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POST GIUGNO 2006

sabato, 24 giugno 2006

BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O EMERGENTI N.19

  

La poesia di Antonella Pizzo è come presa da furia energetica che equamente si divide in due parti distinte: la prima -tragica, da ultima spiaggia-  ha tutte le complicanze che l’esistenza offre all’uomo moderno; la seconda invece, assolutamente godibile, se non addirittura comica, è alle prese con i lati ridicoli del mondo d’oggi. Con tali possibilità espressive, questa nostra amica siciliana può permettersi di dire tutto quello che desidera, senza adontare gli spiriti rigidi e moralistici. Nella sua ultima raccolta, ancora inedita, “ I morti non sono nervosi”, c’è di tutto: spicca il corrosivo in versi –lo sberleffo diretto ed dirompente-; si allude ad un registro alla Palazzeschi, con la descrizione di molteplici specie di fiori, quasi a parafrasare quelli cantati dal grande fiorentino. Emergono assonanze e rime baciate, battute secondo il ritmo di una ballata popolare, con i versi che si allungano e poi tornano indietro, come secondo un’altalena di numeri a volumi sillabici. C’è ancora tanto altro, in questa scrittura  ad alto numero di ottani –non ultima la sprezzante ed ironicissima cifra siciliana, quasi si fosse sul set di un film di Germi, tipo “Sedotta e abbandonata”, oppure “Divorzio all’italiana”-. C’è, infine, il gioco funambolico attuato sulla lingua, all’interno della quale, come già detto,  le rime e le ripetizioni di frammenti in –ato, -ata, -ate ed altro, fanno da sincope perfetta. Che dire di più se non diramare a tutti voi l’invito a leggere i testi di questa autrice fuori dai giochi a tavolino?

**

da “I morti non sono nervosi” (inedita)
Per chi scorre l’acqua nel lavello
per chi è questo gorgoglio festoso?
Nella cucina per te ho starnutito
poi, affettando le cipolle novelle, 
ho pianto.

**

In questo silenzio che non è silenzio
in una cucina vuota e disadorna
guardo il cerchio sbilenco e immagino il passato.
Sono andati via tutti ed è calato il sipario
ma ancora sento i loro sguardi addosso
e assieme al ronzio del frigorifero che ghiaccia
e al tiritic dell’orologio a muro
mi risuonano indentro parole confuse.

Così questo silenzio non è vero silenzio, 
giacché il silenzio non è assenza
ma totale mancanza
è un non esserci mai stati
un frigorifero spento
un orologio senza ingranaggi o mai esistito.

**
Spettacolo di seconda scelta
la parola chiave fu ludibrio.
Si modificò la forma madre
e il sipario divenne inchiostro
pochi posti furono occupati ed io
seduta in seconda fila
vidi me stessa e anche la mia faccia
in quella di cugina palliduccia.

Si riconoscono i geni al passaggio  del
ciao come stai ora ti bacio 
e sulle guance e sulle bocche aperte
e dai che si ricomincia
e invece non ricominciava mai.
Fu quello spettacolo di terza scelta
e terza fila, che il secondo non fu
o non avvenne.
Ora andiamo a guardare i luoghi dell’astruso
latrine pubbliche una dopo l’altra
cessi alla turca, cessi rialzati:
– Lo vedi questo come è colorato
e come scorre fluida l’acqua ai piedi? 
Si può affogare in poco mare
quando si è piccoli e non si sa nuotare.

**

Uomini testa braccia gambe corpo fili
uomini scatola legata contenente
stanotte mi sono arrampicata assieme ad altra gente
sul lobo stretto di un orecchio grande
salivamo uno davanti e gli altri a seguitare.

Nessuno sapeva dire come
come tornare indietro, come capire
e perché frotte di gente di diversa stirpe
ci veniva incontro e ci impediva il flusso.

E’ questo l’inferno?

L’albergo in stile Luigi sedici
la porta e una chiave barocca
e nella stanza un comodino  pomposo
e nel comodino un cassetto dorato
e nel cassetto un santino merlettato
di un vescovo morto a novant’anni.

Monsignore – c’era scritto – preghi per me che ho molto peccato.

La bambina dai tratti di zingara era dietro un cancello.

