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GIANFRANCO LAURETANO RECENSISCE “NEL PROFUMO DELLE CATACOMBE” DI GIAN RUGGERO MANZONI.

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Da Manzoni a D’Arzo, quel pensiero della morte che ci aiuta a vivere

RECENSIONE DI GIANFRANCO LAURETANO PUBBLICATA SU IL SUSSIDIARIO.NET

Nel suo ultimo libro di poesia “Nel profumo delle catacombeGian Ruggero Manzoni aiuta il lettore a riscoprire la vita attraverso la morte

 

A inizio estate, sull’orlo delle vacanze e delle villeggiature, mi è piovuto nella buchetta delle lettere un libro sulla morte; bel contrasto. È un piccolo libro di poesia di un piccolo editore, si intitola Nel profumo delle catacombe (L’arcolaio, 2019), ma di un autore grande e autentico, che non ha mai ceduto un millimetro ai luoghi comuni e ai mantra culturali contemporanei del politically correct.

Gian Ruggero Manzoni è poeta, narratore, artista: nato nel 1957, ha vissuto da protagonista la storia artistica e letteraria degli ultimi quarant’anni, lavorando con Omar Galliani e Mimmo Paladino, con Andrea Pazienza e John De Leo, è stato compagno di studi di Pier Vittorio Tondelli e ha conosciuto Giovanni Testori e Anselm Kiefer. Nel 1984 ha addirittura organizzato una Biennale di Venezia col poeta romano Valerio Magrelli, ha fondato varie riviste e scritto libri assoluti e coraggiosi. Se non è tanto conosciuto alle masse è perché non ha mai accettato di entrare nel baraccone mediatico e pseudoculturale che ha al suo soldo anche diversi scrittori, quasi sempre i mediocri.

Con queste poesie, come dice lui stesso, affronta “il tema dello sparire, dello sprofondarsi in una realtà sotterranea al fine di raccogliersi, a livello cenacolare, attorno a una fede, a una immagine condivisa, a un reliquiario, a una sacralità riacquistata o, meglio, riconquistata”.

Nel libro entriamo con lui nelle mille catacombe d’Italia e del mondo, e apprendiamo che sotto la terra della nostra identità e del nostro volto esistono cunicoli misteriosi, passaggi pieni di dolore, di eroismo, di santità. Le catacombe, come sappiamo, sono state anche e soprattutto dei cimiteri, forse sarebbe meglio usare il sinonimo: dei camposanti. Lì, tra i corpi dei martiri e dei fratelli adagiati nei loculi in semplice attesa della resurrezione che si riteneva prossima, i vivi anche si radunavano lontani dagli occhi dei persecutori, lì avveniva la liturgia e il sacrificio eucaristico.

Condotto dalle poesie di Gian Ruggero Manzoni ho pensato che non sappiamo più stare dinnanzi alla morte. Il poeta invece ci sta. Descrive per noi quell’abisso in cui stanno fratelli che ci hanno preceduto, traduce le preghiere assolute che ci trova (“A Classe di Ravenna […] troneggia/ un epitaffio altero: Non pregare quando necessita,/ prega solo, quando non c’è richiesta/ e il cielo, non se l’attende”), incontra le anime di chi ritorna per trovare qualcosa di sé, un teschio o un nipote, che poi è il poeta stesso.

La parola chiave con cui ci introduce a questo mondo strano che sta nel grembo della storia è “sacrificio”. Ad esso Manzoni collega la possibilità del bello, come dice in un’intervista: “…visto che il buono dimora nel sacrificio, ma, appunto del sacrificio, tuo o di un altro, interessa ben poco alla gente, così che, seguendo la nostra tradizione, anche il povero Gesù si ritrova a fare addobbo entro le chiese, infatti più nessuno si prende la briga di deporlo dalla croce, lavarlo, ungerlo, avvolgerlo nel sudario e dargli degna sepoltura”.

Ecco il grimaldello, il suggerimento del poeta per poter stare di fronte alla morte: come i martiri delle catacombe, morendo, hanno “fatto diventare sacro” (sacer facere, rendere sacro) il mondo, rinnovando la decadenza che, come per l’impero romano, Manzoni vede in atto nella superficie della nostra epoca, così stare di fronte alla morte vuol dire stare di fronte alla vita. Per che cosa vale la pena vivere? Lo si capisce dal che cosa vale la pena morire.

Per pura coincidenza le mie due letture di questi giorni offrono un aggancio straordinario al tema. La prima è Bartleby lo scrivano di Herman Melville, il genio scrittore di Moby Dick. Nella New York dell’Ottocento che si prepara a essere la ricca capitale commerciale ed economica del mondo, un avvocato importante e facoltoso assume uno scrivano, Bartleby. Dopo un inizio promettente, Bartleby a poco a poco si deprime e si lascia andare: non esce più dall’ufficio poi, pur essendo bravo, rifiuta persino di scrivere. Alle offerte dell’avvocato risponde sempre “preferirei di no”, finché spostato in un istituto, vi muore spegnendosi.

Tra le varie chiavi di lettura possibili, certamente c’è quella che per Bartleby nulla di ciò che la nuova società americana gli offre – l’etica del lavoro, il denaro, la sistemazione, la casa – è un motivo sufficiente per vivere. Nulla vale il sacrificio.

La seconda lettura è Casa d’altri, un romanzo breve di Silvio D’Arzo; questo autore emiliano del secondo Novecento italiano non è molto conosciuto, ma è un vero classico, che gli esperti riconoscono come tale; scriveva come Cesare Pavese, di cui è più o meno coevo, in una lingua ricca e intensa, una capacità narrativa straordinaria.

