo d’altro tipo. Intanto: cosa succede nel passaggio dalla funzione originaria legata a Internet a quella di testo stampato su carta? È possibile che il dialogo tra due diverse situazioni comunicative possa lentamente modificare qualche abitudine secolare e qualche genere codificato, dando vita a una nuova forma di ibridismo, produttore di chissà quale senso futuro? In secondo luogo: come motivare la scelta di trasformare in libro ciò che era nato come serie di post? Dovremo leggere in questa volontà il perdurare del prestigio del testo a stampa su quello on-line? Oppure si tratterà di variare il pubblico dei lettori, presupponendo così una partizione semiologica non priva di interesse? O ancora, saremo di fronte a un paradosso apparente: quello per cui la durata di un’opera a stampa, di un libro, che sappiamo bene essere molto limitata nel tempo (quanti libri d’oggi sopravvivranno fisicamente ai prossimi decenni, per non dire ai prossimi secoli?), continua su un altro livello di coscienza a sembrare maggiore e più solida della durata potenzialmente illimitata dell’on-line, opponendo la matericità del libro, oggetto deperibile in sé ma, appunto, oggetto, alla virtualità della rete, priva di materia e (forse) di tempo, ma meno reale, meno tangibile, e per il momento almeno antropologicamente ancora meno nostra?

 

Fabio Pusterla

 

Una postilla:

 

Seamus Heaney: una poesia da District e Circle

(Mondadori, 2009)

(29/07/2015)

 On the Spot

 

A cold clutch, a whole nestful, all but hidden

In last year’s autumn leaf – mould, and I knew

By the mattness and the stillness of them, rotten,

Making death sweat of a morning dew

That didn’t so much shine the shells as damp them.

I was down on my hands and knees there in the wet

Grass under the hedge, adoring it,

Early riser busy reaching in

And used to finding warm eggs. But instead

This sudden polar stud

And stigma and dawn stone– circle chill

In my mortified right hand, proof positive

Of what conspired on the spot to addle

Matter in its planetary stand– off.

*

In quel momento

Un intero nido d’uova fredde, semi nascosto

nel concime di foglie dell’autunno scorso, compresi

dalla sua immobile opacità, marcito,

mutava in sudore di morte la rugiada del mattino

che non ne rischiarava i gusci ma li infradiciava.

Ero a carponi là nell’umida

erba sotto la siepe, in adorazione,

mattiniero, intento a tendere la mano

e avvezzo a trovare uova tiepide. E invece

questa improvvisa borchia polare

e marchio e freddo d’alba cerchiato di pietre

nella mia mortificata mano destra, prova evidente

di ciò che tramava in quel momento per guastare

la materia nel proprio impasse planetario.

 

(Traduzione di Luca Guerneri)

 

 

Postilla:

Tempo gelido dell’eterno, nell’ultimo tentativo di riscatto che il ‘900 poteva offrire: l’aspettativa, anche se qui il miglioramento, che il rito vitalistico sembrava presupporre, è disatteso. «This sudden polar stud», immagine pietrificante del disincanto, quel nido raggelato mortifica l’apprensione e lascia tra le mani la ripetizione, come un assillo, della caduta. «Stand-off» planetario, perché la terra (il mondo) è questo “stop” che annulla la speranza. La fine è sorpresa della fine, ma questo è ieri. L’oggi è neutralità soggiogata da un’altra impasse, quella del soggetto spettralmente assuefatto al proprio essere, mortalmente definito dal proprio tempo. «My mortified right hand» è pura retorica, metonimicamente tende a indicare la mortificazione della materia (e sua caduta gravitazionale: la caduta del nido è, infatti, la caduta di una dimora che si pensava ancora salvabile), il guasto immedicabile della speranza – e dello spirito – che si credeva abitasse la materia stessa, la quale diviene «mattness» e, infine, «stillness», ovvero «death sweat» del mondo, senza che «la rugiada del mattino» possa riacquistare quel senso di rinascita una volta pertinente. Una volta, cioè in altri tempi.

GIANFRANCO MIRO GORI RECENSISCE “TRA LE RADICI E L’ALTROVE” DI DANIELE SERAFINI

Lascia un commento

DANIELE SERAFINI – TRA LE RADICI E L’ALTROVE (Poesie 1986 – 2016), interventi

di Davide Rondoni e Angelo Andreotti, Forlimpopoli, L’arcolaio, 2016, pp. 205, euro 14,00

Dopo l’amore non resta che l’amore”. Questo bellissimo verso, segnalato sia da Rondoni che da Andreotti, rispettivamente autori di prefazione e postfazione, si trova poco oltre la metà del volume, per l’esattezza a pagina 111. Lo pongo come incipit perché mostra in modo preciso la qualità di un’antologia che seleziona un nutrito gruppo di poesie da cinque raccolte dell’autore, più un significativo gruppo di inedite. La prima sezione, tratta da Paesaggio celtico del 1993, rimanda alle lontane radici celtiche cui s’allude nel titolo: “Allora saprai che le nostre radici / sono come maree, racchiudono / e poi disvelano / e non vi è punto di fuga da cui / muovere verso un nuovo giorno”. (Ode a Llewelyn). Sempre in questa sezione, in quell’Elogio dell’ombra che apre la raccolta, Serafini dichiara la propria poetica: “è la parola schiva / che qui cerchi / non la frase ampollosa / dove il vuoto s’addensa”. La seconda sezione, da Luce di confine, (1994), richiama sin dal titolo il confine, parola chiave nella poesia di Serafini. “e luce di confine sospesa / fra la virtù del nascere / e l’ansia del morire”. La terza, da Eterno chiama il mare (1997), evidenzia un’altra parola chiave, mare, luogo centrale che percorre l’intero libro: “Non riesco a cantare le città / il paesaggio urbano [] Posso dire soltanto / di tetti diroccati stoppie / maree []”, così nel Prologo; e ancora: “Sempre mi tenta il mare”, incipit e clausola di Tentazione. Della quarta, da Dopo l’amore (frammenti a due voci) (2004), ho già citato all’inizio un verso assai bello. La quinta, da Quando eravamo re (2012), allude all’omonimo film di Leon Gast dedicato allo storico incontro a Kinshaha dei pesi massimi Mohammad Alì e il campione del mondo George Foreman. Quando eravamo re è il titolo di una suite in dodici movimenti di ognuno dei quali è pure la clausola: tra il mare (“Ora vivo in una casa sul mare”), la pianura, la valle, le parole… Qui troviamo anche i versi che denominano l’antologia: “Eppure questa terra ostile / che oggi ti accoglie / tra echi vallivi e filari di pioppi / è custode di sangue dei padri / è memoria di volti dispersi / in aspra contesa / tra le radici e l’altrove” (Questa terra). La sesta, Polvere di stelle, costituita da versi inediti, contiene, tra l’altro, un commosso ricordo di Cecyl Tryan attrice di non grande fama tra il muto e il sonoro: “Così riposi, ignota, / lontana dai clamori / di set e celluloide / e sei felice, rugiada, / sei polvere di stelle (Stardust). Voglio dire infine di un fondamento su cui è innervata questa bella antologia e in definitiva la poesia di Serafini: il ricordo. Come infatti dice Andreotti nella postfazione: “Tutta la sua poesia è tesa a far sì che l’oggetto del ricordo non cada nell’oblio, e dunque non sia una presenza destinata per davvero a diventare e restare assenza”.

Gianfranco Miro Gori