Sono senza madre – disse al bambino che la portò via.

Gli adulti e piccoli saranno divisi?

Perché visiti la mia bocca?  I miei denti non erano marci.
Perché mi spezzi i molari e mi frantumi i canini?
Ora non potrò più mangiare.
Le mia labbra sono vuote come incarto di caramelle
nella mia lingua un tubo incatramato
e tappeti di canapa nera sopra stesi.

**

E’ un periodo questo che penso alle petunie
sarà per via del nome per quell’assonanza strana
con paturnie. I nomi dei fiori è naturale che siano nomi fioriti
ad esempio rosa e margherita, sono nomi comuni di donne
di donne comuni sbocciate di sera o di mattina nate come tante
poi dimenticate. al mercato però ci sono pure fiori strambi
nati per  uno scherzo di natura
o per unione forzata e sono fiori maschi dai nomi esotici e surreali
e per chiarezza ne faccio un breve elenco:
anthurium e aster e lisianthus e anthirrinum 
ma è chiaro che sempre preferisco narcisi e girasoli.
Strelizia poi mi piace, mi fa pensare alla strenna natalizia
un po’ alle stelle o alla delizia e a quella liquirizia nera 
a forma di scarpone che mangiavo da bambina.

se appartiene alla famiglia delle musacee
ed è una brattea a forma di barca
è solo una combinazione.

**

Antonella Pizzo nata a Palazzolo A. (SR) nel 1954, vive a Ragusa.
Ha pubblicato: Il romanzo Di rosso smunto – Prospettiva Editrice, 2004; la raccolta di versi “Fra poco l’autunno” – e book Edizioni Kult Virtul Press, 2004. La silloge in dialetto siciliano “Strati”, CDB Ragusa 2004.  La silloge in dialetto siciliano “E su paroli nuovi”, 2004. La raccolta di versi “A forza fui precipizio” (Lietocolle, 2005) “Voci in moto contrario” poesie assieme a Fabrizio Centofanti – e book Edizioni Kult Virtul Press. Inserita nell’antologia “Verso i bitpoesia e computer” –  Lietocolle. Inserita nell’antologia del premio Lo stormo bianco 2004 – Edizioni d’if. Una sua composizione è stata scelta da Maurizio Cucchi e  pubblicata nel 2004 sul settimanale Specchio allegato al quotidiano La Stampa
.

 

postato da: nestore22 alle ore 23:44 | link | commenti (84)
categorie: poesia
martedì, 20 giugno 2006

BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.18

  

Cribbio, l’ospite che da oggi sarà con noi per quattro giorni è proprio una new entry assoluta, in poesia! Nessuno lo conosce, se non per qualche sporadica partecipazione, in qualità di commentatore, su qualche blog. Sto parlando di Marco Ricci, marchigiano di Macerata, con la passione per la narrativa (intendo come autore, naturalmente). Alcuni mesi fa, dietro un mio intuitivo invito, il nostro amico mi mostrò alcune poesie, quelle che oggi sto per pubblicare qui di seguito. I testi mi colpirono per la loro levità e per la loro forte valenza “ungarettiana prima e penniana dopo”. Grande compostezza e grande eleganza. Del resto, Marco è proprio così come persona: un giovane uomo riservato, sofisticato nei gusti, e fornito di grande educazione. Del resto, non c’è troppo da stupirsi: dalla regione di Leopardi provengono individui che sembrano carati su questi valori ormai introvabili. Presento quindi con grande piacere questo autore: non me ne vogliano gli altri amici, ma per un attimo saremo totalmente fuori da ogni coordinata di conventicola e di club. Caratteristiche senz’altro umane e condivisibili, ma forse non del tutto necessarie.

**Marco Ricci è marchigiano di Macerata. Non mi ha inviato nessuna nota bio-bibliografica, sicché ora tenterò di stilarne una io, del tutto relativa ed incompleta. Eccola: Marco ha lavorato a Roma per diversi anni, ma recentemente è tornato a vivere nella propria città di origine. E’ scrittore in prosa (ma non ancora edito, che io sappia). Ha un bel bimbo con cui trascorre tutto il tempo che può. So che è nato negli anni Settanta. E’ mio amico. Ho trascorso assieme a lui una bellissima giornata autunnale nei dintorni di Macerata, parlando di vita e di scrittura.