Questo libro narra di un paesino di montagna, nel primo anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dove vive un vecchio prete. Gli abitanti sono pochi: gli uomini, tutti pastori, stanno per lunghi periodi negli alti pascoli; in paese rimangono le vecchie e qualche sparuto bambino. Alla porta del prete, che ormai, depresso e rassegnato a un servizio di routine come dispensatore di sacramenti e qualche lezione di catechismo, attende solo la pensione senza più ricordare il senso della sua vocazione, si presenta un giorno una vecchietta, che vorrebbe fargli una domanda. La donna fa il lavoro duro della lavandaia per i panni altrui, che lava sui sassi del fiume tutti i giorni, vive sola in una vecchia casa e basta. Tutto il libro gira intorno alla domanda che la vecchia lì per lì non ha il coraggio di fare, ma riaccende in qualche modo il sacerdote, che la cerca più volte, finché scopre che la vecchia voleva chiedergli se era possibile che Dio le permettesse di morire “prima del tempo”. Il prete non sa che dire e così più o meno si conclude il romanzo.

Allora, persino in questo periodo di vacanze e di riposo, benedetto il poeta che, come Gian Ruggero Manzoni, ci parla della morte, parlandoci implicitamente di ciò per cui val la pena vivere. La forza di una società credo si misuri dalla capacità di stare di fronte a tutto e da quella di avere pensieri e parole persino per le realtà più dure, come quelle del sacrificio e della morte.

Al contrario, le società in crisi e in via d’estinzione, come ci sta descrivendo persino l’Istat, i cui dati abbiamo sentito in questi giorni, non sanno più che dire della vita, della morte, dell’amore e del tempo. Edulcorano la faccenda e fanno in modo che passi.

Gian Ruggero Manzoni ha la pazienza della grande letteratura; come dice Hölderlin nella poesia “Patmos”, sa che esiste il tempo in cui l’essere autentico dell’uomo si nasconde e che quello è il tempo della seminagione. D’altronde, in un’intervista a Davide Brullo, altro poeta assoluto di cui bisognerà informarsi, che gli chiede cosa sta leggendo, Manzoni risponde: “Cosa leggo? Sul comodino ho sempre il Libro di Giobbe, così da ricordare che non bisogna mai perdere la fede e, come diceva mio padre, bisogna sempre credere nella Provvidenza e nella divina Misericordia”.

Gianfranco Lauretano

UMBERTO PIERSANTI RECENSISCE “DIRE” L’ULTIMA REDAZIONE AGGIORNATA DELL’OPERA DI FABIO MICHIELI.

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Nel teatro del mondo

RECENSIONE DI UMBERTO PIERSANTI, TRATTA DALLA RIVISTA ATELIER

 

“la vita che non chiesi ma divenne / consegno ora al destino che mi spetta” (p. 38).

È un particolare teatro del mondo quello che rintracciamo in Dire di Fabio Michieli (L’arcolaio editore, Forlimpopoli 2019), dove non si stagliano in primo piano luoghi, volti e vicende ma tutto questo deve essere ricercato ed intravisto dietro un sipario o un velo che lo oscura. No, non c’è la volontà di ricercare l’“oscuro” o magari di farsene schermo: questo è il reale, uno spazio esistenziale con una venatura metafisica, di una metafisica laica intendo. La vita prosegue per suo conto un cammino inesorabile e quasi completamente autonomo: il nostro è un destino al quale possiamo consegnarci ma non mutare.

Qualcosa si rivela per speculum enigmate. Sono tratti, lacerti che non si lasciano facilmente interpretare. Certo, avvertiamo qualcosa di doloroso, di sangue, magari di sacrificio. I toni sono, però, esatti e calibrati, privi di ogni turgore. No, non è certamente quella di Fabio Michieli una scrittura minimale: l’eleganza assoluta del verso rimanda a tradizioni classiche, sia greco-romane che provenzali “fu quando svelsi al ramo l’acre rosa: / mi punsi e tinsi del mio stesso sangue / quella mano: tinsi nuovo anche il volto –” (p. 26).

Presenti anche influssi contemporanei, magari non italiani, ma lo stile rimane assolutamente personale. Un verso cesellato che si gusta soprattutto se recitato a voce alta: solo in questo modo si percepisce la nobiltà del dettato.

No, non vicende dicevamo, ma istanti e percezioni. Quale idea del sacrificio o altro c’è dietro questi versi? Difficile capirlo, eppure ne avvertiamo l’intensità “al suolo avidi i petali raccolsero / del mio sangue l’orgoglio violato” (p. 26).

Parlavo di versi perfettamente cesellati, di un nitore che non nasconde il dramma o il patos: questo l’esempio più perfetto: “tingerò d’amaranto questi versi / perché tu possa scorgerli lontani / quando la luce imbruna il cielo a sera” (p. 33).

Euridice ed Orfeo, di cui hanno parlato nelle prefazioni Gianfranco Fabbri e Augusto De Molo, sono sicuramente personaggi centrali: ma no, non personaggi, figure emblematiche quasi disincarnate, ma investite di una forte carica drammatica e vitale. Non so se il narratore possa configurarsi in Euridice, se quest’ultima possa rappresentare: “la parte umana ormai immersa nell’eterno di più verità” come sostiene Gianfranco Fabbri nella prefazione di questa nuova edizione di Dire mentre la postfazione di Augusto De Molo risale alla prima edizione del 2008. Quel che emerge, in modo incontrovertibile, è la fiducia nel canto, nella eternità del canto, così come così cara a tutta una tradizione romantica e che da noi ha avuto in Ugo Foscolo il suo rappresentante più alto: “sì, voltati a guardarmi! Io ti supplico: // spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto! / annientami, dissolvimi – esaudiscimi, annullami” (p. 43).

