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PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI ROBERTO ZACCARIA, “CIELO DI METALLO” A RICCIONE.

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cielodimetallo_3FOTO PRIMO PIANO ROBERTO——————–

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Sabato 30 luglio, ore 17,30, presso Libreria BIANCA & VOLTA – Via Cilea, 16 – Giardini dell’Alba

RICCIONE

ROBERTO ZACCARIA

presenterà

CIELO DI METALLO

il suo ultimo libro

(L’arcolaio editrice, 2015)

Insieme all’autore interverranno il giornalista e musicista ALESSANDRO BUCCI

e la poetessa ANTONELLA JACOLI

DUE AUTORI ARCOLAIO FINALISTI AL PREMIO “SOLSTIZIO” DELL’ASSOC. LIBERO DE LIBERO: LUCA LANFREDI E DAMIANO SINFONICO

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IL TITOLO DICE GIA’ TUTTO. DUE “GERMOGLIETTI” DELLA CASA EDITRICE L’ARCOLAIO SONO BEN PIAZZATI AL PREMIO DELL’ASSOCIAZIONE “LIBERO DE LIBERO”. I DUE POETI RISPONDONO AI NOMI DI LUCA LANFREDI E DAMIANO SINFONICO. L’ EDITORE SI COMPLIMENTA CON LORO E SI DEFINISCE “ORGOGLIOSO” DI QUESTI RISULTATI.

QUI SOTTO, LE FANTASTICHE COPERTINE DEI DUE BELLISSIMI LIBRI!!!

iltempochesiforma treNuova immagine prototipo con prefatorelogo ARCOLAIO

UNA USCITA ESTIVA CHE RINFRESCHERA’, GIA DAL TITOLO, QUESTE GIORNATE INFUOCATE DI LUGLIO. MICHELE MICCIA, “IL CICLO DELL’ACQUA – PARTE DI MEZZO”

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Prefazione di Claudio Bagnasco     Come nei due precedenti lavori (Il ciclo dell’acqua – Parte di sotto e Il ciclo dell’acqua – Parte di dentro), anche in questa raccolta poetica Michele Miccia rit…

Sorgente: UNA USCITA ESTIVA CHE RINFRESCHERA’, GIA DAL TITOLO, QUESTE GIORNATE INFUOCATE DI LUGLIO. MICHELE MICCIA, “IL CICLO DELL’ACQUA – PARTE DI MEZZO”

UNA USCITA ESTIVA CHE RINFRESCHERA’, GIA DAL TITOLO, QUESTE GIORNATE INFUOCATE DI LUGLIO. MICHELE MICCIA, “IL CICLO DELL’ACQUA – PARTE DI MEZZO”

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ciclodellacqua2 PROTOTIPO ESATTO

Prefazione di Claudio Bagnasco

 

 

Come nei due precedenti lavori (Il ciclo dell’acqua – Parte di sotto e Il ciclo dell’acqua – Parte di dentro), anche in questa raccolta poetica Michele Miccia ritiene il corpo unico strumento di conoscenza: non a caso, tra le parole più ricorrenti troviamo sangue e carne, oltre ad acqua, quest’ultima eletta a portavoce della resistenza del mondo alle umane interpretazioni: “questa acqua incolmabile”, p. 1, “L’acqua è incomprimibile”, p. 34.

Ma ne Il ciclo dell’acqua – Parte di mezzo lo sguardo di Miccia si restringe e, nel contempo, si acuisce. Centrale non è più l’indagine del corpo in relazione, appunto, al mondo, bensì quella della relazione tra corpi.

Ci troviamo innanzi a un concetto tanto semplice quanto implacabile: ogni rapporto poggia, in fondo, su una mancata coincidenza, giacché due corpi non possono trovarsi in un medesimo istante nella stessa porzione di spazio (“Il tuo spazio e il tuo tempo/ non sono stati nostri”, p. 5). Ma ogni mancata coincidenza libera il desiderio, declinabile ora in una rincorsa, ora in una memoria, ora addirittura in una sorta di pedinamento affettuoso: “Tu esci e io ti seguo dopo/ a tua insaputa per/ indovinare la/ scia”, p. 4.