Credere in nessun vero
tutto quello che so

Pollini nel vento
ciò che vola e che resta

A ben cercare
altro
non c’è

**
Veleggio sulla corda
con l’allegria del ballerino

Un ombrello aperto
e fiori gialli in mano

**
Una cartapesta
con lo scudo e la spada
sui fili delle arance

Eppure si scolora
Eppure
Non si riconosce

**

Memoria di una notte

Scia di bronzo
notturna sul mare quando dormi

Le ombre si sfiorano
al crepuscolo di una candela

Scivolerai al primo soffio
come i vapori d’argento
dai campi
la mattina

**

Luglio ‘99

La luna dal vento
la notte dal mare

Un’onda
c’insegna a respirare

**
Luglio ‘05

Il vento
stanotte
s’è posato
tra le onde notturne
e le file delle case

La quiete
dei nostri rami
avvolge il tempo
che si spande e si chiude
sui riflessi del porto
nella sera

Un tremito d’ambra
una foglia
carezza ancora il tuo viso
e le mie parole si perdono
tra le lucciole
sul mare

I vascelli di carta
che muovono in tondo
nella risacca
sembrano dire
“Come allora noi siamo
nient’altro”

Ma ora il cerchio
riposa
dopo tanto ansimare

**
(Chiaravalle di Piastra – 16 agosto ’05 – mattina)

Umanità dispersa
al tepore di un rosone

Fuori sarà un’ora

Che importa

Nel buio
scivola lenta una nenia

Sugli alberi
il vento

**

 

postato da: nestore22 alle ore 19:53 | link | commenti (53)
categorie: poesia
giovedì, 15 giugno 2006

BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O EMERGENTI N.17

  

Luca Frudà è un autore che ha iniziato a pubblicare le proprie raccolte di versi molto presto, a cavallo dei vent’anni. Per quanto il suo lavoro sia sempre stato improntato all’impegno e alla ricerca di equilibrio, non si può forse dire che gli sforzi dell’adolescenza riescano a stare al passo con le nuove composizioni del presente. Questo peraltro è un discorso che non riguarda soltanto Luca, ma che vale per tutti coloro i quali abbiano avuto la ventura di vivere un inizio precocissimo in poesia. Ora però veniamo ai testi inviati a “La costruzione del verso”; testi che portano evidente la cifra di una maturazione significativa. Alla tematica da sempre avuta nel cuore dal nostro Frudà, si aggiungono oggi frammentazioni molto interessanti le quali, pur dirottando nel consueto formulario esistenziale e affettivo, a un certo punto affrontano binari diversi che si incuneano nel lavorìo della descrizione di una vita lenticolare, parallela all’oggettistica dell’uomo di oggi.  Esempi esplicativi posso essere i seguenti estratti: “Faccio il morto / mi mortifico / galleggiando / per finta / e per legge universale…“; “Ci appartengono / creazione e distruzione / qualcosa e il suo opposto / il desiderio e il ripudio…“; “Come il rubinetto che perde / nel silenzio di una casa / come la voce che spande / invano nel deserto / così io mi rifugio / nel mezzo delle dune…“. Si rilevano lampi quieti, ironici e smagati, che servono a descrivere tutta una condizione umana particolare, anche suffragata dall'”isolitudine” siciliana. Le figure retoriche appaiono spesso ipo energetiche e fanno scaturire  in noi una certa curiosità per quanto attiene all’immediato futuro di questo poeta nato a Catania (e residente da molti anni a  Giardini Naxos), ma dall’aspetto fortemente “svevo”.

**

Il dolore di sempre

L’animo è sempre solo
si soffre il dolore di sempre
la solitudine che tace
ma che è onnipresente
.

 

Non sono una sirena

Faccio il morto
mi mortifico
galleggiando
per finta
e per legge universale.

Sotto, nel mare
parlo
ma quello che dico
è muto
ed anzi ingoio
l’acqua, nella gola,
amara e salata.

Non sono una sirena.

Io non incanto
chi passa
e passa solo il tempo.

La mia voce si perde nel mare
e viene sola l’indifferenza.