Naturalmente questa fiducia nella forza eterna della poesia di Fabio Michieli non vive in un Ottocento ancora sicuro dei propri valori, ancora ricco di certezze com’era per Foscolo, ma dentro un “teatro del mondo” molto più inquieto ed insicuro: e il poeta contemporaneo dovrà usare un altro tono e perfino altre parole per esaltare la capacità della poesia d’immortalare figure e vicende. Il discorso vale ancora di più per la capacità stessa della parola di dare un senso alla vita.

È molto più importante una Euridice mitizzata, figura che attraversa i secoli, d’una Euridice domestica ricondotta dall’oscurità dell’Ade alla tranquillità della sua casa, alla tranquillità di una serena e modesta vita coniugale.

Non sempre c’è questa sicurezza nei confronti della poesia; sì, è vero che la poesia è la nostra voce, ma il dubbio dell’inconsistenza permane. Il tempo che attraversiamo è un tempo brechtiano, le nuvole all’orizzonte sono ben più di nuvole e l’inconsistenza sembra dominare: “ma non son nuvole quelle che passano! // l’inconsistenza spesso ci attanaglia / di chi coi versi ingaggia la battaglia” (p. 82).

La poesia di Michieli non ha quasi mai un’impronta civile, ma ho detto quasi mai. Il dramma dei morti in mare trapela in questi versi (p. 53):

 

(squallidi coralli dispersi in mare

aperto come fossero le ceneri

di un qualche morto in più da aggiungere a una lista

che trova solo livida pietà)

 

Ancora più forte lo sgomento che domina in Quod genus hoc hominum? (Aen. i 538) (p. 80):

voi dite che sia giusto abbandonarli

lasciare al largo quei legni dal nulla

venuti per pietà nulla a perire –

suona e insiste quest’ora di rapaci

di voli a picco su vittime inermi

 

Prima ho parlato di luoghi, della loro assenza: non è del tutto vero: Parigi, Barcellona, Firenze sono però luoghi di avvenimenti, entrano come momenti del vivere e del sentire. Altro tema importante di Dire il dialogo col padre che non c’è più. Questa zona del libro ha un risalto particolare e si staglia con una luce e un tono diverso dal resto. Qui tutto viene avvertito dal lettore con immediatezza, qui non ci si muove più dietro un velame scuro (p. 68):

non sono stato ciò che ti aspettavi:

quel figlio, quel bastone che reggesse

il tuo corpo oltre il passo dell’età –

ma non fu per mancanza mia…

la vita!

fu lei a lasciarti prima del tuo tempo –

 

Luce ed ombra, vita e morte, si rincorrono ed incontrano continuamente in queste pagine sempre raccontate con una forma limpida e scandita, mai però facile o carezzevole. I versi cesellati di cui parlo non sono un orpello, non nascondono il dramma ed il dolore, ma li inquadrano dentro una cornice che li difende da ogni facile effetto pietistico o declamatorio.

E chiudo con questi versi dove la vittoria sul nero, più nero dell’inchiostro che occupa tanta parte della nostra vita, è netta per quanto fragile ed insicura: “ma la luce che filtra dalla grana / dice a me – nel silenzio – tutto il bello” (p. 55).

 

Umberto Piersanti

MARIA BENEDETTO CERRO RECENSISCE IL LIBRO DI ANNA MARIA CURCI: “NUOVE NOMENCLATURE E ALTRE POESIE”.

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  “La cura della lingua” nella poesia di Anna Maria Curci

 

Articolo scritto da Maria Benedetta Cerro

 

Ho conosciuto, prima della poesia, la scrittura critica di A.M. Curci, la sua abilità nel cogliere con immediatezza in un testo l’essenza e la sostanza e tradurre il tutto in una scrittura essa stessa creativa, in equilibrio tra spirito e intelletto.

Intelligenza, appunto, finissima, capillare, che sa leggere-dentro, spaziare tra cultura e saggezza di vita con un’apertura rara verso l’altro, derivante certo dalla frequentazione disinvolta delle lingue e dalla particolare disposizione all’incontro. Una naturalezza espressiva che emerge anche nel dialogo, nell’esposizione fluida, coinvolgente, diretta, che sa porgere contenuti complessi con una semplicità che diventa abbraccio empatico e solidale.

E la sua poesia “Nuove nomenclature e altre poesie” non poteva non essere specchio di un’anima di autentico valore letterario e umano.

Un libro denso, molteplice, che già nel titolo annuncia il primo dei mandati della poesia: la nominazione. E appunto nella prima sezione Anna Maria Curci mostra come la parola-definizione possa in realtà significare altro, come la lingua poetica, autonoma e fortemente evocativa, a differenza della lingua delle convenzioni, sia l’unica in grado di ri-nominare e ri-definire la realtà.

Ed è in questa ottica che la contemporaneità, la storia che svolge il suo corso sotto i nostri occhi,

attraverso la lente della poesia, mette a nudo la sua trama, mostrando un tessuto di inganni e falsità.

Ecco allora che la poesia di Anna Maria Curci, nel dire della vita (la propria, che alle altre si accompagna nell’incontro reale e letterario – o ne diverge – mostrando una personale visione storico-critica), assume responsabilmente il ruolo sociale di denuncia e insieme indicazione di un cammino linguistico che riconsideri rigore e cultura fondanti di una lingua ancora autorevole, che chiami ogni cosa col suo proprio nome, che non sia approssimazione, ma identificazione, appunto (vedasi l’uso frequente di termini linguistici in lingua originale).

