Nota di Matteo Fais pubblicata nel blog-rivista “IL DETONATORE”
Attenzione, questa recensione non è uno scambio di cortesie fra amici, ma un atto di consapevole apprezzamento.
Conosco Andrea Italiano di persona. Ho dormito a casa sua, mangiato alla sua tavola. Anche lui, come me, isolano e isolato, ma sull’altra disgraziata bagnarola del Mediterraneo, la Sicilia.
Andrea vive in un paesino che ricordo come decisamente grigio e triste, Barcellona Pozzo di Gotto. Lavora in un magazzino fetente, dove si smerciano prosciutti e altri articoli da ristorante e market. È laureato, ma non ha certo paura di sporcarsi le mani e – questa è la cosa più importante –, quando si siede a scrivere, lo fa con le dita ancora sudicie, la nausea della fatica e negli occhi la pece che il giorno gli ha depositato sull’iride.
La coca, la sua ultima raccolta uscita per L’Arcolaio Edizioni, è esattamente ciò che la poesia dovrebbe essere nel nostro tempo, ma che i suoi massimi rappresentanti, cazzari borghesucci, non vi daranno mai. Niente stronzate, panorami mozzafiato, paesaggi di ineffabile purezza, uccellini del menga che col loro canto pervadono l’atmosfera di placida armonia.
L’ultima raccolta poetica di Andrea Italiano, La coca, L’Arcolaio Edizioni.
Italiano è un poeta metropolitano, un Simone Cattaneo a Sud di nessun Nord, il versificatore di una globalizzazione in cui il mondo è collassato su sé stesso. Per lui, come per tutti noi, la natura è morta in questa società tecnologica che, per dirla con il terrorista Theodore Kaczynski, “è stata un disastro per la razza umana”. La fine di essa è ben rappresentata dal gatto spappolato sull’asfalto che sta “sulla strada non raccolto da nessuno/ e le macchine a passarci sopra/ ne hanno sparpagliato la carne/ alla fine è rimasto pellame trasparente/ sfrigolante come alluminio sotto il peso delle gomme”. Altro che queste mezze seghe che vivono soffocando tra le polveri sottili di Milano e, nelle loro rime, sembrano tutti residenti in una campagna incontaminata dell’800.
Andrea Italiano è uno dei pochissimi a mettere in rima il nostro mondo liquido di tragedia e solitudine, di rapporti umani ormai ridotti a sovrumana e siderale distanza. Ci sono le buttane, come le chiama lui, che a notte scendono in strada e hanno “già la fica di fuori”, ma “quando ci passi accanto/ ti guardano con gli occhi dello schifo/ ti odiano come odia un sopravvissuto,/ per questo gridano perché io sì e tu no”.
C’è la fatica e la merda che è il mondo del lavoro – altro che nobilitare l’uomo: “Il padrone ha deciso così/ il giorno di Natale/ resteremo chiusi/ (cartello giallo sulla porta affisso da me)./ Uso ancora la parola padrone/ per dire datore di lavoro proprietà/ o nella declinazione locale il principale,/ parola da museo come cuore o poeta/ eppure la uso ancora due o tre volte al giorno/ questa parola me la giro in bocca come fosse caramella/ e poi la sputo con soddisfazione”.
Non troverete menzogne consolatorie o sdolcinatezze leziose in questi versi. Probabilmente, lui non vorrebbe neppure essere chiamato poeta, perché “quelli che fanno letteratura si sopravvalutano/ e solo i raccomandati qualcuno se li ricorda dopo morti”, mentre la vita è prosastica, come passare “il resto della serata a guardare facebook/ e instagram dove mi ritrovo solo culi di estetiste / commesse povere che fanno le dive del cinema/ ma abitano case popolari”.
No, nella lirica di Andrea il solo spazio concesso è alla verità, alla cronaca che diviene verso strozzato in gola, quotidiano annichilimento, morte sociale e spirituale, da cui i poeti laureati si tengono a debita distanza, (“Un poveraccio di 38 anni è morto/ pare che avesse guidato 16 ore di fila/ il giorno prima 16 pure/ e così senza riposo da una vita/ gli dicevano che si sarebbe riposato da vecchio./ S’è ribaltato per colpa loro,/ il vento non c’entra nulla”).