Eppur vive la parola.
Il cammino

Come il rubinetto che perde
nel silenzio di una casa
come la voce che spande
invano nel deserto
così io mi rifugio
nel mezzo delle dune
dove forse un giorno qualcuno
s’imbatterà in fogli
sporchi di sudore e sabbia
ma caldi come il sole
che li ha scaldati.

 

Felicità

Paesaggio che stupisce
cupidigica attesa
  di realizzazione al fotofinish
soddisfazione in arrivo
bellezza casualmente trovata
oasi di bene nel male
riposo silente
  dinanzi alla porta dell’Eden.

Forse
breve infrazione
alla regola della tristezza.

L’attenzione

Ci appartengono
creazione e distruzione
qualcosa e il suo opposto
il desiderio e il ripudio.
E il nostro pensiero fa e disfa
come una Penelope impazzita.

Come una fenice
in e felice
stiamo
ricostruendo e disfacendo
il fatto e il sentimento
ma l’amore è
nell’attenzione.

Il distacco

Il contatto con gli altri
che estranea dal mondo
la solitudine ad una festa.

Il passeggero di una nave
che erra
pensando che il porto si allontani
mentre la sua nave solca le onde
e si confonde sempre più con l’orizzonte
.
Il dolore

Non respiravo più
il pianto pesava sul petto
e l’aria non penetrava.

Per il dolore
mi sono dato
un pugno al cuore
ma non si è fermato
ha continuato a battere
indifferente a se stesso
freddo.

M’accolse il buio
prima che alcuna luce.

**

Luca Frudà, scrittore di versi e prose, è nato il 2 Luglio 1978 a Catania, ma risiede a Giardini Naxos (Me). Ha collaborato per alcuni anni alla rassegna di cultura classica Extramoenia del comune di Giardini Naxos (Me).  Si è laureato nel luglio del 2003 in Lettere moderne presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania con la tesi “Per un’analisi semantica dei Malavoglia”. Ha collaborato alla rivista letteraria Logos e collabora attualmente alle riviste Carmina e Letteratura-Tradizione. Ha partecipato a concorsi nazionali di poesia con segnalazioni e primi posti. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Io, il Mio Amore (Ed. Il Calamaio, Roma 1996); Poesia cortese (Ed. Il Calamaio, Roma 1997); Uomo allo specchio (Nicola Calabria Editore, Patti (ME) 1998); Sole notturno (Edizioni Il Foglio, Piombino (LI), Prima edizione 2003; Edizioni Il Foglio, Piombino (LI), Seconda edizione 2004). In prosa ha pubblicato la raccolta I segreti (Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2004) e il saggio I Malavoglia: semantica e genesi del titolo. Sue liriche compaiono in antologie e riviste.
Blog:  http://lucafruda.splinder.com
Sito internet:  http://xoomer.virgilio.it/lucafruda

****

Ricordo che, durante il prossimo mese di luglio, Filippo Davoli darà l’avvio alla consueta rassegna maceratese che pone all’attenzione del pubblico poeti, scrittori, cineasti, musicisti, pittori e chi più ne ha, più ne metta. Operazione quanto mai significativa che si pone l’obiettivo di dar conto di quanto di meglio esista oggi, nel mondo della cultura e dell’arte. Per maggiori informazioni, connettersi con il blog “Davoli vostri“, linkato a fianco.
Gianfranco Fabbri 

 
postato da: nestore22 alle ore 23:40 | link | commenti (58)
categorie: poesia, riflessioni
lunedì, 12 giugno 2006

INTERMEZZO

  