In “Staffetta” l’indagine nel tessuto umano si fa più profonda, tocca nel vivo un dolore cui è possibile accostarsi solo con il filtro dell’ironia, specie se è il ricordo, la corda intima o affettiva a

dolere ancora vivamente: (consideriamo “il Lied delle anime belle”, “Mi rammento di te”, “L’idillio di natura non ristora/ chi sceglie l’auto-inferno” “’Namo donne che oggi so’ matta”, “Verrai a prendermi un giorno”).

Ma sono i “ Settenari sparsi”, i “Dodici distici del disincanto”, i “Distici del doposcuola” le sezioni più interessanti dal punto di vista metrico. Un esercizio di stile che riconsegna alla poesia la dignità di una forma, sulla quale si dipana un divagare colto, una sobria sentenziosità, un discorso sommesso con un interlocutore, che a volte è se stesso.

“La cura del vocabolo”, l’endecasillabo musicale, il ritmo che detta il verso e che obbedisce a tratti al richiamo della rima, scandiscono una poesia scolpita a rilievo sulla pagina.

La sezione “Canti dal silenzio” si apre infine con uno splendido “Preludio”. L’ invito all’ascolto, a frenare l’impazienza, a riappropriarsi del proprio tempo termina con un avvertimento: “Non ignorare i canti dal silenzio”.È la poesia che chiede voce, autorevolezza, rispetto, in una contemporaneità distratta, che vuole anche la parola ridotta a consumo.

È la poesia che, grazie alla cura, ridiventa canto.

 

 

Castrocielo, 18 giugno 2019                                                      

                                                                        Maria Benedetta Cerro   

AMINA CRISMA RECENSISCE “SE TU FOSSI UNA CITTA'”, L’ULTIMO LIBRO DI ROBERTO DALL’OLIO.

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Amina Crisma recensisce “Se tu fossi una città” di Roberto Dall’Olio

In questo libro suggestivo l’autore, noto ai lettori di Inchiesta soprattutto per le sue poesie civili, ci affida molteplici visioni di città: paesaggi urbani vissuti, amati, ricordati o sognati che vengono evocati con grande intensità lirica, con uno sguardo attento alla loro struggente e inesauribile bellezza, e anche alle macerie che le catastrofi della storia vi hanno determinato, e dalle quali incessantemente sono riemersi, e riemergono.

Di Roberto Dall’Olio, autore di vari volumi di poesie – fra i quali Tutto brucia tranne i fiori, con cui ha vinto il premio Va’ pensiero nel 2015, Irma, dedicato a Irma Bandiera, del 2017, e Adesso è già domani (2014), insieme al pittore Andrea Louis Ballardini, poema figurativo in memoria della strage di Marzabotto – i lettori di Inchiesta conoscono soprattutto le poesie civili, che spesso sono apparse sulla nostra rivista, come quelle su Tiananmen, sul genocidio dei Sioux, o su Anna Frank pubblicate di recente su http://www.inchiestaonline.it . Dunque saranno forse un po’ sorpresi nell’aprire il suo ultimo libro, Se tu fossi una città, dedicato “alla donna della mia vita”, che esce ora da L’Arcolaio: un libro singolare di cui appare notevole “la preziosità della strana creazione”, come osserva nella sua breve nota introduttiva Romano Prodi: “In quest’opera si coglie un sentimento ampio, universale, romantico e cosmopolita, ma pur sempre intimo. Roberto Dall’Olio mette in scena una continua migrazione ….in cui luoghi e terre lontane rivelano i loro aspetti più segreti”.

Sulla copertina del volume risalta un suggestivo acquerello di Andrea Louis Ballardini, “Praga vestita di luce”: “una poesia in colori”, come egli la definisce, che si aggiunge alle immagini in parole di Roberto, attraverso le quali si disegnano molteplici visioni di città, da Venezia a Parigi, da Trieste a Lussino, da Volterra a Delft, da Bologna a Sarajevo, da Lubiana a Stoccolma a Timisoara….

C’è un versante onirico in queste visioni, che per certi versi riporta alla mente la cifra e le atmosfere de Le città invisibili di Calvino:

“Se tu fossi una città/saresti/Timbuctù/là ci troveremmo/a scollinare le dune/nella notte fredda del Sahara/come fulmini e nuvole/vento e parole….”

Si ha qui una moltitudine di paesaggi urbani vissuti, amati, ricordati o sognati che vengono evocati dall’io lirico in costante riferimento a un tu, o meglio a una tu:

“se tu fossi una città/saresti/Metz/la ville fleurie/le sarabande/scherziamo/come una giostra/allegra/ di vecchie domande”.

E in questo senso, l’atmosfera ricorda quella degli innamorati volanti di Chagall:

“io non esco dal tuo abbraccio/come la notte bruna/tiene in petto/la tua luna” – “e nuotando/ in un cielo/di mare/tu sei le spalle/delle nuvole/il cucito abbraccio/che mi getti/al collo”.

Un’atmosfera di volo e di ballo che si ritrovava anche in una lirica significativa di una raccolta precedente (“Sbaragliando”, in Sguardi di parole, Magi 2017):

“tutto vola/le ali del cielo/ planano/ in una diaspora/ di stelle/ tutto vola/ vola/ leggero/tutto/ si prende/ la vita/ ballando/ con lei/ un tango….”.