I rapporti tra corpi, per loro stessa natura, non solo non saranno mai mediati dal ragionamento, ma dei corpi avranno talora l’intempestività e l’irruenza. Potranno insomma essere rapporti, fuor di metafora, dolorosi: “Arrivasti come una / fitta improvvisa al fianco”, p. 12; “Un corpo contro corpo / io e tu”, p. 20.

Da questa prospettiva, ancora una volta la poesia di Miccia rimane ben al riparo da qualunque retorica, da qualunque stolida tentazione sentimentale. Anche le relazioni amorose, giocate in questo piano di costante asincronia, non potranno giungere ad alcuna stabilità. Ciò a cui forse una coppia può ambire è una complicità nella corsa indefessa verso un fantomatico punto d’equilibrio (“Non possiamo fermarci / tu ed io, dobbiamo sempre / procedere come una / bicicletta”, p. 11).

La comunione parrebbe davvero impossibile, per le figure messe sulla scena da Miccia. Eppure, nella coda della penultima poesia, si leggono due bellissimi versi, proiettati verso un orizzonte inedito. Nel quale l’altro (ma è un altro orizzontale o verticale? È discendenza o trascendenza?) riesce a scorgere l’unità laddove noi percepiamo la dualità: “solo un terzo distante / coglie un canto all’unisono”, p. 89.

Come se ogni rapporto, nell’immediatezza così simile a uno scontro, trovasse il proprio senso profondo altrove. Come se ogni rapporto fosse un atto di altruismo assoluto. Un sacrificio di sé.

Alcune poesie tratte dal libro:

 

Il vaso è stato rotto,

le parole scappate,

fluidi tu e io scorriamo

in questa acqua incolmabile

che sempre ci precede,

riflettente di luci

che dilatano le

città fino agli estremi

effetti del martirio,

noi circoncisi con

l’oblio del suo fango,

scanditi esattamente

dalle feste di cui

non conosciamo le

nascite e l’eroe che

le fissò col suo sangue,

i sacrifici che

infine a noi seguirono,

strappandoci dagli astri.

***

Non possiamo fermarci

tu ed io, dobbiamo sempre

procedere come una

bicicletta che scorre

senza cadere per

minuscoli e invisibili

aggiustamenti di

traiettorie e tensioni

a formare una scia

senza ripensamenti.

***

Alla fine del mio

corpo, dove più fluido

è il mio sangue e certo

più propenso a sbagliare,

ci sei sempre tu come

un mare abbacinante

che chiude l’orizzonte

a ogni barca che vi

si inoltri, qui la mia

pelle è una successione

di suoni non capaci

di durare, la premi

con le tue dita e spuntano

vuoti di melanina,

macchie bianche su cui

non attecchisce il sole.

***

Trattieni il seme a oltranza,

nel caso di una lunga

carestia saprà

il tuo corpo dove attingere

per la sopravvivenza

prosciugandolo in sangue,

ti ingolfi per restare

a terra, avere più

peso per sprofondare

in un delirio di

pienezza, io invece voglio

frammentarlo e carpirtelo

in tanti appezzamenti

di latifondo per

tutte le bocche della

futura discendenza.

***

Attraverso la tua

pelle sono visibile,

se esco non sono nulla,

ho una mia forma solo

in te, con me scadrà

la tua vita se credi

d’espellermi, devi

tenermi col guinzaglio

così non capiranno

chi porta l’altro, se

ti ammali ti accudirò

a condizione che

tu accetti la mia forma,

anch’io accetto la tua,

ci estingueremo insieme

con doppio peso morto.

***

Ti sei fatto cremare

per occupare meno

spazio di quello già

esiguo che tenevi

in vita, l’urna con

le tue ceneri mi

è ora vicina e tutte

le sere parlo e mi

confido coi tuoi resti

che adoro più di quando

fosti carne e ossa, mi

rispondi senza l’enfasi

della gioventù e io sto

bene ora che hai placato

le tue mire, per questo

equilibrio d’amore

innalzerò la nostra

casa comune, muri

di mattoni legati

con un impasto di acqua

calce e queste tue ceneri

che mi hai consegnato.