L’ultimo libro di Alberto Bertoni, “Ho visto perdere Varenne”, pone sul piatto l’eterno conflitto tra il tempo del presente e quello, ben più evocativo, del passato. Questo progetto non parrebbe però il solito lavoro incentrato sul concetto “si stava meglio quando si stava peggio”, quanto invece la valutazione problematica della stagione che non c’è più. Il titolo del libro mi dà un’impressione vagamente simile a quello del film di Pietrangeli, “Io la conoscevo bene”. L’analogia atmosferica di queste due titolazioni è tutta nell’”essere stati testimoni di un evento  vissuto”. “Ho visto perdere Varenne” significa anche dire: “i miei documenti non sono le carte che cantano, ma gli occhi; i miei occhi che hanno visto in diretta la Storia e la mia piccola storia”. In questo lavoro, ho letto un felicissimo Bertoni alle prese con le proprie problematiche, più che con le sue felicità. Un Alberto sorprendente che si è lasciato dietro ogni laccio con la grande cultura accademica per approdare, anima e corpo, alla sua umanità, alla sua sapienza del cuore. Una pagina via l’altra, ecco l’autore rendersi ora dolce, ora ironico, ora invece pessimista e doloroso. Ne esce fuori un quadro netto, eppure sontuoso: non un viaggio a ritroso nel tempo, bensì un tempo del passato che investe il presente e lo camuffa da tempo andato. Si vive in diretta, ricordando l’azione potente di “differimento”. Bertoni è alle prese con l’arco di vita soggettiva e con il corpo, che quasi tratta da “corpo estraneo” a sé stesso. Basti questo incipit bellissimo, per capire: “Il corpaccione respira, lavora / ha un principio di diabete / prova attrazione, ne riceve / quasi mai riposa …/”, quasi fosse, la quintalata di mole, un animale che lui ha reso domestica quanto può esserlo la gatta di casa, chiamata “Musetta”. In tale arco di vita vi compaiono, protagoniste e ancelle, le due città più amate: Modena e Bologna, tra le quali l’autore si sposta e vive gran parte del suo presente. In questa bella raccolta di versi si scende nel piccolo infernetto dei fatti minimali: che so; un cellulare che suona, il relativo discorso con una lei che accorda o non accorda felicità. C’è l’impatto con il traffico cittadino, uguale ed angoscioso come sempre. Vi sono abboccamenti con una carnalità passionale di primo piano, come ad esempio nel seguente scampolo, tratto da “Frammento del ‘77”: “E’ un brivido indicibile, supremo / sfiorarti il seno / stringere il tuo vero / corpo invece dell’unghiolo…”. Il lettore poi incappa in fotogrammi degni di un grande cinema europeo, come quelli di pagina 39, là dove Bertoni dice: “La visione dei miei / in bagno all’alba / mia madre accovacciata, mio padre / in piedi mentre piscia / e io nel corridoio / la luce cruda, la vescica che scoppia …”. (“Visitors”, pag. 39). Da una stagione all’altra, la passione per i cavalli e le corse relative, ereditate dagli uomini di casa, farciscono questa esistenza di formazione, facendo dell’ippica (e del beniamino Varenne) il lei motiv nascosto, eppure vivido ed efficace, di tutto il romanzo in versi.
Dal corpo giovane di Alberto agli amori in divenire, ai fatti minimali del comune vivere di tutti noi, si giunge infine ad un altro corpo fisiologico: quello del padre che, a causa dell’alzheimer, declina verso una rovina totale delle sinapsi. Figlio e papà si riuniscono allora in una nuova vita di relazione, fatta di dolcezze, di fatiche, di consapevolezze amare e di scazzi repentini, quanto evanescenti. La morte del senior sarà la perdita di parecchi attrezzi del magazzino mnemonico del figlio: il vecchio si porterà via un poco la Modena delle passate stagioni, gli occhi delle ragazze amate da Alberto, le incazzature della gioventù, nonché i controsensi del vivere quotidiano.
Poesia “emiliana” quanto mai, quella del nostro ospite. Il suo è un dettato ove l’io poetico, le locations e l’intendere l’uso terragno dell’esistenza, rasentano, in ogni momento, la concretezza dell’agire, tipica di quelle terre. La costruzione dei testi, però, pare avvertitissima, nel suo evidenziare le rime, le rimalmezzo e altri elementi messi a disposizione dall’arte del verso. Vi è spesso evidente, all’occhio di chi legge, l’accumulo di oggetti veri e anche di oggetti mentali; di frasi attorcigliate che regalano al lettore alcune difficoltà che però vengono superate dal piacere di scoprire gli orizzonti alle tematiche e gli spazi di quella specie di West che è la pianura padana. Si pone sempre, in ultima analisi, il dilemma: quali sono i padri di questo bravo poeta? Direi, il Novecento tutto; e, in particolare, il Novecento padano, sul confine tra la Bassa lombarda e l’Emilia. Istintivamente rivedo in lui un poeta di Mantova, suo grande amico, che risponde al nome di Giancarlo Sissa. Azzardato il dirlo? Secondo me, no. I due autori hanno in comune un lessico concreto, ma pure concesso a minuscole visionarietà: disincanto reale e fede laica parrebbero essere le cifre che li uniscono.
“C’ero anch’io”, ci dice in chiusura Bertoni; “c’ero anch’io quando Varenne perse la sua corsa”. Una testimonianza che è anche radice e memoria, oltre che impatto emotivo personale.