E’ un sogno a due, insomma, che dischiude le città del mondo come una sorta di magico caleidoscopio. Così è una grande intensità lirica a pervadere tutti questi brevi e densi testi, in cui v’è uno sguardo sempre attento alla struggente e inesauribile bellezza di luoghi che sono pregni di risonanze sentimentali e simboliche fin nei loro stessi nomi, come ci ricordava in memorabili pagine Marcel Proust. La mappa che essi disegnano è al tempo stesso una mappa del mondo, e una mappa dell’anima. Se si dovesse dire che cosa significa oggi per noi “Europa” credo che potremmo ricorrere alla geografia del cuore che questo catalogo poetico delle città

ci mette sotto gli occhi: un’Europa che è e sarà sempre fatta della loro irriducibile varietà e pluralità (“pluralità ossia Europa”, come mi disse una volta Anne Cheng) e che insieme serba quell’inconfondibile aria di famiglia che in fondo le apparenta e le accomuna, da Barcellona a Lisbona, da Trieste a Vienna, da Parigi a Berlino (valga per tutti l’esempio di Lubiana, con i suoi “ponti, caffè all’aperto, musica, cattedrali”); ma oltre a questa dimensione qui c’è anche una sorta di percepita fraternità universale di vecchie pietre con i loro “codici misteriosi”, con le loro “dolcezze arcane”, un sentimento del tempo – e della durata – che le attraversa e le collega tutte, snodandosi da nord a sud, da occidente a oriente.

L’io lirico di questo libro non è il turista frettoloso proteso al bulimico consumo di veloci emozioni: è un viaggiatore pieno di meraviglia – e di gratitudine – davanti alla varietà sorprendente dei paesaggi urbani che attraversa, che si pone in intima consonanza con ogni luogo, e che ogni luogo sa riconoscere come proprio intimo interlocutore. Quest’ atteggiamento può in qualche modo ricordarci quello de I fiumi di Giuseppe Ungaretti, e mi pare singolarmente affine a quello di François Cheng, esule dalla Cina in Francia, che nelle più poetiche pagine della sua autobiografia riconosce nell’esile filo d’acqua della sorgente della Loira qualcosa di già avvertito da bambino alle fonti dello Yangzi: una rivelazione del proprio intimo radicamento nel mondo concepito come inesauribile trama di relazioni, come segreta unità della Via.

Un senso taoista dell’unità del tutto si irradia da queste liriche, ed è rivelato non solo dall’affiorare qua e là di puntuali richiami al Laozi, come nella poesia dedicata a Lu –Yi, ma anche da una rappresentazione eminentemente relazionale degli spazi evocati: ogni singolo luogo viene raffigurato come un crocevia di interazioni (valga per tutti l’esempio di Lussino, “la piccola/dentro i fiordi” con il suo “vecchio stile impero” e “il lontano profumo di Vienna/che ti porti/nella tua aiuola”).

E’, insomma, “il grande passeggio/delle cose umane” colto nelle sue rifrazioni con intensa partecipazione sentimentale il caleidscopico tema di questo libro. Lo sguardo vi è sempre rivolto al multiforme splendore di questo spettacolo; ma non vi mancano, sobriamente accennate, da Dresda a Kathmandu, immagini di macerie e di rovine, di catastrofi passate e recenti. Un’ombra drammatica e oscura a tratti compare sullo sfondo di tanta bellezza, quasi a ricordarcene la fragilità tragicamente esposta alla violenza devastatrice; ma ogni pagina ci racconta la forza serena e incrollabile di un’umanità che incessantemente costruisce, e ricostruisce.

Questa forza serena nel libro è posta sotto il segno speciale della potenza dello Yin, il Femminile: alla maniera di John Donne (“O my America, my new-found- land, my kingdom..”), “se tu fossi una città/saresti/tu stessa /la mia città /siamo gli alberi/siamo i giardini/siamo le chiese/i quadri/i silenzi/i rumori/gli anfratti/siamo tutti gli odori/siamo noi due pianeti/distratti”.

AMINA CRISMA

 

MARIO BONANNO RECENSISCE “LA PAROLA E L’ABBANDONO” DI MAURO GERMANI.

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MARIO BONANNO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI MAURO GERMANI,

LA PAROLA E L’ABBANDONO

Articolo tratto dal blog MARGO

 

 

 

I libri di aforismi o sono autoreferenti zoppie di pensiero, oppure incisioni di nitore abbacinante. Assalti al cielo della significazione in poche righe. In altre parole, il terreno sdrucciolo dell’aforismo rivela dell’autore la grandezza o l’inessenzialità. Mi fido della prosa di Mauro Germani, per averla sperimentata in almeno due luminose circostanze: una relativa ai suoi contributi in un volume collettivo su Buzzati (“L’attesa e l’ignoto”, 2012), l’altro in un’anamnesi dello specifico gaberiano (“Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero”, 2013). Con La parola e l’abbandono (L’arcolaio, 2019) scopro Germani aforista capace di incisioni onto-tanatologiche all’altezza di inconsueta provocazione intellettuale.
Ne riporto una manciata, tra le diverse, che mi hanno colpito:

“Non c’è che un’unica notte che ritorna”
“La morte guarisce dalla malattia del tempo”
“La prostituzione esercita all’addio”
“Non sappiamo niente di ciò che succede nel nostro corpo. Siamo l’estraneo che è in noi”
“Per avere conferma del nostro essere mortali, basta chiudere gli occhi e nel buio ascoltare il battito del cuore. capiamo subito che non potrà durare in eterno”.
“Da giovane m’impressionò molto il rapporto tra Kierkegaard e Regina Olsen, quella rinuncia estrema, quella solitudine definitiva, voluta a tutti io costi e trafitta dalla furiosa e misteriosa spina nella carne”
“Sapevo scrivere, è vero, ma non sapevo parlare. Troppa letteratura e troppo cinema. “Davanti a un volto il silenzio, l’imbarazzo, il desiderio di fuggire lontano”.