La coca è un piccolo breviario del caos da portarsi sempre dietro in tangenziale, per recitare versi di dolore alle puttane nigeriane, o da usare sul posto di lavoro, di taglio, per spaccare la testa al titolare assetato del vostro sangue.
Presentiamo oggi Guido Caserza al suo ingresso in Casa Arcolaio. L’autore ligure è noto per le numerose opere di poesie e per quelle di narrativa. L’anno scorso è risultato vincitore al Premio Lorenzo Montano, sezione poesia edita. L’opera in versi consta delle seguenti pubblicazioni: Allegoriche (Oèdipus, 2001), Melebolge (Oèdipus, 2006), Priscilla (ancora Oèdipus, 2008), Flatus vocis (Puntoacapo, 2014), Opus papai (Zona, 2016), Resto due (idem, 2018), L’inganno della rosa (Dei Merangoli, 2018), Opus papai II ( Oèdipus, 2019) e Fukushima dai-ichi nuclear fish (Fiorina, 2021.
Pubblichiamo, qui sotto, una parte della prefazione di Marco Berisso, poi riporteremo alcuni testi delle varie sezioni ed infine uno scampolo della post fazione scritta da Francesco Denini.
Buona lettura.
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Tra le ormai molte raccolte con cui Guido Caserza ha percorso un pluridecennale, rigoroso lavoro di poesia, quella che si sta per iniziare a leggere è sicuramente la più radicalmente impervia alla decifrazione. Occorreva davvero il grimaldello nutrito di sapere filosofico di Francesco Denini (sua la postfazione) per riuscire ad aprirne almeno alcune zone all’accesso dei lettori: e questo esime me, per questa volta, dall’affrontare un’impresa che mi sarebbe quasi impossibile. Mi limiterò allora a cercare di spiegare in cosa consiste, ad un approccio tutto di superficie, quella scontrosa ostilità che le poesie che formano Masoniti, pure così brevi da ricordare l’epigramma, non fanno mai a meno di dimostrare. Il primo elemento è naturalmente la presenza ossessiva della morte. Che non è, sia chiaro, motivo nuovo nei versi di Caserza: anzi, si potrebbe dire che nel segno della fine è iscritta tutta la sua poesia. Soltanto che questa volta la morte è diventata letteralmente lo spazio fisico entro cui i versi si aggirano, le pareti di quella casa che è centro fisico della raccolta e suo motivo aggregante. (…)
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La cifra comune sta proprio nella presenza di una vistosa ipoteca che possiamo dire genericamente paterna e che da Opus papai si trasferisce qui, tra le pareti della casa, nella sua oppressiva e pervadente pressione. In una specie di dimensione carceraria o addirittura manicomiale l’io poetico arriva insomma a subire, ancora una volta, la presenza autoritaria del Padre. E la poesia di Caserza, in questi anni così cupi, continua a perseguire una sua rigida disciplina: quella del rifiuto inappellabile di ogni forma di consolazione.
Il memento mori non è un gioco, ma gioca un ruolo anch’esso non primario, solo di apparente primo piano, ciaccona di un niente di colpa che si ritrova esistente, proveniente da un niente, per un’inquisizione minimale che è traccia anch’essa della perdita d’ogni connessione: se Dio non c’è, ancora qualcosa non è permesso, ma non si sa più cosa. Il tempo è perduto coi suoi tribunali. L’essere stesso appare specchio di un miraggio del “vivere residuo”. Non c’è più società, forse non c’è mai stata, non c’è individuo che la divida e condivida. Non c’è che un salto da un non-essere a un non-esistere, se non locali, casuali, accidentali.
Ogni libertà sembra slabbrarsi contro occasionali necessità. Senza aura e senza altrove, la lirica e l’allegoria sociale de Il Dauada sembrano tornare svuotate, quali ombre di comparse che della soggettività hanno perso ogni supporto. Gli echi leopardiani stessi sono soggetti a questa sorte: il venir meno dell’auto-riconoscimento umano che ne consegue è il padre/figlio di ogni perdita di riconoscimento sociale.