LUCA LANFREDI, SECONDO CLASSIFICATO AL PREMIO “CITTA’ DI COMO”, PER IL LIBRO EDITO “IL TEMPO CHE SI FORMA”

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I VINCITORI DEL PREMIO “CITTA’ DI COMO” ANNO 2016

 

LIBRO EDITO SEZIONE SENIOR

TANTI COMPLIMENTI AL NOSTRO LUCA!!!

 

 

La sezione “Poesia edita è stata vinta da Alessandro Ceni con “Combattimento ininterrotto” (Effigie, 2015): una forza vorticosa e mortale anima queste pagine e le conduce nel centro del terremoto. Il paesaggio toscano – città o compagna – viene sfigurato e scagliato in una notte cosmica e turbolenta, in un uragano del mondo che è anche “uragano delle parole”, come scrive Ceni all’inizio del suo viaggio inaudito. Nulla viene risparmiato: maschi, femmine, bambini, auto, fiori, ospedali sono rovistati da uno sguardo impietoso e sterminatore che scova e fa risuonare il grido segreto e sotterraneo di ogni creatura. Ceni scrive qui il suo moderno De rerum natura con la stessa furia espressiva del suo grande antenato.

Premiati anche Mariangela Gualtieri che ne “Le giovani parole” (Einaudi, 2015) fa scaturire i suoi grandi archetipi dalle minime occasioni domestiche, con un movimento continuo dal basso all’alto, dal corpo al cosmo, e Luca Lanfredi con “Il tempo che si forma(L’Arcolaio, 2015), un invito a meditare sul senso del tempo che mette in scena la realtà e la memoria, e i loro echi fonosimbolici, attraverso lampi, flash e apparizioni.

(Brano tratto dai risultati ufficiali del premio)

 

GIACOMO CERRAI RECENSISCE, SU IMPERFETTA ELLISSE, “CHIARO DI TERRA” DI ANTONIO PIBIRI.

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chiaroditerra DEFINITIVO

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Antonio PibiriChiaro di terraL’Arcolaio, 2016

 

Nel precedente lavoro di Antonio Pibiri, Le matite di Henze (Lampi di stampa, 2015, v. QUI), avevo brevemente accennato ad un suo utilizzo dell’indizio, di oggetti, luoghi e fatti da cui far derivare una soggettiva, uno sguardo ascendente o discendente verso altri livelli, verso considerazioni, conclusioni, spesso non necessariamente correlati, come di un pensiero che vaga, che non procede tanto per associazioni o metafore o idee che poi verbalizza, ma che talvolta lega l’espressione a un suggerimento che viene direttamente dal linguaggio e dalla parola, da una intravista possibilità di percorrerli ad libitum, scegliendo di volta in volta ad ogni bivio. In questo Pibiri mostrava un certo talento, nel riconoscere alla scrittura una capacità di “farsi”, di trovare da sé strade inaspettate, e alla parola, a volte con qualche eccesso, quella di svuotarsi di senso e riempirsi di suono o di un senso diverso e distante, se non di una particolare insensatezza.