Ci sono i fili rossi della morte e del tempo che tagliano di traverso pensieri e parole di Mauro Germani. Alla visione morgana di una metafisica impossibile, attentano retaggi più o meno palesati. Correnti esistenzialiste, la letteratura speculativa di Thomas Bernard, l’acume spiazzante di Sgalambro, il lucido paradosso di Jonesco che scrive:

“Attorno a me nient’altro che fantasmi ambulanti. E questa impressione d’irrealtà. L’esistenza non mi pare reale, il niente è più vero dell’esistenza?”

La parola e l’abbandono non è, come si vede, una lettura da ombrelloni. Per questo ve la consiglio nel periodo idiota degli ombrelloni, come antidoto alle letture da ombrelloni. Un testo impudico, che sgomenta. Che non diserta il lato brutto delle cose, si misura con la relatività dell’esistente senza distogliere lo sguardo. Un libro così dovrebbe leggersi poco a poco, necessita di sedimenti, ruminazione interna, riflessione. E dunque “La parola e l’abbandono” è ciò che si dice un testo – filosofico prima ancora che letterario- sul quale ritornare. Le annotazioni di Germani sono di un’esattezza chirurgica, controindicate soltanto agli ignavi e/o ai deboli di cuore. Il genere aforistico ti rende ridicolo oppure ti eleva allo statuto d’autore. Con “La parola e l’abbandono” a Mauro Germani è successo la seconda.

MARIO BONANNO

 

DIAMO AL PUBBLICO UNA BELLA NOTIZIA: FILIPPO DAVOLI E’ IL NUOVO RESPONSABILE DELLA COLLANA “LA COSTRUZIONE DEL VERSO”

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via DIAMO AL PUBBLICO UNA BELLA NOTIZIA: FILIPPO DAVOLI E’ IL NUOVO RESPONSABILE DELLA COLLANA “LA COSTRUZIONE DEL VERSO”

DIAMO AL PUBBLICO UNA BELLA NOTIZIA: FILIPPO DAVOLI E’ IL NUOVO RESPONSABILE DELLA COLLANA “LA COSTRUZIONE DEL VERSO”

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L’amico Filippo Davoli torna a collaborare con la nostra casa editrice. Il titolare, Gianfranco Fabbri, gli ha assegnato l’importante incarico -dirigere la collana “La costruzione del verso” – sicuro degli ottimi risultati che il ns amico maceratese riporterà nel futuro. Non dimentichiamo che Davoli fu l’autore del primo libro della casa editrice, intitolato “Gli incendi” e pubblicato proprio nello spazio che da oggi dirigerà. Gianfranco, Enza, Andrea, Carlo, Maurizio, Gianluca, Lorenzo, Fabio, Diego e Stelvio si stringono attorno al nuovo direttore, augurandogli buon lavoro!

Ma adesso posteremo, qui sotto, la dichiarazione di Filippo, intesa come programma di poetica e di intenzioni: leggiamolo con attenzione.

***

Un onore e un onere. Sono grato all’amico Gianfranco Fabbri per avermi affidato la direzione della più antica collana de L’arcolaio, che fui proprio io a inaugurare con Gli incendi, dando il via all’avventura editoriale di Gianfranco. Stava dimostrando un coraggio da leoni, andando in piena controtendenza nazionale: lui, scrittore e poeta raffinato, nel tempo delle virtualità, sposava la causa del supporto cartaceo. Il tempo gli ha dato ragione, se è vero – come è vero – che L’arcolaio ha una sua piena riconoscibilità e meritorietà.

Sono passati almeno dieci anni da quel giorno. Ora mi sposto dal suo lato (dalla sua parte ci stavo anche prima) e vengo coinvolto una volta di più nella vita de L’arcolaio.

Non sono nuovo, al ruolo; già avevo diretto la collana di poesia di “Ciminiera”. Mi piace pensare che quel discorso – interrotto – possa riprendere da dove si è fermato: vorrei che quel biglietto rendesse servigio al “Grande Stile”, come ci piace chiamarlo, e che riteniamo rimanga – a dispetto di sperimentalismi e minimalismi in voga – la strada regina della versificazione italiana.

Vorremo che La costruzione del verso diventasse una bandiera, un drappo che sventola solitario ma tenace. Senza strettoie generazionali e giovanilistiche, o autorevolezze di ritorno: guarderemo invece i libri. Solo quelli ci convinceranno se pubblicarli oppure no. E alla base di quella bandiera, di quel drappo solitario, ci piacerebbe che nascesse la costruzione di un discorso comune. Con gli autori e coi lettori.

Filippo Davoli

GIAN RUGGERO MANZONI PARLA DELL’ULTIMO LIBRO DI LUCIANO NERI, “DISCORSO A DUE”.

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DISCORSO A DUE di Luciano Neri, Edizioni L’arcolaio,

casa editrice dell’amico Gianfranco Fabbri.