Gianfranco Fabbri

Due poesie tratte dal libro:

VISITORS

La visione dei miei
in bagno all’alba
mia madre accovacciata, mio padre
in piedi mentre piscia
e io nel corridoio
la luce cruda, la vescica che scoppia

La visione del tiglio
popolato di zombie
ma sul ramo più alto
il figlio di un asciugamano povero
mio bisnono Geminiano morto
di febbre spagnola nel ’18

La visione di un volto
il tuo o un altro non è chiaro
nella telefonata al limite del pianto
quando l’aria è canto

**

IL CERVELLO DI MIO PADRE

La sera viene avanti
rovista nelle case
è cenere deposta
sul balcone di fronte
mano incapace e coscia
alle prese col bucato
fra tegole e camicie
brune come squame
ossessioni di tortore o torture
nel cervello di mio padre

Inadempienza e morte,
un profilo di cera
dietro la portiera della monovolume
che impedisce la strada, la restringe
a vena fossile e nessuna
idea di fuga o di navigazione lungo
i rami del vastissimo orizzonte
nel riposo delle ruote, dei cigolii, del cuore.

ALBERTO BERTONI – “HO VISTO PERDERE VARENNE” – PIERO MANNI EDITORE- LECCE- 2006 – PAGINE 95

postato da: nestore22 alle ore 14:57 | link | commenti (40)
categorie: poesia, critica letteraria
giovedì, 08 giugno 2006

BACHECHE POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N. 16

  

Ed eccomi giunto a presentare un poeta toscano, il quale, pur già camminando nella sua piena maturità, presenta caratteristiche esistenziali che possono senza problemi avvicinarsi a quelle di un uomo molto più giovane, anagraficamente. Sto parlando del pisano Giacomo Cerrai, un autore schivo e raffinato, il cui segno trova appunto il suo spazio migliore nella complicazione “peterpanesca” di un talento che non vuole invecchiare. Pur nel rigore del pensiero profondo e ricco di atmosfere culturali, Giacomo affronta l’insonnia con la levità di chi ha ancora desiderio di superare le istanze vitali. “Il flusso acquoreo del sogno”, come lui stesso dice, è il manifesto immaginifico nel quale egli definisce l’idea dell’esistenza e del combattimento quotidiano, entro cui i paesaggi e gli uomini vivono in una rarefatta atmosfera.
Cerrai viaggia nella zona franca esistente tra l’anima e il corpo –una sorta di deserto dei tartari- in cui consumare  “il cerchio distante degli uccelli” o “il respiro d’un fianco lancinante”. Una voce sobria, mai fuori dalle righe di un dettato personale.

**

non è che una storia
d’ossessioni, vissuta a strati, come
un perito settore: se dividi
il corpo o l’anima tu trovi
tracce
di qualcosa che nemmeno supponevi,
avanzi maldigeriti di vita,
amorazzi, fantastiche
perdite di tempo.
Affondando la lama scopri
sconfitte e resurrezioni,
più a fondo, dove l’acciaio incontra
l’acciaio del tavolo,
è come uno specchio, dove deforme,
tentando debolmente di chiedere scusa,
trovi finalmente
la tua faccia.

nov. ’99

**

E adesso che invecchio, adoro le spiegazioni semplici.
                                         (A. Giuliani)_ 

/…e d’un freddo senza domestichezza,
settembre è trascorso inutile e improvviso,
come una fila diradata
di cipressi…
Niente è così straniero come
questi campi rattratti
nel grigio o spopolati o il cerchio
distante degli uccelli. Nel cerchio
si scopre l’alba farsi, ove
sui tetti plana la futilità dei sogni,
e vi riflette. Ecco,
di desideri irrisolti s’ammucchia
una coperta ruvida, il respiro
d’un fianco lancinante,
e c’incurva il peso
di qualcosa che non si comprende
appieno, il veleno
d’un complesso orizzonte.
Non siamo padroni di noi stessi:
e s’accartoccia
quella pretesa così moderna e assurda.