In questo libro questo stile sembra riproporsi, tanto che Davide Zizza nella postfazione parla di kènosi, ovvero di “«svuotamento» della parola per riproporla in un lucore slegato dalla pura referenzialità” ma con l’intenzione di superare le due categorie di sostanza e forma, a cui tradizionalmente un poeta è legato, e di recuperare una “vibrazione sonora e tersa” dell’enunciato. In effetti al termine di una prima lettura di molti dei testi di Pibiri non sempre si afferra immediatamente il senso o meglio la funzione per così dire narrativa (o fàtica) che essi hanno. Eppure, al di là di un certo innamoramento della parola che a volte emerge dai testi, bisogna poi almeno riconoscere una qualità impressionistica di questi testi, come se l’utilizzo del linguaggio fosse più che altro rivolto a rendere le percezioni dello sguardo, le impressioni appunto, il valore iconico della realtà, non tanto il suo senso, o il mero riflesso delle cose, ma una referenzialità altra e diversa. Non è certo un caso che nel libro si citino diversi fotografi (Adams, Freed. Cornell Capa, Arbus) ma anche i pittori, il Doganiere o Henri Michaux ad es., ma anche la fotografia non è, non deve essere necessariamente, immediatamente significativa o documentale, almeno da quando ha assunto valore di arte (lsi leggano Benjamin, Sontag, altri) uscendo dalla registrazione sociologica. E non casuale il riferirsi alla luce, ai chiaroscuri, ai colori (anche rovesciandone l’apporto: “se nero su sangue è coccinella”), alle penombre che avvolgono i corpi, alle linee che talvolta non solo danno una forma su cui sostare con lo sguardo ma anche diventano direttrici dello sguardo stesso (v. come esempio Due studi sul corpo inclinato). In altre occasioni invece, dove necessaria, spunta una scrittura orgogliosamente assertiva, come in Fragmentation, interessante assemblaggio di versi fatti quasi tutti di frasi compiute, una specie di décollage alla Mimmo Rotella.

Al di là di queste brevi considerazioni, tuttavia poi a un’idea del mondo la poesia deve corrispondere, anche nel più ostico dei testi, generalmente parlando. Una strada è seguire i riferimenti culturali (quelli fotografici e pittorici lo sono in relazione all’approccio descrittivo alla realtà di Antonio), come ad esempio in Cos’è Antigone, cosa non lo è in cui la evocazione del personaggio sofocleo restituisce il senso a un testo apparentemente inopinato fin nel finale ma carico di senso etico. L’idea del mondo (usiamo questo termine) di Pibiri è per certi versi sur-reale, anche se in definitiva la sua è una poesia che viaggia quanto meno su due piani, uno che potremmo chiamare sensibile, in cui la realtà oggettuale è centrale, in cui si afferma una vena lirico-elegiaca (v. ad es. Talismani, tonalismi – e l’accenno ad una tecnica pittorico/musicale ha anche qui il suo senso) che parla delle ripercussioni dei fenomeni della realtà sulla esperienza del poeta; l’altro che potrebbe essere definito come ricerca di una metafisica della parola, di una sua fluidità semantica, di quella “vibrazione” di cui parla Zizza, un suono, non necessariamente subito assimilabile, che proviene dalle cose e dai fatti, ma che comunque punta a quella “altra faccia” che il titolo suggerisce. Una ricerca c’è ed è evidente, in questo libro senz’altro più unitario e maturo, ma è di quelle che comportano una certa difficoltà e un notevole senso di responsabilità affinchè la parola non si svuoti troppo, precipitando in una kènosi acuta. L’imperativo è, come scrive lo stesso Antonio, fare in modo “che la parola non sia foglia / a coprire il tuo sesso”, non sia una foglia di fico, un mascheramento, un’omissione, una reticenza del dire.

 

                                                                                              GIACOMO CERRAI

 

SALVATORE BARBIERI INTERVISTA EUGENIO VITALI IN MERITO ALL’USCITA DEL SUO ULTIMO LINRO “LA TRACCIA”

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la traccia

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IL CORRIERE DI RIMINI E SAN MARINO

L’INTERVISTA

EUGENIO VITALI, UNA “TRACCIA” IMPERITURA.

Il poeta ravennate pubblica per l’arcolaio

una nuova raccolta introdotta da Davide Rondoni.

ARTICOLO DI Salvatore Barbieri

Ravenna. Con un’intensa introduzione di Rondoni, è in libreria la nuova raccolta di Eugenio Vitali. Tra ricordi e prospettive. E in appendice alcune acute pagine di aforismi.