Luciano Neri (1970) vive a Genova, dove lavora come insegnante. Ha pubblicato “Dal cuore di Daguerre” (Gazebo, 2001), con prefazione di Mariella Bettarini; “La spedizione del controtempo” (in “Nono quaderno italiano di poesia contemporanea”, Marcos y Marcos, 2007), a cura di Franco Buffoni e con introduzione al testo di Fabio Pusterla; “Lettere nomadi” (Puntoacapo, 2010), con postfazione di Tiziano Pacchiarotti. Suoi testi poetici sono stati pubblicati, in questi anni, sulle principali riviste italiane di poesia. Ha ideato e curato, inoltre, cinque edizioni di “Succursale mare” (spazio periferico permanente), rassegna di approfondimenti culturali e di incontro tra le arti e le forme di scrittura. Edito nella bella collana “phi“, diretta da Gianluca Gianluca D’Andrea e Diego Conticello, ecco come appunto l’amico D’Andrea introduce il volumetto: “Discorso a due di Luciano Neri è un libro maturo e necessario: maturo perché la matrice ‘relazionale’ che lo contraddistingue sul piano tematico ha raggiunto un alto grado di accessibilità; necessario perché riesce nella difficile operazione di coagulare una materia concettuale densa in un apparato formale lucido e che non si lascia mai andare a derive di senso. Il tentativo di ricomporre il dialogo tra mondo e individuo sembra trovare un riscatto nel tempo, a questo punto assoluto, di ogni tragitto umano. Come l’autore ci ricorda proprio nell’esordio della raccolta, la dimensione umana è un’andatura senza peso, un’illusione metafisica che, però, nasce solo dal confronto e dalla trasformazione ‘presente / del passato’, nel cammino non lineare e non ripetibile che solo ‘crea’ le nostre esistenze”. Innegabilmente la collana “phi” de L’arcolaio continua a regalarci delle vere e proprie “prelibatezze” letterarie.

GIAN RUGGERO MANZONI

Alcuni testi tratti dal volume:

Può sembrare l’anestesia

di un moribondo questa lista

del dispendio d’amore.

All’ora di cena il volto

sparecchiato dalla fame

e la carne messa a cuocere

al fuoco lento della perdita –

 

senza nutrimento

quell’andatura senza peso

dalle ombre che emana

dimentica i resti dei morti

in bocca ai vivi –

 

invece è la vita di uno

trasformato dal presente

del passato, si è estinta

e ha ritrovato l’infanzia

al giudizio mortale del caso –

 

senza giudicare

**

Dalla sezione: “Fino al respiro dell’altro affamato

 

Piazza Lavagna

Quel padre era la legge

del desiderio nell’amore

che ti mancava.

Il figlio che non volevi

e ti girava intorno

era il sintomo scomodo

di un viaggiatore nomade

incapace di sedersi

(e di stare)

alla tavola dei convitati.

Tu già eri nell’altro

e il nomade preda

nel possesso d’amore

svaniva dalla carne

al fantasma il suo posto

rimaneva vuoto

in nessun luogo la sedia

**

Dalla sezione: Chi parla (esule e inerme)

Parole a morsi

in un buio

intramontabile

una bocca muta

le cose appese

filamento che tiene

 

Quello,

l’ospite invitato

nel rovescio dell’immagine

 

quello,

lingua e occhi

pronti – nel fiume –

a gettarsi –

 

del soliloquio

 

 

 

ROBERTO DALL’OLIO RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI MAURO GERMANI: “LA PAROLA E L’ABBANDONO”.

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Roberto Dall’Olio recensisce l’ultimo libro di Mauro Germani: “La parola e l’abbandono

 

 

Il libro di Germani, poeta, saggista,narratore e altro è una collezione di aforismi

non consueta nella tradizione letteraria italiana e, forse, se si può cercare una affiliazione la individuerei nella dimensione mitteleuropea, alla cultura della quale nel testo vi sono significativi riferimenti. Da quale onda partire nel mare del flusso cristallino del poeta? Noi non sappiamo veramente chi siamo, “vaghiamo come sonnambuli nella notte del mondo” e “L’esilio è il vero destino dell’uomo”. L’esilio è sulla Terra dove emerge la nostra colpa. Scrive infatti Germani : “Se fossimo innocenti, non saremmo qui”. Mi viene alla mente una frase di Hoelderlin: “segni noi siamo, che nulla indicano”. Sembra calzare perfettamente la tensione fortemente esistenziale della poetica dell’Autore, la ricerca di quello che siamo senza scoprirlo mai, sbattendo contro un muro di segreti, viandanti senza una patria. Si agita in noi una certa disperazione coperta con la ricerca del piacere. Germani parafrasa Kierkegaard, un grande che lo ha influenzato, ” La ricerca del piacere è sempre una ricerca da disperati”. La scrittura di questo libro è secca, ricchissima di riferimenti culturali e stratificata capace da cogliere in un orizzonte di grande tensione esistenziale come dicevo dianzi. Ogni aforisma è un mondo, ma è anche una perla di una collana, una monade con finestre che azzarda una vista sul mondo, non certo uno chalet sull’orlo del baratro, ma una lotta tra la parola e il silenzio, tra la parola e l’abbandono. Ma anche le parole sono sole, sono senza di noi come precisa l’Autore. E spesso sono inutili come negli scrittori di oggi di cui in larga parte Germani non stima nulla del loro scrivere, del loro appartenere alla recita dei concorsi spartiti e controllati. I poeti si muovono come i politici. Una volta raggiunto un posto di potere non si occupano più del loro mondo, ma solo di se stessi e dei loro pari ruolo. Non c’è vera attenzione verso l’arte come non c’è vera attenzione verso la povertà. Uno dei grandi problemi della nostra epoca che vive come se non ci fosse. E crede di risolvere simili problemi con le tecnologie che spesso risultano essere mezzi illusori e peicolosissimi.

A proposito dell’abbandono di cui riferivo in precedenza , per Germani è bene precisare che non si tratta dell’abbandono di cui parlava Heidegger, ovvero l’essere gettati nel mondo, ma un essere lasciati nel mondo dopo le parole. E morire muti parafrasando Pavese, quasi sapendo che non rimarrà nulla dopo di noi, con altro riferimento a Montale rovesciandolo.  “Sia chiaro : per me essere abbandonati e abbandonare non hann alcun riferimento all’ultimo Heidegger, non implicano un attegiamento estatico, nè una parola riveltrice. Indicano solo la drammaticità dell’esistenza”.

