Nel nuovo libro di Andrea Di Silvana, si ha l’occasione di entrare in una specie di labirinto emotivo in cui parrebbe difficile decodificare tutte le istanze messe in campo dall’Autore. La raccolta è divisa in quattro sezioni, ma il pensiero martellante pare battere sulla medesima tonalità: il concetto dell’assenza e della rovinosa perdita dell’oggetto d’amore. A livellare il tono e la struttura delle varie parti è l’uso ripetitivo di certi termini che, lungo le varie sezioni, propongono formalità e cromatiche affini tra loro, nonché l’identica sintassi (frantumata e scossa da impulsi tellurici di notevole forza). Per la cronaca, le varie sezioni portano in cartello i seguenti titoli: “Notte insonne”; “Il volo”; “Giornalino” e “L’uomo di carbone” (nella cui trama si esplicita in modo scoperto il dramma del Poeta, ovvero la perdita della consorte). Non parleremo, qui, delle singole parti di questo progetto che ci appare, pur nell’anticipazione, compatto e identico in ogni sua parte. Il disegno, a livello estetico-retorico e morfologico, appare un tutto omogeneo, di stretta forma criptica, forse per dare un senso non del tutto autoreferenziale. In effetti, le parole sono disposte nel foglio secondo un codice che potremmo definire “inconosciuto” a livello di comunicazione: talmente cifrato da sperare di poterlo assimilare a livello epidermico. I lemmi posti in gioco sono dislocati in frasi-versi di ampia sconnessione; appaiono come inizio di un narrato arricchito, però, da un pastiche che riesce a confondere il significato che il lettore, probabilmente, non avrà ancora compreso. È qui che abita l’interesse per una tale impresa: non c’è noia, ma solo desiderio di leggere ulteriormente ciò che verrà compreso appieno nel tentativo successivo. Interessante è il notare, il ripresentarsi con frequenza elevata di termini reiteranti – quasi tutti aggettivi che indicano precisi colori dell’anima, del paesaggio psicologico che l’Autore percorre. Vi è come una lotta manichea tra il «nero» e il «bianco», tra il «chiaro» e lo «scuro» (declinati, questi ultimi, secondo le sfumature di tutto l’arco cromatico: «giallo», «grigio», «nero fondo», «rosso» e altro ancora). L’Autore si sta qui preparando alla vigilia dell’evento clou, la morte dolorosa dell’oggetto d’amore: si accinge a un tale, importante appuntamento con annunciazioni di fatica organica e psichica. Anche la funzione verbale è abbastanza limitata; più che agire, la situazione appare statica, pittorica e per nulla dinamica; non a caso appaiono, in questi testi, versi-frasi nominali. Nell’ultima sezione, il rapporto con la città è comunque un punto fermo che si altera solo nella funzione visionaria del lutto. Il colore del carbone si espande e crea metastasi in ogni anfratto dell’anima del Poeta. L’incedere lungo corpose vertigini è, in fondo, l’incertezza delle convinzioni: il Lutto (epifania dello stacco irreversibile) è sempre crudele, lucido e portato al massimo dell’esposizione all’evidenza.
Questi bianchi
un contrappunto
di bianchi di crema
di bianchi di neve
traboccano densi
sul marmo rosato,
bagnato
La raccolta converge verso la propria conclusione con i versi sopra citati. Si tratta della messa in versi di lampi di luce accesi dalla funzione ferale. Le spie cangianti degli avvertimenti lavano i marmi dei sacelli e svelano il primitivo colore rosa: la tempra-radice di un qualcosa che non può, che noi si sappia, rientrare nella dimensione temporale.
Gianfranco Fabbri
Alcune poesie.
Diluito nel giorno
canto lontano si frange
qui tre punti scivolano
dal vetro
in un’acqua di legno
frammenti di canto
scivolano lungo i labbri
d’una calda città-estate
si staccano
riempiono così
gli avvallamenti
di chiare lastre di sole
uno scivolare a spigoli
giù per scoscesi pendii.
**
Lembo di luce
fotogramma lattescente
opaco
del cassettone sfuggente
riposando decantando
colla polvere sul pavimento
su listelli di legno
lucido di sole torbido.
***
E i cani che giocano
colore del ghiaccio
pulito in fondo
a una discesa ragazza bionda
alta
gambe giovani capelli
raccolti in una coda
questa
una gora di silenzio
dove lascio che mi guardino.
Andrea Di Silvana (al secolo Andrea Bianchi) è nato nel 1960 a Torino, dove vive. Nel maggio dell’anno scorso, ha esordito come narratore con il romanzo breve Soltanto uno scherzo (Società Editrice Il Ponte Vecchio). Col vero cognome, ha pubblicato i volumi di poesia La stanza prosegue (Edizioni del Leone, 1990), Corvi spigoli neri (Edizioni del Leone, 1996), … sospeso teso / filo di luci… (Mobydick, 2002) e Abracacadarba (Mobydick, 2008). Nel 1995 ha letto i propri versi dal palcoscenico del Piccolo Regio di Torino, nella serata dedicata ai giovani poeti scelti tra gli autori presenti nei volumetti di Opere d’inchiostro, osservatorio permanente di poesia giovane della Città di Torino.