E’ una “traccia” che si dipana lunghissima quella che dà al titolo alla nuova raccolta del poeta ravennate Eugenio Vitali, uscita in questi giorni per i tipi de L’Arcolaio di Forlì con una copertina di pregio illustrata da Roberto Pagnani e un’acuta appendice di aforismi. Vitali si concede al lettore a piccole dosi. Nel 2010 era apparso un suo mirabile su L’Almanacco dello Specchio per Mondadori, mentre è del 2012 il libro  “Le sabbie del sole”.

In questa nuova raccolta il poeta ripercorre il senso della vita, dall’oro del grano nelle estati della giovinezza (“A sera conclusa, / la casa / diventava suono / nell’aia. / Ci appoggiavamo / su panche di vento, /mia madre un libro di favole, / sul suo volto un’ombra / lasciata intattadal sole”) fino alla consapevolezza della traiettoria finale (“Fu un attimo. / Caddi da un tetto (…) I ricordi / avevano dimenticato i cammini”).

Dice bene su “La traccia” un altro grande poeta, Davide Rondoni che del libro firma l’introduzione: in Vitali “c’è una energia non alternativa e non di segno opposto, di certo non egocentrica, ma attenta a considerare il grande mistero dell’ “io”. Dell’uomo che pronuncia “io” nell’universo e si rende cosciente di una differenza vertiginosa e misteriosa. Una identità e alterità sperimentale secondo quello che ha scritto il genio di Charleville, Arthur Rimbaud, che gridò al centro della poesia moderna, sconfiggendoneogni sicumera espressionista, egoista e avanguardista di bassa lega: “J’est un autre” – io è un altro (…)”.

Vitali, quanto di autobiografico ritroviamo ne “La Traccia”?

“Parlerei di autobiografia universale. I temi sono a tratti autobiografici, certo. Ma narrati per essere colti come personali da ogni lettore. Montale diceva che tutto quello che può fare un poeta è scrivere, poi la sua poesia non gli appartiene più”.

Eugenio Vitali è in effetti poeta di lungo corso, negli anni ’70 sorprese l’Europa con il “Libro d’affissione”, manifesti giganti di poesie sui muri delle città italiane, dal Veneto alla Sicilia. Classe ’34, dodici raccolte alle spalle, premi come il Dino Campana e il Moncalieri, liriche pubblicate in Francia, Germania e Polonia, e un’intera silloge tradotta nel 2016 nella Repubblica Ceca da Zdenek Frybort – l’indimenticabile traduttore del “Il nome della rosa” di Eco.

“Nella mente un angelo di vetro, / l’universo ti imitava”: inizia così la poesia che lei dedica proprio a Frybort in questo libro.

“Frybort è stato un amico vero. Ci ha lasciati e ci manca. Amava l’Italia e Bocca di Magra dove aveva trascorso lunghi periodi con Einaudi, Fortini. Sereni in quell’angolo di Paese che negli anni Settanta pulsava di cultura. E veniva spesso a Ravenna dove aveva incontrato quella che sarebbe diventata la sua compagna di una vita”.

C’è, in effetti, ne la “Traccia”, più di qualche poesia dedicata agli affetti perduti, per lei amici prima ancora che scrittori, come quella per Roberto Roversi (“Sapevi vestire / di un solo colore le bandiere”) o quella per Maria Luisa Spaziani.

“Sono assenze che pesano a me e al nostro Paese. Del resto, con gli anni, inevitabilmente la poesia della “memoria” si allunga. Ma la “La traccia” guarda soprattutto avanti, come nella poesia dedicata alle mie nipoti, Lucia e Serena, o in quella per l’amico e poeta Nevio Spadoni”.

Ravennate anche Spadoni, in effetti Ravenna nei suoi libri non manca mai…

“Non può mancare. E’ gli anni che ho sulle mani”.

Uno dei versi dedicati alla sua città in questo libro?”.

“E la nebbia su Ravenna / si attarda / rateizzando la vita”).

A concludere “La traccia”, una raccolta di aforismi, ce ne citi uno.

“Il viaggio è l’alibi per potersi attendere”.