Molto toccanti sono le pagine su Pasolini, la Chiesa e Dio. Pasolini è ritenuto l’ultimo grande intellettuale-artista che l’Italia abbia avuto, “egli era un credente senza fede” come disse Turoldo di lui. Quasi un destino cristico, nel momento in cui anche Cristo è solo, è abbandonato. Germani esprime tutta la sua delusione per aver peso l’innocenza della fede in una Chiesa ricolma di colpe, senza più la prezza delle sue campane. Una Chiesa che ha tradito se stessa e anche Dio : “nei momenti in cui penso che Dio esista, non posso che immaginarlo solo, impotente e sconfitto : la resa di Dio”. O la sua necessità di trattenere il respiro per lasciare a noi la nostra libertà come suggeriva un grande filosofo come Jonas?

Del poeta Germani afferma che non sia solo mentre scrive, ma la solitudine lo avvolga dopo, dopo aver concluso la scrittura. La vera arte è di genere abissale, “ci interroga lungo i bordi del silenzio, ci fa comprendere che noi non bastiamo a noi stessi”. La scrittura non ripara da nulla, anzi rappresenta una fuga dalla vita ma non preserva dal fallimento, poichè è anche un prodotto dell’io che viene definito da Germani una pura illusione. Anche il nostro corpo è un vero enigma, non sappiamo nulla di quello che accade entro di esso, è per noi un estraneo. Ma cosa resta dopotutto? Forse l’amore…”Ci sono baci che fanno tremare, che sanno d’amore e di lacrime, di parole impossibili”.

 

 

                                            Roberto Dall’Olio

GIAN CARLO BARONI RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI MICHEL MICCIA: “IL CICLO DELL’ACQUA – CICLO DEL RISTAGNO”

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SEGNALAZIONE VOLUMI = MICHELE MICCIA

Articolo di GIANCARLO BARONI pubblicato sul blog Poetrydream

 

Michele Miccia, Il ciclo dellacqua Parte del ristagno, Casa editrice Larcolaio, 2019 Giunge alla quinta tappa l‘importante progetto poetico di Michele Miccia intitolato complessivamente Il ciclo dell’acqua e che si articola in diversi momenti e fasi tuttora in fieri. L’ultima recente raccolta, Parte del ristagno, procede in continuità con le precedenti Parte di  sotto, Parte di dentro, Parte di mezzo e Parte di fuori, ma allo stesso tempo evidenzia una autonomia che la distingue, una personalità che la differenzia. Il complesso e ampio progetto dell’autore si dimostra dinamico e in evoluzione, capace di generare nuovi capitoli collegati fra loro ma dotati di una loro parziale autosufficienza. I cinque libri sono accomunati dal tema del corpo ma possiedono ciascuno una parola chiave che li contraddistingue. Nella Prefazione a Il ciclo dell’acqua – Parte del ristagno Giovanna Piazza nota che nelle novanta liriche che compongono il libro l’immagine dominante è quella della porta. La porta è una metafora intramontabile e potente, ricca di signi ficati anche opposti, di sfumature e di suggestioni. Ha a che fare con il rapporto duale fra dentro e fuori, inclusione ed esclusione; la porta si apre e si chiude, accoglie e respinge, divide e collega, è limite invalicabile e varco spalancato, è soglia che separa e che unisce, è “…un incontro nello scontro”. La soglia è vista daMiccia non come una linea-frontiera rigida e definitiva, ma come “un luogo di opinioni / sempre in evoluzione” che nasce da uno scambio e da un confronto dialettico, è un confine attraverso cui passa e transita ogni cosa (“per diventare commercio ogni cosa / deve passare da una soglia”). La porta è un oggetto formato di parti (cardini, serratura, ingranaggi); attorno alla porta cresce una casa con le sue stanze e camere (“prima è nata la porta / e poi le stanzestanze”), i suoi arredi, con la famiglia che vi abita, le persone che la frequentano e i corpi che si incontrano e si toccano (“carne contro carne che nuda / si ammutolisce in un abbraccio”). Serrare la porta, chiudersi dentro, allontanare e lasciare fuori la m inaccia, si rivelano dei palliativi e delle illusioni: “Sprangare la porta non è / necessario, l’altro è già / dentro e lei non lo vede, / era qui prima di ogni / altro inquilino…”. “La porta”, scrive lucidamente Miccia, “è un’idea / smarrita di Sicurezza…”, nemmeno blindata riesce a garantirla. La casa è per l’autore un corpo (“corpo casa”) che si restringe e si dilata, un organismo vivente che respira (“la stanza respirava”), uno spazio fisico e mentale, spigoli e superfici, soffitto e pavimento, “muri ricoperti dalla brezza / della tappezzeria infiorata”. La casa può essere anche soffocante, una specie di tana opprimente dove lo spazio si stringe e impedisce ai corpi di allungarsi e crescere, un rifugio angusto e posto sotto assedio: “Notizie da altri fronti / s’infiltrano sotto la porta, / diventano spifferi che / gli mutilano le caviglie, / chiude tutte le fessure sigilla / le finestre e gli scuri, / applica giornali sui vetri, / provviste sparse dappertutto”. Quelli di Miccia sono versi visionari che si esprimono con toni misurati e dista ccati e che sanno trasformare incubi, labirinti, allucinazioni, angosce e paure, in originale e profonda poesia.

Giancarlo Baroni

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