D’ogni antica libertà, nostra e altrui, vera o presunta, è rimasto un residuale senso di colpa. Questo residuo di colpa è tutto quel che resta di una tradizione di poesia filosofica che è comunque tra gli echi di memoria di Masoniti; filosofia, si intende, che, dopo aver irriso ogni critica al dualismo allegorico, ogni dinamica memoria creatrice, sembra sospettare in questo residuo di colpa l’eco sibillina di un’indimostrabile smentita, di una pur estenuata prosecuzione dinamica, di un qualche “nessuna delle due parti ha avuto ragione”.
Nota critica di Luciano Benini Sforza sull’ultimo libro di Gabriele Gabbia, “L’arresto”.
Casa editrice L’arcolaio – Collana Rossa, 2020
Nella silloge di versi L’arresto (L’arcolaio, 2020), Gabriele Gabbia testimonia una poetica della negatività e una concezione della vita basata sulla nullificazione, sull’erosione continua delle cose e delle vite. Il lessico negativo, legato a precisi campi semantici relativi all’assenza, alla mancanza, alla sparizione/morte, lo attesta con precisione. Nella raccolta, non figurano falsi miti consolatori o consumistico-edonistici, nessun inno alla nostra società “liquida” e mercificata. L’unico “varco” minimo, residuo è, semmai, la grande e severa onestà intellettuale: la lucida capacità di circoscrivere e perimetrare la nullificazione con sontuosa, ardua, sublime e immaginosa forma linguistica ed espressiva, qua e là più fruibile, ma sempre alta. “La parola che scardina / e rimuove redime”, leggiamo non a caso in uno dei testi, in modo emblematico, con un enjambement che rompe il flusso testuale, quasi mimando la rottura, l’erosione dominanti, e con un’allitterazione della “r” che rimarca energicamente il concetto. Scorgendo attentamente la plaquette, si nota inoltre la sapienza con cui l’autore sa terminare i componimenti, con chiusure spesso perentorie e ricche di significato, sentenziose e pregnanti, come per un’assidua volontà di ricavare dal nulla una massima, un insegnamento, un grumo di sapere profondo, che al tempo stesso sembrano graffiare qualsiasi facile ottimismo o schematismo ideologico dolcificante. Il tutto avviene sempre con una consapevole, lucida, severa onestà intellettuale, ancora riconfermata per quest’ultima via, in quest’ultima modalità: la conclusione segnata da un sapere sentenzioso, concettuale tutto negativo e demistificante, da consegnare al lettore e alla sua memoria.
Sono sei i volumi dedicati al Ciclo dell’acqua di Michele Miccia, pubblicati dalla nostra casa editrice. Un lavoro, l’insieme delle raccolte, che merita attenzione. Trascriviamo qui sotto l’intervento di Camillo Bacchini che analizza le parti salenti e la tematica di quest’ultima fatica del poeta.
Inseriremo poi alcuni testi per rendere edotti gli amici su questa nuova parte.
Buona lettura!