Ott.95 – Apr.96

**

così legati alla realtà
che ci circonda, una serie infinita
di urti, collassi, radiazioni,
il cielo bianco di calura
tu che passi nel vano della porta,
lanci uno sguardo dentro
come chi aspetta il tempo,
un’ora in cui tutto diventi semplice
una semplice linea senza rimpianti
un costante presente o un poi
di certe garanzie o sinecure
d’amore eterno in tutte le sue forme
o anche solo una “cosa normale”
per carità che pure andrebbe bene…
insomma che tutto funzioni
come dovrebbe come
il diritto di ognuno
solo quello che abbiamo
così radicati alla vita come attinie
fluttuanti di vivaci colori
nella ininterrotta corrente…

27/06/03
**

MUGELLO

niente è così difficile
come il facile lasciare tutto
abbandonare le castagne alla terra
spezzarsi i ginocchi oltre il torrente
varcare il crinale dei monti
senza nemmeno girarsi
senza pagare il conto
all’osteria, tanto
non ripasserò più da questi luoghi,
e liberato dal bisogno
dalla necessità di amore
dai ritorni e dai sogni
separare le foglie
calpestare la terra e le radici
dissipare le nuvole
e tirare su il fiato su
sulla cima a guardare dov’ero
mentecatto

ott. ’05

**

che consiglio c’è nella notte
che varianze d’intenti
a dissipare i dubbi
trovare forse
l’introvabile
suppurare appunto
la ferita del giorno, quella
verginità
del sogno persa
conoscendo        se
non c’è notte sopita
né consiglio
solo
la luce d’una mattina dopo
i lunghi filari delle cose
disposte così
semplicemente
nitide e ineludibili
come carcasse
bianche
e i fiori che come altri
se ne vanno senza
salutare

set. ‘05

**

anche a notte fonda un ricettacolo
bruno
dove l’assillo del tardi
non funziona e tutto si riporta
al solo flusso acquoreo del sogno…
qui le parole perdono
la loro fatica,
qui mi chiedo perché
mi affacci alla sera
con questa precipitante stanchezza
d’inventari
e la bocca amara degli ambulatori,
di giorni dei defunti,
di madri perenti di morfina
e di molte bugie…
ma qui chino il capo
nell’ombra del corpo
e l’orma del cuscino accoglie,
di riffa o di raffa libero
fatto di pietà
e di qualche modica speranza.

ott. ’05

**

Giacomo Cerrai è nato a S.Giuliano Terme (Pisa) nel 1949. Ha studiato a Pisa, dove abita e lavora, e dove si è laureato in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea con Silvio Guarnieri, con una tesi sulla rivista letteraria fiorentina “Solaria”. Ha pubblicato solo una piccola raccolta, “Imperfetta ellisse“, prefazione di Cristiana Vettori, negli “Opuscoli di Primarno” della Accademia Casentinese di Lettere, Arti e Scienze. Ha collaborato con un proprio testo bilingue a “Private” n. 18/2000, rivista di fotografia e scrittura, ed è uno degli autori del volume dedicato a Cesare Pavese “AA.VV. – Cesare perduto nella pioggia” a cura di Massimo Canetta, Di Salvo Editore Napoli. E’ stato redattore, fino alla chiusura avvenuta alla fine del 2002, della sezione Poesia del sito di letteratura “I Fogli nel Cassetto“. Sue poesie sono su Dadamag n.6 (1999). Cura il blog di poesia e altro “Imperfetta Ellisse” (http://ellisse.altervista.org)

___
Filippo Davoli ha reso noto su DAVOLI VOSTRI, qui a lato linkato, il programma relativo all’estate maceratese. Consiglio a tutti i miei visitatori di “fare un salto” in quel bel sito per saperne di più sul cast davvero ragguardevole! Sì, io sono tra i divi. (Perché non si capiva?…).

Gianfranco birbone.

postato da: nestore22 alle ore 21:18 | link | commenti (24)
categorie: poesia

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