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Questo volume è il settimo capitolo di un’opera poetica complessa, di ampio respiro e ancora in fieri, che si costruisce per fasi nell’arco di circa un decennio e che rappresenta, considerata nel suo insieme, lo sforzo, da parte dell’essere umano, di sollevarsi dalla materia allo spirito. Il ciclo dell’acqua. Parte di sotto, 2011; Il ciclo dell’acqua. Parte di dentro, 2014; Il ciclo dell’acqua. Parte di mezzo, 2016; Il ciclo dell’acqua. Parte di fuori, 2017; Il ciclo dell’acqua. Parte del ristagno, 2019; Il ciclo dell’acqua. Parte di sopra, 2020 sono le precedenti tappe (e i precedenti volumi) che segnano questo articolato e sofferto percorso di conoscenza e trasformazione. L’elemento veicolare di questa operazione, che a tutti gli effetti definirei bio-letteraria, compiuta da Michele Miccia (Micciantuono, al secolo) è l’acqua. Individuata quale essenza del tutto, come nel pensiero originario di Talete, è carica da sempre – e dunque portatrice – di significati simbolici legati alla vita e alla purezza. Ma è anche in grado, in virtù del principio di movimento cui è associata, di raccogliere gli accidenti, di invischiarsi in e con essi per dar origine a forme più complesse (la vita), come pure di abbandonarle (la morte) riconducendole ad altre forme (di nuovo, la vita). Si rammenti, a questo proposito, Shakesperare, in un celebre suo passaggio:
“…and your water
is a sore decayer of your whoreson dead body”. [1]
Tutto questo, naturalmente, l’acqua compie pur rimanendo sempre fedele a se stessa, ovvero incisa nell’impalcatura del mondo in quelle due lettere associate a quel numero che ne scrivono la molecola ab aeterno. Il sotto e il sopra, del resto, con tutte le loro declinazioni (il dentro, il mezzo, il fuori, il ristagno) sono sì situazioni dello spazio, ma sono pure archetipi e simboli di bene e male, anch’essi, ab immemorabili tempore. Sotto, sopra: Inferno e Paradiso, assunzione e decomposizione, salvezza e dannazione. Basti pensare, per questo, soltanto ai significati del sopra/sotto nell’iconografia dei giudizi universali sui portali delle cattedrali gotiche, oppure nella struttura dantesca della Commedia; come pure alle strutture compositive delle immagini della Controriforma e persino nell’impalcatura del manifesto pubblicitario dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti [2]. Ecco dunque che attraverso il meccanismo del sopra e del sotto e alla sua simbologia la metamorfosi tramite il veicolo acqua diviene in Miccia allegoricamente un atto, anche e pienamente, etico. Tra il bene e il male, tuttavia, si pone una miriade di condizioni intermedie. In particolare, si pone come condizione intermedia imprescindibile (o, meglio, mista, ovvero partecipe della doppia polarità) la malattia. Concepita come errore per quanto riguarda il singolo individuo – un difetto, una distrazione del e nel funzionamento del corpo – è invece contemplata come elemento necessario nel sistema del tutto, perché è giustificata quale inizio della metamorfosi in altre forme di vita. È anche rappresentativa, se vogliamo guardare il rovescio della medaglia, della resistenza dell’individuo alla metamorfosi, al cambiamento, al passaggio ad altra forma. Ma la Natura, leopardianamente, conserva se stessa, non curandosi delle sorti del singolo. Il corpo avverte su di sé l’azione dell’acqua che si modifica per raggiungere un altro stadio nel ciclo. Questo libro, in fondo, è una autobiografia perfino diaristica in cui Miccia registra, commenta e interpreta i segni e le tracce che l’acqua lascia (all’interno del suo libro–corpo) nel suo continuo movimento; e ne fa scrittura, ritmo, verso. Il processo è simile a quello che avviene nella Montagna incantata di Mann: Settembrini, il logorroico, sottile intellettuale dalla costituzione fragile che noi tutti abbiamo in certo qual modo amato, ad un certo punto del soggiorno montano, coatto e metafisico, fa notare ai suoi amici come nella malattia il corpo assuma con arroganza tendenze preponderanti. Diventiamo tutto corpo. Il corpo prende la regia. Sensibili alle minime variazioni del suo stato, ascoltiamo solo quello. Ecco, Miccia crea uno spazio – quello della letteratura – in cui, grazie all’ascolto e alla scrittura, corpo e spirito tendono nella stessa direzione, risolvendosi in una medesima simbiotica coesistenza. Man mano il corpo avanza, lo spirito non retrocede, in una sintesi che solo in poesia (quella vera) si può verificare. La Musa, dunque, non è solo razionale, o, ancorché parzialmente, emotiva: è fisica. Interessa, nel modo suddetto, anche il corpo. Proiettando uno sguardo di insieme, considerando cioè l’opera di Miccia nella sua totalità, dal primo libro del 2011 sino a questo (al netto cioè dei successivi possibili, che però sappiamo essere in fase di composizione), possiamo dunque affermare che il percorso interessa le tre animae aristoteliche. Quella vegetativa sino alla parte di fuori e nelle successive quella sensitiva, con particolare attenzione alla quale soprattutto in questa Parte della sospensione, ove si sta avviando ad anima razionale. Questo, tuttavia, è un percorso di prevalenza: in realtà Miccia fa coesistere le tre anime aristoteliche in tutti i suoi libri, in tutte le sue fasi di elaborazione; ne dosa soltanto le percentuali in modo diverso.
Quanto al significante, esso rispecchia la struttura, le sembianze e la fatica metamorfiche di cui tratta l’opera stessa. E dev’esser così in e per ogni lavoro che abbia l’ambizione d’esser importante (in se stesso, si badi, non già nell’autore, di carattere straordinariamente schivo e modesto, in un mondo, come quello di oggi, di protagonisti dal trucco fragile). In che senso, dunque, avviene questa corrispondenza tra forma e contenuti? La cadenza del verso tende a divincolarsi dalla struttura metrica che la trattiene a stento con assenze improvvise, con una elasticità che fa pensare a un traboccare della riflessione – il verso di Miccia è di volta in volta soliloquio e monologo interiore, un sussurro tra sé e sé, come ha scritto Paolo Briganti – attraverso le maglie sempre più lente della metrica, con enjambement che spesso s’appoggiano al verso successivo. Questo traboccare, con rallentamenti e spinte imprevedibili, fa pensare appunto all’acqua e ai suoi mille rivoli. Ai suoi percorsi carsici. Se si considera invece il procedere formale di Miccia complessivamente, cioè fin dal primo libro del Ciclo dell’acqua, si avverte un secondo divenire: se si fa attenzione, si nota che il primo versificare era più legato, intriso di fango, come una voce che si apra per la prima volta al mondo gorgogliando, o un corpo che si divincoli progressivamente dalla materia, come nelle sculture di Henry Moore. Del resto, per non abbandonare il termine di paragone scultoreo, credo che se Miccia fosse obbligato a passare la notte in un museo, sceglierebbe quasi senz’altro il Louvre, perché vi sono conservati i Prigioni. Non è un caso, per Miccia, che l’immagine offerta dalla tradizione vasariana a spiegare questi celebri non finiti di Michelangelo sia proprio quella dell’acqua che se ne va progressivamente svuotandosi e lasciando libero il corpo in essa sommerso. Il sistema organizzato di Miccia, così come viene delineato nel Ciclo, rappresenta dunque la vita che si libera e dipana dal brodo primordiale e la morte come passaggio obbligato del meccanismo, il ciclo dell’acqua venendo a identificarsi dunque con il ciclo stesso, va da sé, della materia. Ed è qui che si apre un problema. A Miccia non interessa (solo) descrivere o rappresentare in termini meccanicistici. Interessa risolvere. Dal ciclo della materia non si esce. Miccia invece vuole uscirne. Vuole rimanere. Non tanto sotto forma di molecola, o di corpo, o di acqua o di generico, evanescente ricordo. Vuole rimanere come individuo. Vuole, dunque, ecco il punto, una ulteriore metamorfosi, una mutazione che operi un salto qualitativo. Spirito? Anima? Parole grosse. Eppure, la parola Dio non è ignorata, anzi. In questo libro compare sette volte, anche se con la lettera minuscola. Altrove, anche con la maiuscola. È come se Miccia, con il proprio lavoro, volesse attendere essenzialmente a tre adempimenti. Il primo: inserire la propria vita particulare in un sistema naturalistico e simbolico di carattere sovraindividuale ove poterne individuare e spiegare il coerente (o perlomeno un coerente) funzionamento. Il secondo: vivere questo inserimento come una progressiva catarsi. Il terzo: esprimere questo sistema in scrittura (in versi), ovvero nell’unica definitiva forma di immortalità (come scrisse il Foscolo) su questa terra.
[1] È l’acqua il nemico più grande di quello schifo che è il nostro cadavere”, Amleto, atto V, scena I
[2] Cfr. Arturo Carlo Quintavalle, Manifesti. Storie da incollare, Milano, Rizzoli, 1996.